Francia, no all'Europa o al liberismo?

Non sarebbe un dramma se il referendum dovesse bocciare una Costituzione che, cosa che molti non sanno, riprende e irrigidisce le politiche economiche che hanno fatto dell'Unione un gigante che non sa crescere
Alla vigilia del referendum francese sulla costituzione europea, i sondaggi sulle intenzioni di voto continuano a indicare una maggioranza del 53 per cento a favore del No. Ma il verdetto del 29 maggio potrebbe essere rovesciato dal 25 per cento di indecisi sui quali premono i maggiori partiti politici e tutta la grande stampa francese. 
 
Difficilmente rovesciabile appare, invece, il risultato dei sondaggi per il referendum del 1° giugno in Olanda, dove i No oscillano intorno al 60 per cento. Si tratta di due paesi fondatori della Comunità europea, dove sia pure con ragioni diverse, si manifesta un profondo senso di incertezza, malessere e scetticismo rispetto all'Unione.
 
Il caso francese è, tuttavia, quello più denso di possibili radicali conseguenze, anche per l'influenza che potrebbe avere sul seguito delle ratifiche referendarie in altri paesi come la Repubblica ceca, la Danimarca, la Polonia, l'Irlanda e, più ancora, la Gran Bretagna, dove diventerebbe inutile il referendum previsto fra un anno, sul quale Blair è impegnato con scarse probabilità di successo.
 
La prima questione che si è posta di fronte all'intenso dibattito in corso in Francia è se fosse giusto sottoporre a referendum un tema così complesso, com'è un trattato costituzionale che nasce da una mediazione fra 25 paesi. Non sono mancati commentatori politici che hanno criticato l'estensione del metodo della democrazia di massa a problemi che esigono una sofisticata capacità di analisi e di scelte a lungo temine. Chi ha letto gli oltre quattrocento articoli di cui si compone il progetto di costituzione?
 
La pertinenza di questa critica è tuttavia dubbia. Sarebbe una strana concezione della democrazia spartire il diritto di decisione, riservando quello sulle scelte fondamentali alle élite politiche e tecnocratiche e lasciando quelle considerate scarsamente influenti ai normali cittadini. Vale la pena di ricordare che la Spagna ha celebrato un referendum sulla Costituzione europea con un esito largamente positivo, non ostante non manchi nel paese un duro conflitto tra l'opposizione, che non ha mai digerito la sconfitta di Aznar, e la maggioranza che sostiene il governo Zapatero. Sulla base dell'esito referendario - il cui valore era formalmente consultivo - il Parlamento ha approvato nei giorni scorsi alla quasi unanimità il trattato costituzionale.
 
Che dire invece del caso italiano? L'approvazione del progetto costituzionale europeo è avvenuta nelle due Camere a stragrande maggioranza. Ma nessuno se n'è accorto. Poi nel vuoto di un effettivo dibattito politico, e a dispetto dell'unanimismo di facciata, assistiamo a un'indecorosa campagna antieuropea del governo Berlusconi, che affibbia all'euro, con spregiudicata falsificazione della realtà, la responsabilità del disastro economico italiano. Oscurando il fatto che senza il provvidenziale ancoraggio all'euro, con un paese in perenne stagnazione e con un debito pubblico tornato fuori controllo, la lira e l'Italia avrebbero rischiato un collasso di tipo argentino.
 
Meglio, dunque, il duro e aperto dibattito francese, piuttosto che l'ipocrisia di un europeismo senza macchie, ma mantenuto nella clandestinità, e poi sostanzialmente ripudiato da un governo più americano che europeo. D'altra parte, non si può trascurare il fatto che il dibattito francese si svolga fondamentalmente nello schieramento europeista, e che il 60 per cento degli elettori socialisti dichiari di votare No. Senza Laurent Fabius - numero due del Partito socialista ed ex ministro dell'economia e primo ministro di Mitterand - schierato per il No, il referendum non avrebbe avuto storia, se non per la conferma dell'opposizione, forte ma tradizionale e scontata, delle due ali estreme, di destra e di sinistra, dello schieramento politico.
 
La critica, nella sostanza, non è indirizzata alle modifiche strettamente connesse al funzionamento delle istituzioni, ma alla parte del trattato che riconferma e irrigidisce, conferendo loro un valore costituzionale, le politiche concrete dell'Unione, in particolare dopo l'instaurazione dell'Unione economica e monetaria. Una critica che può essere discussa nel merito, ma che non può essere liquidata, tacciandola di spirito antieuropeo e di desueto nazionalismo.
 
E' un fatto che l'Unione degli ultimi anni vive permanentemente sull'orlo della stagnazione economica. Mancano politiche coordinate di crescita. Mentre il processo di globalizzazione si arricchisce di nuovi e temibili protagonisti, l'Unione europea, che pure è una grande potenza economica, con un mercato di 500 milioni di cittadini, sembra caduta in uno stato di patologica abulia. Affermare, secondo un cliché corrente, che la responsabilità della paralisi economica, e delle sue conseguenze sulla disoccupazione, appartiene agli stati membri non appare convincente. Non a caso, la devoluzione di una parte importante della sovranità nazionale (moneta, tassi d'interesse, cambio,  vincoli alle politiche di bilancio) doveva servire a coordinare le politiche di sviluppo, di ricerca, d'innovazione tecnologica, di potenziamento delle industrie di punta, di grandi investimenti infrastrutturali sotto l'egida europea, di sostegno a una crescita sostenuta e durevole, per far fronte alle sfide globali che sono al di sopra delle possibilità dei singoli stati nazionali. Non ostante l'euro, la possibilità di manovrare i tassi e il cambio rispetto al dollaro, la politica economica dell'Unione è stata, dopo le grandi promesse di Lisbona (innovazione, crescita, piena occupazione), in questi anni, fondata sulla competitività interna, sull'inesausta richiesta di deregolazione del mercato del lavoro, sulla riduzione della spesa sociale. In una parola, su una politica di stampo neoliberista.
 
In questo quadro, non c'è da stupirsi se il necessario allargamento a Est, invece di produrre una crescita congiunta, ha aperto la strada a una concorrenza al ribasso in termini di tasse, salari, tutele sociali. Il problema non è l'allargamento in sé, ma una filosofia economica non dissimile da quella del Fondo monetario internazionale. Si dice: queste questioni attengono alle politiche; la nuova costituzione non c'entra. Ma è un errore. Nella visione di un cittadino interessato alle sorti dell'Europa, il giudizio sulle proposte costituzionali s'intreccia con quello sulle politiche concrete e sui loro effetti. E non del tutto a torto, se si considera che il progetto di costituzione non si limita a definire l'organizzazione istituzionale e le procedure di funzionamento, ma entra nel merito delle politiche economiche per convalidarle e, se possibile, irrigidirle.
 
Indubbiamente il No francese sarebbe uno choc, innanzi tutto psicologico. Ma non una catastrofe. Come ha ammesso lo stesso Jacques Delors, peraltro contrario al No, l'Unione continuerebbe a funzionare sulla base del trattato di Nizza.  E si potrebbero anche introdurre senza traumi alcune  innovazioni già concordate, come quelle che riguardano le procedure di voto, la durata della presidenza del Consiglio europeo o l'istituzione di un ministro degli Esteri. Né c'è alcun impedimento a fare dei passi in avanti sulla linea delle "cooperazioni rafforzate" fra i paesi che volessero andare avanti sui temi della politica economica, fiscale e sociale con un gruppo di "avanguardia", formato, per esempio, dai paesi che hanno adottato l'euro. Una possibilità, questa, prevista dalla nuova Costituzione, ma già presente nel trattato di Nizza. Né si vede per quale ragione non si dovrebbe riprendere il tema di un nuovo progetto di costituzione, liberandolo dal fardello tecnocratico, che imprigionando la politica, aggrava il deficit democratico di cui l'Unione, per generale ammissione, soffre.
 
In Francia si gioca certo una partita che ha a che fare con la politica nazionale. La vittoria del No farebbe di Laurent Fabius il candidato socialista naturale nella sfida del 2007 per la presidenza della Repubblica con Chirac o, più probabilmente, col suo ambizioso delfino e avversario, Sarkozy. Questo appartiene alla dialettica politica interna. Ma quale che sia il risultato - un sì o un no al referendum - il dibattito francese ci riguarda tutti. Oscurare i problemi che sono stati posti in un confronto che per, la sua ampiezza e capacità di coinvolgimento, non ha precedenti, non significa manifestare un più limpido spirito europeista, ma chiudere gli occhi di fronte ai rischi che, in assenza di una capacità di rilancio del progetto europeo, corre il futuro stesso dell'Unione.
Martedì, 24. Maggio 2005
 

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