Fumus productivitatis

Il dibattito sulla produttività va avanti da molto tempo, ma sempre nella confusione e avvolto dalle mistificazioni. Il problema deriva da un complesso insieme di fattori, tra i quali la flessibilità del lavoro non è certo quello prevalente. Nell’ultimo anno, per esempio, il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato, ma la causa è nelle dinamiche provocate dalla crisi

Il dibattito in corso su produttività e Clup (costo del lavoro per unità di prodotto) prosegue nel consueto caos informativo lamentato in un precedente articolo. Dati diversi vengono gettati in un frullatore, con un po' di olio antisindacale e di aceto neoliberista: ne vien fuori una maionese francamente immangiabile. Il tutto per concentrare l'attenzione sull'organizzazione del lavoro o addirittura sulla "neghittosità operaia" (termine coniato agli albori della rivoluzione industriale) consistente nel non essere entusiasti dei turni di notte e di dover andare alle toilettes alla velocità di un centometrista. In realtà la produttività del lavoro ed il Clup che ne rappresenta il risvolto quantitativo si prefigurano all'interno di un sistema a costi e ricavi congiunti. Conseguentemente i tentativi compiuti, anche dall'Istat, per "isolarla" non hanno dato risultati definitivi, perché la clausola del ceteris paribus rappresenta una astrazione algoritmica e, quindi, poco realistica.

 

I dati più recenti che hanno alimentato il dibattito sono due: la produttività nell'industria manifatturiera italiana è passata dai primi posti di vent'anni fa all'attuale 20/25mo posto; nell'ultimo anno il costo del lavoro per unità di prodotto è sceso dello 0,2% in Europa, mentre in Italia è aumentato del 2%. Cerchiamo di spiegare questo ultimo dato. Quando la produzione rallenta, l'occupazione si riduce.Tendenzialmente vengono licenziati o cassaintegrati per primi i lavoratori precari o neoassunti: cioè quelli che costano meno. Tenendo anche conto dell'operare all'incontrario delle economie di scala, in una prima fase al contrarsi del numero di unità prodotte il Clup aumenta.

    

Ritornando al problema chiave, e cioè al rilevante calo della produttività italiana, osserviamo che il ruolo della forza lavoro nel calcolo della produttività totale dipende: a) dal suo peso relativo sul costo complessivo del prodotto; b) dalla qualificazione professionale; c) dalle ore lavorate; d) dall'organizzazione del lavoro (turnazioni, tempi morti, etc).

 

     a) In molte produzioni-chiave il peso del fattore lavoro è basso. Sembra che Marchionne dia la caccia alle farfalle sotto l'arco di Tito, se è vero che nella produzione di auto il lavoro incide per l'8% sul costo totale. Questa percentuale sale di molto nei cosiddetti servizi alla persona; i quali, però, essendo a forte localizzazione, poco si prestano a comparazioni internazionali.

    

     b) La qualificazione professionale sembrerebbe inferiore alla media dei paesi più industrializzati. Troppo facile gettare la colpa sulla scuola. Non ci sembra che neppure le imprese, specie medio-piccole, brillino per impegno nella formazione dei propri dipendenti. E' inoltre legittimo il sospetto che molti contratti di formazione-lavoro comportino più lavoro che formazione. Talora quest'ultima è scarsa o nulla. Questa miopia imprenditoriale produce dequalificazione e danneggia le stesse imprese.

    

     c) Contrariamente a quanto ci propinano certi giornali gli orari di lavoro nell'industria italiana sono tra i più lunghi d'Europa, mentre i salari non reggono il confronto con i Paesi più avanzati.

    

    d) Nell'organizzazione del lavoro occorre non dimenticare la capacità gestionale. Il criterio di ereditarietà in molte imprese non dà sempre risultati entusiasmanti. Ma soprattutto si è diffusa, con la complicità della classe politica e amministrativa, la consuetudine ad esercitare la concorrenza non chinandosi pensosi sullo studio di modelli di economia aziendale, ma sgomitando nei corridoi ministeriali o delle amministrazioni locali alla ricerca di filiere relazionali più o meno corrette (o corrotte). Anche quando si tratta di industriali di settori di punta (Squinzi) le lamentazioni e le proposte non appaiono né particolarmente trasparenti né acute. Spesso la pressione fiscale viene calcolata includendovi costi che si scaricano sui consumatori; la deprecata Irap fu introdotta da  un governo di centro-sinistra per accogliere le richieste confindustriali di semplificazione (sostituì 13 tributi). All'epoca ridusse di parecchi miliardi la pressione fiscale sulle imprese. Quanto alla rinuncia agli incentivi "degli altri" (ex ore suo, di 30 miliardi solo 3 riguardano aziende private) sembrerebbe una battuta alla Totò se non fosse per il fatto che tali incentivi dovrebbero servire (!?) a tenere bassi i prezzi di alcuni servizi ai cittadini.

 

Un altro fondamentale fattore di produttività è costituito dalla dotazione di capitale per addetto indicizzata al livello della tecnica. Questo è uno dei motivi per cui talune comparazioni della produttività del lavoro sono scorrette. Non si può paragonare la capacità di volo di una Befana a cavallo di una scopa a quella di un top gun su un caccia d'assalto.

    

La popolazione industriale italiana comprende Watussi e Pigmei. I primi ad altissima produttività e forte contenuto tecnologico e di design: dalle ceramiche alle cabine spaziali, dalle piattaforme petrolifere al solare fotovoltaico e termico. Supportano un flusso di esportazioni che cresce nonostante la crisi. Rappresentano però solo il 7/10% del fatturato totale, così da non poter esercitare un sufficiente effetto di trascinamento (anche se nell'export creano una scia di piccole e medie aziende altamente produttive).

 

Un altro elemento poco evidenziato nei commenti giornalistici è quello della logistica. Per motivi corporativi in Italia il trasporto su gomma è frazionato, con forti aumenti di costi, mentre l'alta velocità trasporta i manager ma non i loro macchinari. Qualche grande azienda ricorre a proprie strutture o a grandi trasportatori europei; ma il mondo delle piccole imprese ricorre ancora ai padroncini che suppliscono parzialmente alle diseconomie di scala con lavoro nero e violazione di norme di sicurezza.

 

Le aziende lamentano inoltre tre vincoli principali al recupero di produttività: burocrazia, fisco, lentezza e oscurità delle procedure giudiziarie.

    

Sulla semplificazione si sono cimentati in dieci anni tre governi. Al di là dei muri di cartapesta abbattuti in TV dall'on. Calderoli, persiste il timore che in qualche caso le norme semplificative si sovrappongano addirittura alla preesistente ragnatela normativa. La soluzione è resa difficile da un contesto socioeconomico poco abituato alla disciplina tributaria e commerciale. Un popolo di Cherubini non avrebbe difficoltà ad uniformarsi ai dettati dei Serafini, senza onerosi controlli.

    

La pressione fiscale, se riferita al reddito lordo comprensivo del nero, non sarebbe superiore a quella di altri Paesi industriali. Di fatto, però, è sensibilmente squilibrata. Le soluzioni tecniche sono notissime; ma la scelta finale non può che essere politica. Essa ricade in una dialettica che risale all'epoca del Leviathano di Hobbes: meno o più Stato; meno o più equità sociale; sviluppo spontaneo (con i relativi costi dei fallimenti) o "economia sociale di mercato", etc.

    

Sulle procedure giudiziarie, qualche progresso è possibile. Non si può sfuggire però ad una constatazione tanto evidente quanto brutale: fino a quando la cosiddetta società civile non sarà veramente tale, è illusorio sperare in un clima favorevole al recupero di produttività, così come è parimenti illusorio e in mala fede concentrare l'attenzione sul fattore lavoro che, obiettivamente, sembra quello meno decisivo.

 

Un'ultima considerazione. Se - come risulterebbe da dati ufficiali - la produttività media dell'industria italiana è così bassa e, conseguentemente, il Clup così alto, come si spiegano non solo il citato sviluppo delle esportazioni, ma anche il fatto che sul mercato interno le produzioni nazionali "tengono botta" alla concorrenza estera anche in settori a non forte localizzazione?

    

Possiamo ipotizzare tre spiegazioni di questo apparente paradosso.

     A) Il numeratore del Clup non tiene  sufficientemente conto della "qualità" del prodotto; ma allora si paragonerebbero dati non omogenei.

     B) Si tratta di medie ponderate tra produzioni di eccellenza e quelle a bassa produttività: ma ciò non spiegherebbe la relativa competitività delle merci nazionali sul mercato interno.

     C) Vi è una terza ipotesi, statisticamente non dimostrabile. Anche sotto lo schermo della Cassa Integrazione, il Paese reagisce alla crisi ampliando la quota del nero. In questa "economia in apnea" il Clup è molto basso, anche tramite la filiera delle sub-forniture. Rinnovando una tradizione che risale al secondo dopoguerra, il mercato "illegale" supporterebbe quello legale. Sarebbe dunque questa una possibile spiegazione razionale dell'anomalia costituita da un sistema a bassa produttività che regge la concorrenza internazionale: anomalia atta a provocare fenomeni di marasma intellettuale in fior di bocconiani...

Lunedì, 15. Ottobre 2012
 

SOCIAL

 

CONTATTI