Finanziaria, il passo troppo lungo

Si è voluto fare tutto e subito. Ma è molto probabile che una vasta parte del paese avrebbe apprezzato una manovra forse meno ambiziosa ma più lineare e trasparente negli obiettivi come negli strumenti per attuarli
Quale che sia il giudizio finale sulla Legge finanziaria, sulle sue singole misure e sul suo complesso, il governo ne esce pagando un prezzo in termini di consenso politico. Il riferimento non è a un'opposizione sgangherata e senza leadership, ma al popolo di centrosinistra. Forse era inevitabile, come dice Prodi. Ma non è necessariamente così. Al di là degli errori di comunicazione, l'errore più sostanziale sta nell'avere concepito un disegno troppo ambizioso.
 
Il governo aveva indicato sin dall'estate il senso di marcia in termini chiari e apprezzabili: il recupero della credibilità a livello europeo, la crescita economica, l'equità sociale. Direzione giusta e coerente col programma di governo. Ma un programma che riguarda l'azione di governo durante tutta la sua durata - si auspica - quinquennale, che non può condensarsi negli obiettivi necessariamente parziali e limitati della prima finanziaria da adottare in condizioni di fragilità politica e soprattutto di profondo dissesto della finanza pubblica, frutto di cinque anni di avventurismo berlusconiano.
 
In sostanza, una volta definita l'ispirazione di fondo, il percorso doveva essere segnato da un numero limitato di misure sufficientemente chiare, trasparenti, leggibili. Misure che appunto non hanno la pretesa di toccare di tutto un po'. Ma esattamente, al contrario, toccare il necessario nella consapevolezza della scarsa disponibilità di risorse.
 
Consideriamo, innanzitutto, il quadro di riferimento relativo ai rapporti con le istituzioni europee. Nessun dubbio che il risanamento finanziario è un obiettivo primario della politica italiana con o senza i parametri di Maastricht. Ma i tempi del risanamento sono pur sempre un aspetto, sia pure essenziale, del quadro complessivo della manovra. La situazione ereditata era la peggiore possibile: disavanzo del 50 per cento maggiore di quello compatibile col Patto di stabilità; inversione della tendenza alla discesa del debito pubblico, aumentato di quattro punti negli ultimi due anni; sostanziale azzeramento dell'avanzo primario.
 
Si poteva decidere una correzione drastica dei conti pubblici con un abbattimento di un punto e mezzo di PIL del disavanzo, per portarlo al di sotto del tre per cento nel corso di un anno, o si poteva modulare la manovra di rientro, per esempio con l'abbattimento di un punto il primo anno e di mezzo il secondo, testimoniando una strategia mirata a una chiara e credibile inversione della tendenza. Si temeva che le agenzie rating avrebbero bocciato la manovra. Ma abbiamo visto che lo hanno fatto ugualmente, dal momento che il loro giudizio più che dai decimali di variazione dei saldi, è determinato dall'adozione delle cosiddette riforme strutturali, tendenti alla privatizzazione di pensioni, sanità, imprese pubbliche. Intanto, una modulazione del rientro avrebbe liberato sei-sette miliardi di euro per dare spazio alle più urgenti misure di intervento nella spesa per investimenti (Mezzogiorno, ricerca) e di carattere equitativo, come i trasferimenti alle famiglie.
 
Ma anche al di là di una più realistica manovra di adeguamento ai parametri europei, alcuni aspetti della manovra avrebbero potuti essere  indirizzati su percorsi più lineari e produttivi sia dal punto di vista dello sviluppo che dell'equità. Prendiamo i casi del cuneo fiscale sul costo del lavoro e del trasferimento di quote del TFR all'INPS.
 
Sul cuneo è stato giustamente osservato anche su queste colonne che i problemi della competitività del sistema produttivo italiano difficilmente possono essere attributi al costo del lavoro, che è significativamente più basso di quello dei nostri diretti concorrenti europei. Ma l'impegno era stato assunto in direzione di un 60 per cento della riduzione a favore delle imprese e del 40 a beneficio del salario netto dei lavoratori. Mentre la riduzione del costo è apparsa immediatamente chiara per le imprese, non altrettanto si può dire del beneficio derivante per i lavoratori. Il meccanismo più diretto chiaro e inequivocabile sarebbe stato l'aumento delle deduzioni esistenti (o le nuove detrazioni) a favore dei lavoratori dipendenti, in modo da rendere trasparente la riduzione della forbice tra costo del lavoro e retribuzione netta. L'avere innestato un processo complesso di riforma fiscale senza avere a disposizione risorse sufficienti ha finito per rendere la manovra per alcuni versi confusa, per altri inconsistente.
 
L'utilizzazione del trasferimento all'INPS del Tfr futuro non indirizzato ai Fondi pensione poteva essere chiaramente indirizzato al finanziamento di spesa pubblica per investimenti, coprendo per questa via i buchi lasciati dall'ultima finanziaria di Tremonti. Attuando per questa via, per una parte più o meno grande, l'obiettivo di cui si discute da almeno un decennio. Vale a dire, l'importanza di mobilitare quote di risparmio  per accrescere gli investimenti. Obiettivo che solo in parte minima può essere affidata ai Fondi pensionistici a capitalizzazione, dal momento che in larga misura essi tendono a essere investiti nei mercati finanziari internazionali.
 
La semplificazione degli obiettivi avrebbe al tempo stesso resa più lineare la strategia di recupero delle risorse necessarie mediante una rigorosa selezione dei tagli necessari e dell'aumento del prelievo con l'intensificazione della lotta all'evasione. Questo non avrebbe messo a tacere una destra vociferante che finge di dimenticare i guasti prodotti in cinque anni di malgoverno. Ma è molto probabile che una vasta parte del paese avrebbe apprezzato una manovra forse meno ambiziosa ma più lineare e trasparente negli obiettivi come negli strumenti per attuarli. Consapevoli del fatto che questo non poteva essere altro che un primo passo nel processo di risanamento e di rilancio. L'idea di poter fare tutto (o un po' di tutto) e subito  si è rivelata forse generosa nelle intenzioni, ma politicamente debole. Fonte più di incomprensioni e malcontento che non di consensi.
Martedì, 7. Novembre 2006
 

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