Ford e General Motors, una crisi americana

I due giganti americani dell'auto sono vicini al fallimento. Colpa della globalizzazione? No, perché le case europee e giapponesi negli Usa prosperano e guadagnano quote di mercato. E' piuttosto colpa di scelte sbagliate e soprattutto di un modello che le nostre destre tanto ammirano ma che si sta rivelando disastroso
Gli americani non si lasciano turbare più di tanto dalle crisi aziendali. Ma sono rimasti profondamente sconcertati dalla crisi simultanea della Ford e della General Motors, le due imprese più rappresentative della storia industriale americana del XX secolo. Ha cominciato la General Motors a novembre con l’annuncio della chiusura di una decina di stabilimenti e l’eliminazione di almeno 30.000 posti d lavoro. Le ha fatto eco a gennaio la Ford con un annuncio sorprendentemente identico. Altri stabilimenti votati alla chiusura e altri 30.000 lavoratori da mettere fuori.
 
Non è la prima volta che i due vecchi giganti di Detroit ricorrono alla eliminazione di decine di migliaia di posti di lavoro. Ma ora la crisi ha assunto proporzioni che potrebbero segnarne il definitivo collasso. La General Motors ha registrato nel bilancio de 2005 una perdita di 10,0 miliardi di dollari. Le agenzie di rating hanno declassato a junk, spazzatura, i titoli obbligazionari. Le azioni che nel 2000 erano quotate a 90 dollari, ne valgono a fine marzo 22.
 
A questo punto, la bancarotta della General Motors è diventata un’ipotesi concreta. Anche, perché il ricorso alla bancarotta, secondo la procedura americana, consente, fra l’altro, di rescindere i contratti collettivi di lavoro, acquistare libertà  di licenziamento, ridurre i salari, cambiare il regime pensionistico aziendale e l’assicurazione sanitaria. A quel punto la Ford, secondo gli analisti americani, non potrebbe che seguire a ruota, per godere delle stesse opportunità di liquidazione una volta per tutte delle garanzie che l’United Auto Workers - UAW,  il potente sindacato dell’auto,  ha conquistato in più di mezzo secolo di accordi e conflitti che hanno segnato l’intera storia industriale e sindacale americana.
 
Ora si tenterà ogni strada per evitare il crollo dei due giganti di Detroit. Non solo perché sono coinvolti duecentomila lavoratori, le loro famiglie e le comunità di aree che da un secolo vivono a ridosso dell’industria automobilistica. Ma anche per il significato simbolico che le due imprese hanno nella percezione del cittadino medio americano. Per decenni la General Motors è stata alla testa alla classifica delle imprese industriali mondiali.
 
Quanto alla Ford, non è stata solo una grande impresa automobilistica. Henry Ford, bisnonno dell’attuale presidente e amministratore delegato William Ford, aveva inventato la catena di montaggio e la produzione di massa. In verità, la linea che avanzava meccanicamente mentre gli operai rimangono fermi nella loro postazione era già in uso nei grandi mattatoi di Chicago. Ma fu l’ingegnere Ford, nel 1913, a trasformarla nella catena di montaggio che consentiva il processo continuo di assemblaggio dei pezzi attraverso operazioni elementari che non richiedevano alcuna particolare esperienza di lavoro.
 
Si gettarono allora le basi del “fordismo” che trasformarono il lavoro umano, spezzettandolo in movimenti a volte infinitesimi e assoggettandolo all’inesorabile  ritmo meccanico della catena. Al tempo stesso Henry Ford, che  aveva bisogno di mano d’opera stabile e della loro totale dedizione, ne raddoppiò in una sola volta il salario giornaliero portandolo da due dollari e mezzo a 5 dollari. In compenso non voleva nelle sue fabbriche i sindacati. E riuscì  a tenerli fuori, anche quando col New Deal, al tempo di Franklin Roosevelt, i sindacati estesero la loro presenza in tutte le grandi imprese. Poi nel secondo dopo guerra, morto il grande patriarca, l’UAW, dopo essersi già insediato nella General  Motors e nella Chrysler, entrò anche negli stabilimenti della Ford, divenendo il più potente e famoso sindacato americano.
 
La General Motors ebbe una storia industriale parallela ma diversa. Sotto la direzione di Alfred Sloan adottò un diverso modello produttivo, fondato su un’ampia articolazione dei modelli, in grado di cogliere tutta la gamma “ascendente” della domanda. Il diverso prestigio dell’automobile - dalla Chevrolet alla Cadillac - divenne il simbolo della diversa collocazione nella scala sociale americana. La produzione di massa che utilizzava, nella maggior misura possibile, piattaforme o componenti uguali, ma diversificando il prodotto finale, divenne il paradigma produttivo adottato a livello mondiale dalle grandi imprese automobilistiche.
 
Ma, paradossalmente, oggi è proprio a questo modello produttivo, fondato su una troppo ampia gamma di marchi e circa 90 modelli, che si imputa la crisi. La domanda è cambiata insieme con l’assetto della società americana. La polarizzazione dei redditi degli ultimi due decenni si è riflessa anche sulla scala delle disponibilità e delle preferenze. Negli ultimi anni la domanda si è sempre di più orientata verso auto che fabbricano negli Stati Uniti le grandi case giapponesi e tedesche. Il  risultato di questa svolta è stato rovinoso.
 
 La General Motors, che controllava il 50 per cento del mercato interno, non supera oggi il 24 per cento, seguita a distanza dalla Ford col 17 per cento. Gli analisti di Wall Street individuano anche cause più circostanziate: la crisi dei SUV (Sport utility vehicles) divoratori di carburante, il raddoppio del prezzo del carburante, errori nel mix produttivo, crescente concorrenza dei costruttori giapponesi ed europei che controllano ormai il 40 per cento del mercato americano. Ma si tratta di spiegazioni che non spiegano abbastanza.
 
Il prezzo dei carburanti, i mutamenti del gusto e la variegazione della domanda anche in relazione alla polarizzazione dei redditi ha riguardato anche le case automobilistiche giapponese e tedesche che si sono installate nell’ultimo quarto di secolo negli States. Se il terreno perduto dalle due case americane – la Chrysler è passata dal 1999 sotto l’egida della tedesca  Daimler-Benz - è stato conquistato da Toyota, Honda, Nissan, Volkswagen, Mercedes, BMW, le ragioni non possono essere puramente congiunturali.
 
E questo è il primo dato che non può mancare di stupire. La vecchia industria giapponese ed europea, generalmente considerata “old economy”, e destinata a un ineluttabile tramonto, ha aggredito e messo in crisi due delle imprese più rappresentative dello scenario industriale americano. I vecchi giganti
americani hanno preteso di governare i processi di ristrutturazione degli ultimi decenni, puntando fondamentalmente su una draconiana riduzione degli organici e del peso del sindacato. Le grandi case giapponesi e tedesche hanno, invece, concentrato enormi investimenti nella ricerca tecnologica, nell’innovazione del prodotto, puntando su un governo del cambiamento in accordo con i sindacati. Giusto il contrario della lezione neoliberista.
 
La lezione è che la flessibilità degli assetti produttivi non si può ottenere a dispetto di chi lavora nell’impresa e deve garantirne, o quanto meno assecondarne, l’evoluzione in rapporto ai cambiamenti tecnologici e alla variabilità dei mercati. La garanzia del posto di lavoro delle aziende giapponesi, da un lato, e la “codeterminazione” tedesca, a diverso titolo considerate un nostalgico riflesso passatista, fanno delle imprese giapponesi e tedesche concorrenti temibili e vincenti. Del resto il “modello anglosassone” aveva già fatto strage dell’industria automobilistica britannica, passata nelle mani prima delle case giapponesi e tedesche, e ora sembra anche cinesi. 
 
Negli Stati Uniti le imprese debbono dar conto dei loro bilanci trimestralmente a Wall Street. Più che gli investimenti a lungo termine, Wall Street apprezza il “downsizing”, la riduzione dei costi che si ottiene riducendo i salari, i benefit e, in primo luogo, gli organici. La shumpeteriana “distruzione creatrice”, che rallegra gli analisti di parte neo-conservatrice, si rivela più distruttiva che creatrice. Il principio regolatore è quello della salvaguardia della rendita finanziaria.
 
Ma, paradossalmente, il salvataggio della GM è a questo punto affidato al negoziato con il sindacato. Gli accordi sindacali impediscono il licenziamento puro e semplice. In caso di riduzione del personale entra in gioco, secondo gli accordi aziendali, la “Jobs bank”  che  è una sorta di cassa-integrazione che prevede la pienezza del salario. La riduzione degli organici deve perciò avvenire su una base volontaria, secondo un accordo collettivo negoziato tra impresa e sindacato. L’accordo  raggiunto a fine marzo tra GM e UAW prevede, in ultima istanza, due possibilità. La prima è il pensionamento per chi ha raggiunto la maturazione della pensione (30 anni di anzianità nell’azienda per il diritto alla pensione aziendale) con una buonuscita di 35.000 dollari. La seconda opzione prevede le dimissioni volontarie con una buonuscita di 140.000 dollari (pari a circa due anni e mezzo di salario) per tutti quelli che hanno almeno dieci anni di anzianità di lavoro nell’azienda (70.000 dollari per quelli con un’anzianità inferiore).
 
A questo punto, tutti i lavoratori salariati in organico, vale a dire i 113.000 iscritti all’UAW, potrebbero optare per le dimissioni, svuotando l’azienda. Ma dai primi sondaggi fra gli operai, non sembra questa la prospettiva. I salari della GM sono di 27 dollari l’ora, circa il doppio della media dell’industria manifatturiera. Ma, soprattutto, nel Michigan i posti di lavoro sostituivi sono difficili da trovare. Ammesso che i più giovani possano ricollocarsi nel settore dei servizi, si tratterebbe di lavori generalmente precari, con salari intorno a 12 dollari.
 
Ma non basta. I vecchi accordi prevedevano una pensione aziendale secondo il principio del “defined benefit”, vale a dire una pensione integrativa rispetto a quella erogata dalla Social security, che prevede una prestazione predefinita sulla base del salario, mentre ormai e aziende offrono (quando è prevista) una pensione a “contribuzione definita”, senza garanzia sul trattamento integrativo finale. A questo si aggiunge la perdita dell’assicurazione sanitaria che il contratto dell’auto prevede, ma che le aziende dove il sindacato è assente prevedono a livelli molto bassi, o non prevedono affatto.
 
L’UAW avrebbe fatto volentieri a meno di dover arrivare a un accordo che si presenta vantaggioso rispetto ad altri processi di ristrutturazione aziendale ma che, dal punto di vista dei lavoratori, soprattutto dei più deboli sul mercato del lavoro, presenta una scelta di lavoro e di vita spesso traumatica. Ma l’alternativa all’accordo è la situazione nella quale si trova la Delphi, la più grande impresa americana di componenti, già della GM e ancora oggi sua principale fornitrice. La Delphi, che nei mesi scorsi è finita nella procedura della “bancarotta”, ha annunciato, a fine marzo che, in mancanza di un accordo con il sindacato, entro 40 giorni chiederà al tribunale l’autorizzazione a rescindere il contratto collettivo.
 
E l’accordo proposto all’UAW prevede la chiusura di 20 stabilimenti su trenta, il licenziamento del 25 per cento degli attuali 33.000 dipendenti, la riduzione del salario a 16 dollari l’ora contro gli attuali 27, la revisione delle clausole relative a pensioni e sanità. Se l’accordo tra il sindacato e la GM non dovesse funzionare, l’esito potrebbe essere appunto il ricorso alla procedura della bancarotta, e i lavoratori della GM si troverebbero nella stessa situazione della Delphi. Il quadro è ulteriormente oscurato dal fatto che, in assenza di un accordo con la Delphi, l’UAW potrebbe essere costretta a proclamare azioni di sciopero che paralizzerebbero, con danni incalcolabili, la General Motors tributaria dei componenti della Delphi.
 
Ma qui dobbiamo tornare alla intrigante domanda iniziale: com’è potuto succedere? Abbiamo visto che non basta incolpare la globalizzazione. Giapponesi e tedeschi s’installano a ritmo crescente negli Stati Uniti e in Canada, e conquistano fette crescenti del mercato nordamericano. Le loro macchine sono fabbricate da lavoratori americani. La Toyota ha già superato la Ford al secondo posto nella graduatoria mondiale della produzione di auto e si accinge nel corso dell’anno a scavalcare la GM, conquistando il primo posto. Le ragioni di un ritardo nei processi d'innovazione sono certamente una causa della débacle. Ma non sono le uniche. Ford e General Motors fabbricano auto nei diversi angoli del mondo, Cina compresa e, al di fuori degli Stati Uniti, il loro bilancio è attivo. Del resto, è stata la Ford a costruire le prime “world car”, macchine come la Fiesta e la Focus fabbricate con successo in Europa e nel resto del mondo. Ancora oggi General Motors e Ford controllano ciascuna il 10 per cento del mercato europeo (quanto la Fiat si augura di riconquistare, se tutto procederà per il meglio).
 
La crisi deve essere letta anche alla luce della crisi più generale del welfare americano, che affida all’impresa la maggior parte del costo delle pensioni e la totalità del costo dell’assicurazione sanitaria. Poiché spetta all’impresa, sulla base dei relativi contratti collettivi aziendali, garantire la pensione ai propri ex dipendenti, la General Motors si trova a dover fronteggiare uno sbalorditivo carico pensionistico pari a 2,5 pensionati per ogni lavoratore attivo.
 
E non basta. In assenza di un servizio sanitario nazionale (ad esclusione dell’assistenza prevista per i poveri e per gli anziani), l’assicurazione sanitaria è pagata dall’azienda. Il costo è continuamente aumentato nel corso degli ultimi anni, per l’esosità delle compagnie assicuratrici e delle case farmaceutiche. Non a caso il costo del sistema sanitario americano è prossimo al 16 per cento del PIL – il doppio di quello medio europeo. Il risultato è che il costo  che  General Motors e Ford debbono pagare per l’assicurazione dei lavoratori attivi e per i pensionati  equivale a 1.500 dollari per ogni auto prodotta. Mentre, in assenza di un contratto collettivo nazionale di settore, le imprese giapponesi ed europee che si insediano negli stati del Sud, possono assumere lavoratori non sindacalizzati con salari e benefit significativamente più bassi.
 
Nel dibattito spesso confuso, quanto aggressivo, sulla competitività  e la globalizzazione, il riferimento obbligato è agli Stati Uniti. Non a caso. La globalizzazione ha avuto negli ultimi venti anni in America il motore principale, prima con la rivoluzione neoliberista di Reagan, poi con gli effimeri trionfi della “new economy” dell’era Clinton.
 
La lezione che si è voluto trarre dall’esperienza americana, alla quale i “globalisti” europei guardano con malriposta invidia, è fondata su due pilastri: la liberalizzazione del mercato del lavoro e il restringimento dell’area di intervento dello Stato, con la liquidazione progressiva del welfare. A questi si aggiunge l’elogio della finanziarizzazione, che fa di Wall Street l’arbitro del destino delle imprese. Ora, i guai delle due grandi imprese americane dovrebbero aiutarci a uscire dai luoghi comuni che tanto affascinano una parte delle elite europee di destra, ma purtroppo anche di sinistra. Vi sono diversi modi di fronteggiare la globalizzazione. E, contrariamente all’opinione prevalente, quello americano non è vincente sul piano economico ed è rovinoso su quello sociale.
 
Lunedì, 3. Aprile 2006
 

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