Grandezza e miseria della globalizzazione

Saltano i miti liberisti e la teoria economica ne svela i fondamenti politici
Il nuovo secolo si è aperto con la rottura di alcuni miti che si erano potentemente imposti nell’ultimo decennio de XX secolo, dalla New economy alla Globalizzazione. La new economy era diventato un articolo di fede. L’economia non sarebbe più stata soggetta ai vecchi cicli, alle cadute improvvise della produzione, ai crolli dei mercati finanziari. Poi le cose sono andate diversamente, e si è tornati all’economia con i suoi alti e bassi, senza aggettivi e trionfalismi.

Qualcosa di analogo si è verificato per il mito della globalizzazione. La coincidenza di due eventi ha avuto un effetto dirompente. Da un lato, si riuniva a Porto Alegre, in Brasile il Forum sociale mondiale, erede del movimento di protesta di Seattle. Dall’altro, in contemporanea, si teneva la riunione del Forum economico globale che ogni anno, tradizionalmente sulle nevi svizzere di Davos, ma questa volta a New York vede il fior fiore del capitalismo mondiale celebrare i fasti della globalizzazione. Ma, proprio al Waldorf Astoria di New York, si sono levate insospettabili voci critiche che rompevano le tradizionali professioni di fede nella globalizzazione.
 
Dani Rodrik, economista di Harvard, ha messo in discussione il paradigma standard della globalizzazione neoliberista, teorizzato da Fondo monetario internazionale, secondo il quale la crescita di un paese dipende dall’apertura dei mercati e dalla riduzione del ruolo dello Stato. “Non vi è – ha affermato Rodrik - un semplice, un singolo modello di globalizzazione”, in pratica, quello teorizzato e imposto negli ultimi due decenni dalle istituzioni finanziarie internazionali. La Cina, l’India, Taiwan, la Corea, il Vietnam – che sono i paesi indicati dalla Banca mondiale come storie di successo della globalizzazione - si sono sviluppati – ha spiegato Rodrik - non aprendo indiscriminatamente i loro mercati alla concorrenza delle multinazionali, ma proteggendo le loro industrie nascenti.
 
E, se la povertà è stata ridotta in una parte del mondo sottosviluppato, ciò si è verificato, al contrario di quanto sostiene la Banca mondiale nel suo ultimo rapporto, in quei paesi che hanno saputo resistere all’ondata neoliberista, all’apertura incontrollata dei mercati interni, alla liberalizzazione dei mercati finanziari. Il contrario è avvenuto nei paesi che si sono esposti alle regole della globalizzazione. Basta guardare ai disastri dell’America latina, alla crisi del Sudest asiatico e della Russia di Eltsin, alla catastrofe sociale dell’Argentina, più che mai ligia, sotto la direzione di Menem e Cavallo, alle prescrizioni del Fondo monetario internazionale.
 
Se progressi vi sono stati questi si registrano, in quei paesi che hanno preso le distanze dall’ideologia e dai precetti della globalizzazione. Per Charles Sabel della Columbia University, la Cina e l’India costituiscono un ”esempio illuminante di un complesso intreccio fra apertura e protezione del mercato interno”. I governi finanziano la ricerca tecnologica e, attraverso di essa, favoriscono la crescita di imprese in grado di competere progressivamente sui mercati mondiali. E, sempre sullo stesso tema, Robert Wade della London School of Economics si stupisce della scarsa attenzione che “la letteratura sulla globalizzazione presta a queste esperienze”.
 
Si tratta di un’analisi che rompe lo schema astratto e ideologico della globalizzazione, come apertura incontrollata dei mercati e annichilimento del ruolo degli stati. L’esperienza dei paesi che hanno realizzato la maggiore crescita negli ultimi decenni, dalla Corea, alla Cina, all’India, alla Malesia sono quelli che hanno utilizzato l’apertura dei mercati, ma mantenendo salde le funzioni dello stato nel determinare la politica di crescita interna. Si potrebbe dire sinteticamente che hanno avuto successo i paesi che non si sono sottoposti alle regole delle istituzioni finanziarie internazionali.
In un recente libretto, Next, scrive Baricco, con la consueta verve, che è impossibile riuscire a dare una definizione della globalizzazione. Ha troppe facce per poterne cogliere e fissare una fisionomia compiuta. Che si tratti di un fenomeno complesso non c’è dubbio. Nessuno di noi, nel bene e nel male, potrebbe immaginare di viverne fuori. In questo Baricco ha ragione. Ma gli strumenti per interpretarne, da un lato, gli aspetti storici, dall’altro, le caratteristiche presenti non mancano. Due recenti articoli di Amartya Sen e di Joseph Stiglitz (American Prospect, supplemento, inverno 2002), pur diversi nella loro impostazione, ci consentono di mettere insieme i tasselli essenziali per dare al mosaico, apparentemente confuso della globalizzazione, una leggibilità sufficientemente chiara.
 
Il premio Nobel, Amartya Sen s’interroga sui significati storici e culturali della globalizzazione: “La globalizzazione non è nuova, non è necessariamente occidentale, non è una maledizione”. Oggi la globalizzazione è considerata il coronamento di della storia egemonica dell’Occidente. Ma non c’è, per Sen, un monopolio culturale nella storia della globalizzazione. La globalizzazione, come fenomeno culturale, appartiene alla storia del progresso umano. Nel corso della storia, la globalizzazione ha intrecciato culture provenienti dai diversi angoli del pianeta. A cavallo del primo millennio, fu la cultura araba a gettare le premesse del rinnovamento intellettuale che avrebbe fecondato, dopo secoli di stagnazione, la cultura prima rinascimentale, poi illuministica dell’Occidente. L’algebra nasce a Oriente. L’algoritmo, che è alla base della moderna scienza matematica, traduce il nome del matematico arabo Mohammad Ibn Musa-al-Khwarizmi. Si potrebbe affermare che siamo eredi di una storia mondiale della globalizzazione, e che essa è alla base del progresso della scienza, della cultura, della civiltà. “La tecnologia della stampa – scrive Sen - fu una conquista cinese. Ma il contenuto venne da altre culture. Il primo libro a stampa fu un trattato indiano in sanscrito, tradotto in cinese da un mezzo-turco”. Insomma, è un errore segnare la globalizzazione col marchio della superiorità storica della cultura occidentale.
Altra cosa è, secondo Amartya Sen - la questione della distribuzione dei guadagni e delle perdite, dal punto di vista economico. La critica alla globalizzazione connessa all’ingiustizia con la quale sono distribuiti i suoi risultati non significa il rifiuto dell’apertura e della cooperazione. “In effetti, molti di quelli che contestano la globalizzazione e che si battono per una diversa distribuzione a favore delle fasce più deboli “non sono, contrariamente alla loro stessa retorica e ai propositi che gli sono attribuiti dagli altri, realmente antiglobalizzazione”. E in effetti “non c’è contraddizione nel fatto che le proteste antiglobalizzazione siano diventate nel mondo di oggi eventi tra i più globalizzati”. Insomma, per Sen, “poiché la globalizzazione dei mercati è un approccio del tutto inadeguato a rendere più prospero il mondo, vi è la necessità di andare oltre le priorità stabilite dal capitalismo globale”.
 
L’articolazione di questo ragionamento è la dimostrazione del fatto che gli apologeti della globalizzazione pongono un’alternativa inconsistente: o la globalizzazione o una società chiusa e destinata a deperire nella ristrettezza dei propri confini. La questione riguarda il modo concreto di essere della globalizzazione oggi, i suoi processi, i suoi risultati.
 
E’ su questi punti che interviene Joseph E. Stiglitz sullo stesso supplemento di American Prospect – la rivista di orientamento democratico fondata da Robert Reich. Stiglitz non è solo un accademico insignito del premio Nobel per l’economia: è stato economista-capo della Banca mondiale e presidente del Consiglio degli esperti economici durante la presidenza Clinton. I tanti che parlano di globalizzazione con idee confuse o semplicemente corrivi al pensiero dominante dovrebbero misurarsi con la sua analisi. Vediamo.“La liberalizzazione del mercato dei capitali – scrive Stiglitz - è inevitabilmente accompagnata da una grande volatilità, e questa volatilità frena la crescita e aumenta la povertà”. Il Fondo monetario chiede prima la liberalizzazione dei mercati finanziari poi, per rassicurare gli investitori, impone con i programmi di “aggiustamento strutturale” la riduzione della spesa e il taglio delle reti di protezione sociale. Naturalmente, non mancano le critiche nei confronti di queste politiche, ma “nell’arena internazionale, le voci ascoltate sono solo quelle della comunità finanziaria”.
“La liberalizzazione dei mercati dei capitali non ha portato crescita. Com’è possibile –chiede Stiglitz - costruire fabbriche, creare lavoro con capitali che entrano ed escono da un paese da un giorno all’altro? (…)Non solo non ne risulta aumentata la crescita, ma è la povertà a diffondersi per molte vie. L’alta volatilità accresce la probabilità di recessione – e i poveri sono quelli che sempre ne sopportano il peso maggiore. (…)In nome della disciplina di bilancio e dell’esigenza di rassicurare gli investitori, il Fondo monetario chiede invariabilmente la riduzione della spesa che, quasi inevitabilmente, si traduce in tagli dei programmi di tutela sociale che sono già per loro natura inadeguati”. E tutto ciò non avviene per caso, o sotto la pressione di problemi contingenti. Nell’imposizione di questo tipo di scelte si riflette, per Stiglitz, la “mentalità coloniale” del Fondo monetario internazionale.
 
Arriviamo così a un punto decisivo dell’analisi e dell’interpretazione politica della globalizzazione. Il punto non è il giudizio su una generale e storica tendenza alla globalizzazione, ma sulla sua natura concreta, la sua direzione, le leve di comando. La domanda è: chi determina, chi controlla il modello di globalizzazione a cavallo fra il XX e il XXI secolo?
 
La risposta più evidente – ma anche troppo spesso negata o edulcorata anche nelle analisi della sinistra - è che la globalizzazione è oggi nelle mani del capitalismo occidentale e, in primo luogo, del capitalismo americano. Affermare questo significa che c'é un comando, in un certo senso un governo. Ma la tesi dominante è che la globalizzazione manca di un governo. Ma che cosa si intende per governo? Se s’intende un governo eletto da un parlamento a sua volta eletto dal popolo, è evidente che non c’è un governo mondiale. E’ questo che si vuole dire, quando una parte della sinistra afferma che non c’è un governo? Se si trattasse di questo, sarebbe solo una banalità, adatta più a confondere che a chiarire le idee.
 
Se, invece, s’intende affermare, quando si parla di mancanza di governo, che la globalizzazione si muove in un campo privo di regole, privo di istituzioni, allora si tratta di un’affermazione superficiale e sostanzialmente sbagliata. Se per governo intendiamo un insieme organico e coerente di linee-guida, di obiettivi, di capacità di imporre regole e accompagnarle con un apparato di sanzioni, allora questo governo esiste. In effetti, la globalizzazione è una delle cose più governate nel mondo di oggi. Il governo è nelle mani delle istituzioni internazionali. E queste sono nelle mani della comunità finanziaria internazionale. Stiglitz contribuisce a chiarire questo punto con una distinzione che è insieme terminologica e concettuale. “Nell’attuale processo di globalizzazione, scrive, siamo di fronte a un sistema che chiamo di governance globale senza un governo globale”.
 
La sinistra ha, nel corso degli anni novanta, confuso le diverse dimensioni della globalizzazione. Da un lato, la dimensione sulla quale si sofferma Sen, come momento d’intreccio culturale, di apertura delle civiltà, d’interscambio culturale, economico, tecnologico; dall’altro, la dimensione specifica che la globalizzazione ha nell’attuale fase storica. Questa confusione, frutto di un errore di analisi o di una visione politica opportunistica (o di entrambe), ha causato alla sinistra molti danni. Il primo è la sua separazione dal pensiero critico democratico e progressista. Il secondo è nell’incapacità di cogliere gli elementi di novità e di intelligenza politica emergenti nei movimenti a torto definiti antiglobal. Ma più grave di tutti è probabilmente il danno che n’è derivato per la costruzione dell’Unione europea. L’Europa era considerata in Africa, in Asia, in America latina, il modello regionale di un diverso tipo di integrazione, nella quale la dimensione economica dei mercati e della moneta s’intrecciava con una dimensione democratica e sociale, lontana dai precetti neoliberisti e dal dominio tecnocratico della “globalizzazione americana”. (Si veda l’articolo di Jeff Faux sulla possibile articolazione regionale della globalizzazione). Ma la sinistra europea ha finora dissipato questa occasione nella persistente ambivalenza fra modello sociale europeo e tendenze neoliberiste.
 
Eppure una critica lucida e al tempo stesso una proposta alternativa alla globalizzazione di inizio secolo non può che ripartire da un progetto europeo, da un modello di integrazione democratica, socialmente avanzata, aperta alla cooperazione con le regioni del mondo interessate alla cooperazione economica, all’interscambio culturale, a un mondo senza frontiere per l’informazione e la comunicazione, ma giustamente ostili alla globalizzazione come espressione di un potere unilaterale di comando e di sopraffazione.
 
Dopo Seattle, Genova, Porto Alegre, siamo di fronte ai primi vagiti di quella che Edgar Morin definisce “l’embrione di una società civile globale”. Certo, si tratta ancora di una realtà allo stato nascente. La novità è tuttavia importante. Essa non si muove più al margine di un processo considerato irresistibile, di teorie e istituzioni inattaccabili e incontaminabili, superbamente sicure di sé. Come abbiamo visto, non solo a Porto Alegre, nel forum dei contestatori, ma nella capitale stessa del capitalismo globale la teoria economica sottopone a un’analisi concreta il processo di globalizzazione, e ne svela la debolezza e gli artifici. Per la sinistra politica, per le forze democratiche, il campo dell’analisi critica è aperto. Il discorso con i movimenti critici della globalizzazione – erroneamente definiti “no-global” – non deve essere una concessione tattica, ma una ragione di arricchimento critico e insieme propositivo della sinistra nel suo insieme. Si può (probabilmente, si deve) ripartire dalla globalizzazione, per tornare con accresciuta consapevolezza ai problemi di una rinnovata strategia per l’Italia e per l’Europa.
Domenica, 24. Febbraio 2002
 

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