Governo, c’è poco da aspettarsi

La composizione del nuovo esecutivo non permette un grande ottimismo sulla sua futura efficacia. Qualche nota per ricordare alcune caratteristiche di politici e “tecnici” che lo compongono

A meno di ventiquattro ore dalla nascita del governo Draghi, confesso di avere avuto un moto di stizza nel ritrovarmi tra le mani la prima pagina de “Il Fatto Quotidiano”. Infatti, avrei voluto essere io a poter introdurre alcune considerazioni sul nuovo esecutivo partendo da un banalissimo punto di domanda: “Tutto qui”?

Ma, in effetti, è stato meglio così. Avrei corso il rischio di generare la stessa sensazione che - non so quanto inconsciamente - traspare dal titolo di Travaglio: un sentimento di delusione rispetto alla conclusione di un’operazione dalla quale ci si aspettavano esiti diversi. In questo senso, invece, a mio parere, la “lista” di Draghi non dovrebbe aver prodotto né delusione né sorprese.

Avevo già avuto occasione (e lo confermo) di rilevare1 che - a prescindere dalle ormai “datate” esperienze dei governi Pella (1953) e Fanfani (1987) - già la prima vera esperienza di governo cosiddetto “tecnico”: Ciampi del 1993 e, a seguire, Dini del 1994/5 e Monti del 2011, avevano confermato che la definizione di “tecnico” rappresenta unicamente un espediente tattico della politica e dei politicanti.

Si tratta, in sostanza, di esecutivi presieduti da personalità non direttamente riconducibili ai partiti, ma, non per questo, votati a compiere scelte tecnicamente asettiche ed imparziali. Questo perché alle loro opzioni seguono, inevitabilmente, ricadute politiche e riflessi di carattere sociale che non hanno mai il carattere dell’assoluta “neutralità”; presentano, piuttosto - sempre e comunque - a mio avviso, carattere “di parte”. Fu, forse, di carattere tecnico, la scelta (del governo Ciampi) della legge elettorale della quale fu relatore l’attuale Capo dello Stato (Mattarellum)? Era da considerare tecnico un esecutivo guidato dall’ex numero 2 di Bankitalia Lamberto Dini? E ancora, sempre a proposito di governi tecnici, qualcuno avrebbe l’ardire di definire tale quel governo Monti che “tanti lutti produsse ai lavoratori”? Dalla riforma pensionistica, di cui alla legge Fornero, alla “manomissione” dall’art. 18 dello Statuto.

Tutti governi, quindi, quelli definiti “tecnici” destinati - comunque - a operare scelte che, nel bene o nel male, producono (inevitabili) conseguenze sullo status e sulle condizioni di migliori o peggiori condizioni di “vivibilità”; in particolare, per quanto di mio interesse, rispetto ai lavoratori, ai disoccupati e a milioni di soggetti che, pur lavorando, concorrono ad ingrossare le fila dei sempre più numerosi “working-poor”2 .

Quello appena costituito, guidato dall’ex Presidente3 della Banca Centrale Europea (lo stesso che l’ex Capo dello Stato Francesco Cossiga, avrebbe poi definito “un vile affarista4”), non sarà, a mio parere, un governo “tecnico” diverso da quelli che lo hanno, purtroppo, preceduto. Tra l’altro, a prescindere dal curriculum personale di Mario Draghi - rispetto al quale mi riservo di tornare successivamente - la “lista” dei componenti il suo esecutivo desta, a mio parere, non poche perplessità. In questo senso, se è (ancora oggi) tutto da dimostrare che, nel 1991, avesse ragione Rino Formica nel definire “Un circo di nani e ballerine” quell’Assemblea Nazionale che aveva sostituito il Comitato Centrale del Psi - perché eccessiva nel numero, a maglie troppo larghe (nel senso della qualità) e, sostanzialmente, ininfluente dal punto di vista decisionale - appare difficile sottrarsi alla sensazione di ritrovare, nella “grande ammucchiata” messa su da Draghi, una sorta di circo Barnum del terzo millennio.

Un circo nel quale, indiscutibilmente, non mancano “macchiette” e “comparse” (dal punto di vista politico); soprattutto quando trattasi di “cavalli di ritorno” di infausta memoria. Alludo, evidentemente e in particolare, per i ministri “targati” Fi, a: 1) Brunetta (ancora ministro della Pubblica Amministrazione5), 2) Mara Carfagna6 (oggi Sud e coesione territoriale; già al ministero per le Pari Opportunità, nel Berlusconi IV) e 3) Maria Stella Gelmini (oggi Affari Generali e Autonomia, già al ministero della Pubblica Istruzione; senza lasciare alcun rimpianto).        

Meritevole di altrettanta menzione è Erica Stefano (oggi al ministero per la Disabilità, già agli Affari Regionali nel Conte I) leghista della prima ora che, con inossidabile coerenza, è assolutamente contraria a qualsiasi ipotesi di “Ius soli”7. Rilevo che, riguardo a questo nuovo ministero - escluso che sia nato unicamente allo scopo di “parcheggiare” la Stefano - qualcuno si è già chiesto a quale disabilità faccia, in particolare, riferimento. Segue quel Vittorio Colao (oggi al ministero per l’Innovazione tecnologica) già posto, dall’ex Premier Giuseppe Conte, alla guida della task force istituita per elaborare un piano per la ripartenza economica dell’Italia dopo la pandemia da Covid-19. Un piano - tradottosi in un documento di 121 pagine, dal titolo “Iniziative per il rilancio: Italia 2020/2022” - che rappresentò l’ennesima conferma del principio secondo il quale non esiste alcuna tecnica da potersi definire asettica ed imparziale, rispetto alle conseguenze delle scelte di volta in volta operate.

Evito, in questa sede, di ripetere le considerazioni e le numerose critiche già espresse8 rispetto al piano presentato dall’ex Ad di Vodafone e neo ministro per non si sa bene quale innovazione tecnologica, mi limito ad evidenziare che, a mio giudizio, già l’incipit del corposo dossier era sufficientemente deludente. Esso prevedeva, giusto per fare qualche esempio:

a)    di escludere l’eventuale contagio da Covid-19 dalla responsabilità penale del datore di lavoro,

b)    una deroga, seppure temporanea, ai limiti di durata massima dei rapporti di lavoro a tempo determinato,

c)    un mix di premialità e un regime di sanatoria (fiscale e contributiva) per le aziende con lavoratori “a nero”,

d)   l’ipotesi di un vero e proprio “scudo penale”, a favore delle aziende, in caso di reati fiscali perseguibili penalmente,

e)    l’immancabile condono, il rinvio delle imposte per le aziende e, dulcis in fundo, agevolazioni “a pioggia”.

Cosa sia lecito attendersi - da un ministro così votato a produrre il “bene delle imprese” - in termini di attenzione e cura degli interessi fondamentali del mondo del lavoro sempre più coinvolto nelle problematiche poste dal susseguirsi delle innovazioni tecnologiche, appare un quesito di non poca rilevanza (politica e per nulla tecnica)!

Naturalmente, altrettanto riguardo ed attenzione merita il già noto9 Andrea Orlando, addirittura assurto a quella prestigiosa poltrona cui sedettero personalità quali Giacomo Brodolini, Carlo Donat Cattin e Gino Giugni. Lo attende un compito oggettivamente gravoso in un Paese in cui la “flessibilità” è diventata sinonimo di irreversibile precarietà, con i salari più bassi d’Europa, con un’inestricabile filiera di appalti e sub-appalti, con un’enorme evasione contributiva, con migliaia - se non milioni - di lavoratori i cui diritti vanno dal “grigio” al “nero” e, come già detto, con un pauroso (e crescente) numero di “working poors”. Evito di commentare quello che, ai più appare come un vero e proprio atto di carità nei confronti del “monello di turno” (per l’opera da provetto “guastatore” tra le fila del Conte II): la riconferma di Elena Bonetti al Ministero delle Pari opportunità. Resta solo da rallegrarsi per il definitivo addio all’artefice di tante aspettative infondate; tale Teresa Bellanova.

Tornando alla figura del premier e alle speranze alimentatesi nell’opinione pubblica, credo non vada sottovalutato un importante aspetto. All’atto dell’affidamento dell’incarico da parte del presidente Mattarella, taluni osservatori politici e comuni cittadini espressero la loro sostanziale disponibilità a un governo Draghi partendo dall’assunto che nonostante il carattere “tecnico” del governo in pectore (con tutte le sventure cui tale definizione rimandava), non c’era da preoccuparsi come, ad esempio, in quel luglio del 1992 (con il prelievo forzoso del 6 per mille sui depositi bancari) che aprì la strada al governo Ciampi e portò a così tanti sacrifici. Questo perché, si disse, nel corso dei prossimi mesi il governo in carica non avrà l’esigenza di “mettere le mani nelle tasche degli italiani”; anzi, sarà opportuno contare su buoni amministratori perché, questa volta, ci si dovrà piuttosto preoccupare di spendere gli oltre 200 mld del Recovery fund. Ergo, chi meglio di un ex banchiere dal passato illustre, con la sua corte di professori ed ex Ad, sarebbe in grado di spendere meglio 200 e passa miliardi?

Ebbene, se si guarda a ciò che fa già parte della nostra storia (recente), sorgono numerosi dubbi e altrettante perplessità. Personalmente, parlerei di foschi presagi. In effetti, se è vero - come d’altronde è - che le sorti del Paese dipenderanno, in sostanza, dalle buone pratiche del nuovo esecutivo, è altrettanto vero che ciò che sarà dirimente, per definire la qualità dell’azione del governo in carica, non sarà rappresentato dalla capacità di spese realmente effettuate, quanto dalla tipologia delle stesse; cioè dagli obiettivi cui esse saranno indirizzate. 

È quindi opportuno ricordare che a guidare l’attuale governo e a gestire, tra l’altro, il Recovery fund, sarà una compagine governativa - già di per sé, poco raccomandabile - guidata dallo stesso Mario Draghi che, nel lontano 2011, all’atto di subentrare a Trichet quale presidente della Bce, indirizzava all’allora governo Berlusconi un’inusuale lettera “riservata” attraverso la quale, tra l’altro, faceva presente di ritenere essenziali:

a)   l’esigenza della piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali,

b)    la necessità di fornire servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala,

c)    il ridisegno di sistemi fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l’efficienza del mercato del lavoro,

d)   l’esigenza di riformare il sistema di contrattazione salariale collettiva permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione,

e)    un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti.

Qualcuno, forse, ricorderà che, a distanza di pochi mesi, fu approvata la legge 14 settembre 2011, nr. 148, grazie alla quale, in applicazione dell’art. 8, si rendeva possibile stipulare contratti a livello aziendale o territoriale che consentissero deroghe (in peius) ai Ccnl e, addirittura, alle leggi vigenti. Ad essa si sarebbero aggiunti tutti quei provvedimenti - dalla Fornero, alla sostanziale cancellazione della “giusta causa” per i licenziamento e fino ai famigerati decreti di cui al Jobs act - che hanno, sostanzialmente, ricondotto i lavoratori italiani alle condizioni pre anni ’60!

Purtroppo, temo, non sarà il nuovo premier né, tanto meno, l’improvvisato neo ministro del lavoro, a voler invertire una tendenza che corre il rischio di divenire irreversibile per le sorti dei lavoratori.

 

NOTE

 

1)     Fonte: “Governo Draghi? PD: ultima chiamata”; su www.blog-lavoroesalute.orgdel 4 febbraio 2021.

2)    Il numero dei c.d. “lavoratori poveri” è in costante crescita in quasi tutti i parse europei. In Italia già l’8 per cento della popolazione (circa 5 mln) vive in condizioni di povertà assoluta e altri 9 mln (pari al 15 per cento della popolazione) vivono in condizioni di povertà relativa. Contemporaneamente (come da un’indagine su dati Credit Suisse), nell’arco di appena dieci anni, il numero dei milionari è triplicato.

3)    Nel 1992, prima di avviare la fase che lo rese noto quale “uomo delle privatizzazioni” (da Enel, a Iri, a Telecom, a Eni e Comit, fino a Credit), Mario Draghi incontrò sul “Britannia”, il panfilo della Regina Elisabetta, la comunità finanziaria mondiale. Ciò gli valse l’accusa di avere svenduto il patrimonio italiano per ordine delle superpotenze di cui era al soldo.

4)    Ciò avvenne, alcuni anni dopo, nel corso di una trasmissione televisiva (fonte: TPI.it, del 4 febbraio 2021, di Niccolò Francesco).

5)    Rispetto al quale, rilevate le nefaste conseguenze prodotte dalla sua precedente gestione ministeriale (nel corso del IV governo Berlusconi) - tendente a colpevolizzare i dipendenti pubblici definiti “furbetti del cartellino” e “assenteisti cronici” - è proprio il caso di dire che, almeno in Italia, in politica, è proprio vero che “l’assassino torna sempre sul luogo del delitto”.

6)    Già soubrette televisiva in programmi con Mengacci e Magalli; poi destinata a una rapida ascesa politica alla corte di Berlusconi; eletta alla Camera nel 2006 e già Ministra nel maggio del 2008.

7)    Espressione giuridica per indicare l’acquisizione della cittadinanza di un dato paese come conseguenza dell’essere nati sul suo territorio; indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori. È la condizione nella quale versano migliaia di giovani, figli di stranieri, ma nati in territorio italiano; che si sentono e si considerano italiani ma non lo sono ufficialmente.

8)    Fonte: “Commissione Colao: la politica attraverso la tecnica”, pubblicato in data 15/6/2020 sul sito blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it 

9)    Fonte: “Maria Elena Boschi e Andrea Orlando nello zoo della Gruber”, di Pierfranco Pellizzetti; pubblicato in data 13 dicembre 2020. In quell’occasione, l’autorevole blogger di “Micromegablog” riportava - quale importante contributo politico dell’allora responsabile giustizia del Pd - la pensata di fotocopiare le proposte dell’avvocato Ghedini in materia di separazione delle carriere dei giudici e giudicava lo stesso perfino inadatto al compito di mandare avanti una mescita di Sciacchetrà delle Cinque Terre!

Lunedì, 22. Febbraio 2021
 

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