In Italia non si può fare come in Cina, dove per costruire una diga si deportano 2 milioni di persone. Se gli interessi generali entrano in conflitto con quelli di una comunità locale, la risposta non può essere "militare", bisogna convincere, trovare delle compensazioni. Ciò detto, restano i dubbi sulla Tav
La lotta degli abitanti della Valle Susa contro la TAV ha radici antiche, che affondano in vicende di almeno un quarto di secolo.
Già quando si avviò la costruzione dell'Autostrada, che da Torino raggiunge Bardonecchia, passa attraverso la galleria del Frejus e raggiunge Modane era nato un forte movimento di opposizione, con radici ambientaliste, che si saldava con le preoccupazione degli abitanti di molti dei paesi della bassa e media valle, che temevano sfuggisse loro una parte (residuale) del turismo che li attraversava diretto alle stazioni di vacanza dell'alta valle.
Quindici anni dopo era stata la volta della costruzione dell'Elettrodotto ad alta tensione, che congiungeva l'Italia alla Francia e doveva consentire importazione di energia dalle centrali nucleari di oltr'alpe. Qualche anno fa si aggiunge la vicenda dell'Alta Velocità, che si trasforma poi in "Alta Capacità".
Anni fa, in occasione della vicenda "Elettrodotto", quando già si parlava di TAV, mi ero interrogato su questo quesito "di scuola": supponendo che tutte le opere di "reti", che attraversano le montagne in questione siano necessarie (autostrada, elettrodotto, TAV), è giusto che pesino tutte sulla stessa Valle? O sarebbe più "democratico" distribuire il carico ambientale che ne deriva sicuramente (almeno durante il periodo dei lavori) su tre valli diverse? Sarebbe stato meglio, al limite, incentivare il trasferimento di tutti gli abitanti della Valle in altri territori di residenza e di lavoro, concentrando lì il passaggio di tutte le "reti"; oppure ridurre la concentrazione del carico, del disagio (e della opposizione e della protesta) rarefacendone il peso su un territorio più vasto?
L'interrogativo era, appunto, "di scuola". Non si aprì una discussione su questo terreno. Né, allora, le ragioni e le organizzazioni ambientaliste avevano raggiunto una legittimazione sociale e politica pari a quella attuale. Tuttavia il problema, anche dal punto di vista teorico, di "modelli di democrazia", mi sembra di grande attualità e mi sembra utile segnalarlo.
Accanto a questo c'è un secondo tema di "modello di democrazia" e, insieme, di "governance", che val la pena di tener presente, perché prepotentemente alla ribalta in questa intricata vicenda, proprio in queste settimane.
Sono sempre più numerosi gli esempi di conflitto tra "interessi generali" di un paese, o, almeno, di un territorio vasto e dei suoi abitanti, e gli "interessi" di una parte "piccola" dello stesso territorio (e dei relativi residenti); in genere si tratta di situazioni in cui sulla parte "piccola" grava il peso del "carico ambientale" maggiore della costruzione di un'opera, "grande", la cui utilità è largamente condivisa. Centrali elettriche; inceneritori di rifiuti (termovalorizzatori); ecc.
Chi decide e come? Quali "compensazioni" si possono offrire alla parte della popolazione più danneggiata?
Nel passato forse c'erano problemi analoghi, con due differenze importanti. L'Enel ha costruito molte delle proprie strutture "invasive" (centrali, elettrodotti, ecc.) "compensando" i piccoli Comuni sul cui territorio venivano insediati, con la costruzione di palestre, piscine, ecc. per la cui costruzione tali Comuni non avevano risorse proprie. Dopo la legge n. 10, tale pratica non è più percorribile. E' un bene. Spessissimo è stata una via di corruzione; di singoli amministratori; più in generale, delle coscienze.
Il problema è che non si è sostituita questa pratica con nient'altro; né sul piano delle "contropartite"; né su quello delle metodologie di approccio e di controllo del processo di sconvolgimento del territorio.
Io penso che se un'opera, anche se necessaria ad una comunità grande, per essere costruita, sconvolge una parte minore di questo territorio, forse può essere accettata se vi sono contropartite confrontabili su un terreno simile; migliorando in modo sensibile qualche altro aspetto importante dell'ambiente in quel territorio. Le mie sono riflessioni teoriche, certo; ma anche molto concrete. Lo sanno tutti quegli amministratori pubblici, di destra o di sinistra, che hanno provato a costruire una centrale o un inceneritore in questi ultimi anni; almeno in Italia; in qualsiasi parte del paese. E' molto difficile che riescano a deciderlo. Se lo decidono, è molto difficile che riescano a cominciare i lavori. Quando li iniziano, lo fanno, molto spesso, "militarizzando" il territorio. Non è detto, poi, che riescano facilmente a terminarli.
Ne sa qualcosa la brava Presidente della regione Piemonte, Mercedes Bresso, che ha a che fare in queste settimane con la Valle di Susa e la TAV, appunto.
Spesso, in queste situazioni, la parte di territorio che non è d'accordo, contesta anche la validità dell'opera in questione. Ma anche quando ne riconosce l'utilità, si batte perché sia fatta in qualche altro luogo; "non nel mio cortile"!
Questa è la seconda differenza importante: non è più possibile, in regime democratico, decidere sul destino di un territorio e della sua popolazione "contro" e "senza" quella popolazione, in nome di "interessi più generali": non viene più riconosciuta automaticamente una "legittimità gerarchico/piramidale" ai diversi livelli delle istituzioni (circoscrizione, Comune, Comunità montana, Provincia, Regione, governo, Comunità europea), per poter decidere sulle condizioni di vita e di ambiente in un territorio.
E' un fenomeno diffuso su tutto il territorio nazionale: da Susa a Caserta, da Napoli a Torino, a Venezia. Non è detto che la situazione sia molto diversa e il conflitto sia, sostanzialmente, meno duro nel caso in cui il livello istituzionale dove si assume la decisione vede un governo di centro/sinistra o uno di centro/destra. Forse la "forma" di tale conflitto può essere differente: nel modo in cui vengono fatti intervenire polizia e carabinieri. Ma la sostanza è che lo scontro resta duro, anche perché il nostro modello istituzionale non possiede schemi adeguati a conflitti ambientali e territoriali di questo genere, per loro natura, molto "moderni".
In Cina, quando si vuol fare una diga sullo Yanskij, il governo può decidere di evacuare 2 milioni di persone. E' un governo autoritario, che non ha bisogno del consenso di parti della popolazione.
In Italia non si può.
Quindi, se, nel nostro modello istituzionale di democrazia, non sono previsti meccanismi di composizione di tali "conflitti di interesse", allora è ancora più necessario fare molta attenzione all'itinerario che porta alla decisione prima, alla costruzione poi di una grande infrastruttura. E' necessario trattare la questione come un oggetto delicato e fragile. Bisogna introdurre itinerari di "partecipazione" e di "negoziazione" innovativi, con le popolazioni e con i loro rappresentanti. Fino dall'inizio della progettazione della nuova opera. Non esistono alternative che non siano autoritarie.
L'appartenenza ai medesimi schieramenti politici non è certo sufficiente a sciogliere i nodi. In Valle di Susa la maggioranza dei sindaci è di centro/sinistra; di più: aderisce ai DS, come lo stesso presidente della Comunità montana. Questo ha consentito una gestione del movimento intelligente, partecipata, non violenta. Ma non ha reso i Sindaci stessi più docili ai molti dictat di Sergio Chiamparino e di Mercedes Bresso, anche loro aderenti al medesimo partito. Piuttosto ne ha fatto veri leader di movimento, che chiedono rispetto e vogliono essere trattati da pari a pari dai livelli istituzionali "superiori".
"Partecipazione" e "negoziazione" devono essere veri. Non si può pensare che sia risolutivo un atteggiamento, un po' intellettualmente arrogante, nel fondo, che parta dalla convinzione che gli abitanti e i Sindaci siano "ignoranti", che siano degli scolari da istruire, dei vasi vuoti da riempire.
Siamo nel 21° secolo e gli strumenti di informazione sono molti e facilmente reperibili da chi li cerchi. Tanto più in un territorio dove si combattono battaglie ambientaliste da oltre trent'anni e si è formato, quindi, un diffuso sapere e una diffusa attenzione popolare su questi temi. Inoltre, come è noto, non si è neanche fatta la Valutazione di impatto ambientale sull'opera. Di più (anche questo è noto!) tra gli esperti di questi temi (a cominciare dai tecnici di Trenitalia) vi sono molti dubbi sulle tecnologie scelte e sul progetto nel suo insieme.
Questo non vuol dire che valligiani e Sindaci sappiano tutto e lo sappiano bene. Come in tutti i movimenti di massa che non hanno una storia sufficiente alle spalle, ci sarà stata anche disinformazione e/o cattiva informazione. Ma è probabile che abitanti e Sindaci sappiano anche molte più cose sulla Valle di quanto non ne sappiano gli amministratori pubblici dei livelli "superiori".
Vanno presi sul serio. Andavano presi sul serio fin dall'inizio. Bisogna aprire non soltanto un "dialogo" (che, per fortuna, si sta aprendo in queste ore). Va aperta una "negoziazione" che possa anche modificare il progetto attuale. Va cercato un compromesso tra interessi in conflitto che salvi le questioni centrali per ognuna delle parti.
Nel merito forse non sono abbastanza preparato. Nel senso che non sono un tecnico. E che ci vogliono tecnici di molte discipline. Ma alcune osservazioni credo che si possano fare.
Credo che la TAV (anzi: la TAC, treno ad alta capacità; solo per le merci), vada fatta; credo che sarebbe un errore non stare dentro a una grande operazione tecnologica e infrastrutturale europea, come sarà il "Corridoio 5", da Gibilterra a Kiev, per molti motivi, troppo lunghi da elencare. Tra l'altro, oltre a molti di quelli che altri, molto più autorevoli, hanno ricordato più volte, vorrei solo aggiungere il fatto che già una parte importante della linea, in suolo italiano, è molto vicina alla conclusione costruttiva (il tratto tra Torino e Milano), e che sarebbe sbagliato non usarla.
Sulla presenza di amianto e uranio nella montagna, non dico niente; prima o poi bisognerà fare altri carotaggi, sufficienti a fornire conclusioni comuni e scientificamente solide. Allora bisognerà capire se bisognerà abbandonare ogni velleità, oppure se sarebbe possibile scavare il tunnel. C'è un argomento, però, che a me sembra molto forte a sostegno di quanti sono contrari al tunnel stesso.
Supponiamo pure che siano risolte le paure per amianto e uranio (non banali, peraltro: ricordo, en passant, che, negli anni 1970/80, in Piemonte, vi furono i casi dell'Eternit, delle fabbriche di freni, della Cava di Balangero, ecc. che portarono, anche per volontà e scelta del sindacato, alla chiusura di quelle aziende, per pericolo da asbesto!).
In questo caso, tuttavia, il lavoro di costruzione dell'opera prevista dovrebbe durare almeno per tredici anni. Come è noto non ci sono i soldi oggi. Non sarà facile trovarli domani. E' ragionevole pensare che, di anni, ce ne vorranno molti di più. Sono molti quelli convinti (dati anche i precedenti in molte opere pubbliche infrastrutturali, molto minori come impegno di spesa e come difficoltà tecniche), con buona ragione, che non ci vorranno meno di vent'anni per concludere i lavori del tunnel.
Questo significa che, per un tempo infinito, migliaia di camion e di pulman ogni giorno si aggiungeranno ai "normali" migliaia di TIR che percorrono la valle: per portare via i detriti, per portare macchinari, rifornimenti, lavoratori, ecc. Realisticamente, si può pensare che per vent'anni una parte della valle sarà sottosopra. Vent'anni sono tantissimi; sono la vita di tutte le persone adulte che vivono in valle!
E' comprensibile che la maggioranza di loro si opponga a questi lavori? E proponga soluzioni diverse, alternative? E' comprensibile che non si facciano convincere che sia proprio necessario che una tratta ferroviaria ad Alta Velocità, che deve viaggiare da Gibilterra a Kiev (supponendo che tutto ciò sia realistico, utile, economico), per trasportare merci, debba per forza andare ad altissima velocità anche in un tratto di montagna medio alta, per cui non è possibile allargare, abbassare e adattare il tunnel esistente? E sconvolgere le loro vita per vent'anni? altrimenti altrimenti, che cosa?
Oltre a tutto, in un tunnel così lungo, mi sembra, il treno non può andare, comunque, velocissimo, perché funzionerebbe come un fucile ad aria compressa e uscirebbe con un botto, pericoloso per le pendici della montagna, in una valle stretta.
Si dice anche che il tunnel attuale è troppo in alto, c'è troppa pendenza (il famoso 3), che ci vorrebbe un'altra motrice per quel tratto, ecc. Non sono un tecnico sufficientemente preparato per dire se è vero o no; sono certo comunque (vi sono numerosi tecnici che lo affermano, peraltro) che sono problemi tecnologicamente superabili, con le conoscenze attuali.
Una soluzione diversa è possibile, socialmente e ambientalmente più sostenibile, economicamente meno onerosa, accettabile dalla Commissione (come ha detto il Commissario ai trasporti qualche giorno fa), realizzabile in un tempo molto più breve. Salva la TAC e salva esigenze comprensibili della Valle.
Bisogna fare un nuovo progetto? Sì. Uno migliore.
Un'ultima osservazione. E' possibile che, militarizzando per vent'anni la valle sia possibile anche far funzionare i cantieri previsti. Siamo sicuri che sia la strada, democraticamente, più percorribile? Che il gioco valga la candela? (l'altro giorno gli operai che hanno costruito un muro intorno alla bocca del cantiere, per "difenderlo" dai valligiani - un muro: come a Berlino, come a Gerusalemme! -, lavoravano con il passamontagna, per non farsi riconoscere!).
I montanari hanno memoria lunga.
Martedì, 13. Dicembre 2005