Federico Caffè e la crisi sindacale dell'84

Caffè seguì da vicino la crisi dell'unità sindacale in occasione del taglio della scala mobile del 1984, quando propose tre "saggi" per aiutare le confederazioni sindacali a uscira dell'impasse. Ma l'aspetto più singolare della sua personalità era l'intensa partecipazione intellettuale e morale ai problemi del mondo del lavoro
Venti anni fa (il 15 aprile 1987) scompariva misteriosamente Federico Caffè, che fu non solo figura eminente negli studi economici, ma anche attento osservatore delle questioni del mondo del lavoro. Qui si ricorda il suo ruolo in un momento critico dell'unità sindacale, quando il governo Craxi tagliò alcuni punti della  scala mobile nel quadro di un duro scontro politico fra il governo e l'opposizione guidata dal Partito comunista.
 
 
Federico Caffè aveva seguito la crisi sindacale esplosa il 14 febbraio del 1984 con attenzione e allarme. I contrasti sulla scala mobile avevano aperto la più grave crisi nei rapporti fra le confederazioni sindacali dalla fine degli anni quaranta, all'epoca della scissione. Gli eventi a cui ci riferiamo sono della fine del 1984. Era passato più di un anno dalla rottura di S.Valentino, giorno dell'accordo separato col governo sul taglio di alcuni punti di scala mobile, e la rottura fra CGIL, CISL e UIL rimaneva una ferita aperta nel mondo sindacale e tra i lavoratori. Si avvicinava, intanto, la data del referendum (giugno '85), voluto dal PCI, che chiedeva l'abolizione del taglio dei punti di contingenza imposto per decreto legge dal governo Craxi.
 
Era chiaro che, quale che fosse l'esito del referendum, i rapporti interni al sindacato e, più in generale, nel mondo del lavoro, ne avrebbero sofferto ancora di più. Caffè continuava a seguire questa vicenda provando un'evidente angustia. Nel movimento sindacale cresceva il disagio per una situazione che a molti appariva fuori controllo. Ma le preoccupazioni non riuscivano a smuovere le acque. In effetti, era diventato sempre più chiaro che il conflitto non riguardava puramente e semplicemente il taglio di alcuni punti della scala mobile.
La CISL privilegiava, fra tutte le altre possibili misure di disinflazione, il taglio dei punti di contingenza come misura diretta a mutare in radice il meccanismo della scala mobile, predeterminandone gli scatti in relazione al tasso d'inflazione programmato, secondo la linea teorizzata da Ezio Tarantelli, poi barbaramente assassinato dalla Brigate rosse. Per la CISL era diventato questo lo strumento principe per bloccare l'inflazione e dare spazio alla politica dei redditi. La CGIL considerava questa misura sostanzialmente inopportuna e iniqua, contribuendo a ridurre il salario reale già taglieggiato dall'inflazione e dal fiscal drag, ed era, in linea di principio, contraria al meccanismo della predeterminazione, senza tuttavia escludere la possibilità di un blocco temporaneo di tutte le indicizzazioni.
 
Ma questa divergenza, per quanto importante,  probabilmente non sarebbe stata irrisolvibile,  se non fosse stata caricata di un dirompente risvolto politico. La CISL, guidatala Pierre Carniti, voleva dimostrare che era possibile negoziare col governo (e la Confindustria) un accordo sindacale anche senza il consenso della CGIL, e più precisamente della sua componente maggioritaria comunista. Simmetricamente, la CGIL non poteva accettare che una parte del sindacato - CISL e UIL - si proponesse di modificare con un accordo separato l'intesa sulla scala mobile unitariamente sottoscritta nel 1975. Last but not least, il PCI, guidato da Berlinguer, duramente opposto al governo Craxi, non poteva accettare un intervento dell'esecutivo così rilevante su una questione sociale altamente sensibile a prescindere dalle posizioni del PCI, o addirittura contro d esso. Come si diceva in quella fase, la situazione era totalmente "incartata", e la corsa verso il referendum continuava, in un clima di crescente disagio e allarme in vaste aree del movimento sindacale. Due decenni di crescente pratica unitaria fino alla costituzione della Federazione unitaria CGIL,CISL e UIL venivano sacrificati sull'altare di un dissenso che, da un punto di vista strettamente sindacale, difficilmente poteva ritenersi privo di una possibile mediazione.
 
La situazione economica italiana era allarmante per il convergere di una pluralità interconnessa di fattori negativi. L'inflazione viaggiava intorno al 15 per cento, il disavanzo pubblico si aggirava intorno a 100.000 miliardi, una cifra spropositata rispetto al PIL di allora, la bilancia commerciale accusava un deficit pesante. Tutto questo era al centro del dibattito politico e mediatico. Ma Caffè non si stancava di aggiungere a questo quadro un elemento ulteriore che considerava assolutamente grave e, per molti versi, l'aspetto  più drammatico della crisi: il tasso di disoccupazione si avviava a superare ampiamente il dieci per cento, e si sarebbe attestato ancora più in alto senza il mascheramento fornito dalla Cassa integrazione nel settore industriale.  Caffè era solito associare a questi dati generali quello che riteneva più drammatico e inaccettabile: l'altissimo livello di disoccupazione giovanile che in alcune regioni del Mezzogiorno sfiorava ormai il 50 per cento dei giovani in età di lavoro.
 
Questo della disoccupazione e della condizione dei giovani era un passaggio costante dei discorsi con Caffè. Ricordo con quanta difficoltà mi capitava di rispondere alle sue domande su questo tema, dovendo riconoscere la povertà di proposte concrete da parte del sindacato. A partire dal famoso accordo dell'Eur del 1978, le tre confederazioni avevano elaborato, allora in piena unità, salvo minoritari dissensi interni, una piattaforma di scambio fra moderazione salariale centralizzata e politiche per l'occupazione. Ma la strategia dell'Eur, nata nel clima politico del "compromesso storico", non aveva retto alla prova dei fatti né sul paino dei risultati sindacali, né su quello di un compromesso politico che si sarebbe rivelato effimero. La centralizzazione, esplicitamente imposta dal modello di politica dei redditi che era stato adottato, non aveva funzionato. Mentre aveva contribuito a generare diffidenza e dissenso nei consigli di fabbrica che, soprattutto dopo la sconfitta alla Fiat del 1980, non riuscivano a arginare l'onda alta delle ristrutturazione che comportava perdita dei posti di lavoro, crescente ricorso alla cassa integrazione, peggioramento delle condizioni salariali e di lavoro. In un sindacato fortemente indebolito si rafforzavano le tensioni e le divisioni interne. Da un lato, si rafforzava la convinzione che solo un accordo generale con governo e padronato potesse frenare la deriva; dall'altra, alla base, cresceva la convinzione che la centralizzazione non apportava i benefici promessi e, al contrario, limitando l'azione articolata, peggiorava le condizioni  e i rapporti di potere in fabbrica.
 
Caffè considerava particolarmente grave la crisi dell'unità sindacale in una fase dell'economia profondamente segnata dall'ondata controriformista in tutto il mondo capitalistico col trionfo delle politiche neoliberiste di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. All'ombra del neomonetarismo della scuola di Chicago e della deregolamentazione selvaggia, il conflitto sociale era dominato da una feroce politica antisindacale. Reagan aveva annunciato la sua linea d'intransigenza licenziando in blocco 12.000 controllori di volo, e la signora Thatcher aveva mosso una guerra senza quartiere ai minatori in sciopero fino a un'irrimediabile sconfitta che doveva segnare un passaggio anche simbolico nella secolare storia del tradeunionismo inglese. Dappertutto, sotto l'urto della crisi e delle ristrutturazioni, i rapporti sociali stavano cambiando profondamente a danno della classe operaia e dei ceti più deboli. Dividere il sindacato in queste condizioni rappresentava per Caffè un segno di miopia e un errore gravido di conseguenze nei rapporti sociali e, in definitiva, politici.
Vale la pena di ricordare che il giudizio di Caffè non era solo quello dell'economista attento alla dimensione sociale dei problemi. Negli anni più recenti aveva maturato un'esperienza singolare nei rapporti col mondo del lavoro. Aveva diradato la partecipazione ai convegni pubblici di carattere più o meno istituzionale. Ma quasi mai si sottraeva all'invito che gli proveniva dai livelli di base del sindacato di partecipare a un seminario o svolgere una lezione. Questi incontri erano per molti aspetti straordinari. Erano affollati  non solo da quadri intermedi del sindacato, ma anche da delegati dei consigli di fabbrica. I suoi interventi, caratterizzati da una grande stringatezza, pari alla precisione dei concetti e del linguaggio, erano ascoltati con una sorta di religiosa attenzione. Era diffusa la sensazione, anche in chi lo conosceva fisicamente per la prima volta, che le parole di quel maestro, pronunciate con tono basso ma limpido e sicuro, portassero un segno inequivoco di comprensione e di verità. Caffè, dal canto suo, al contrario di quanto spesso succedeva con i leader sindacali più prestigiosi, seguiva il dibattito con un'attenzione quasi severa, appuntando tutto, prestando grande considerazione alle espressioni, talvolta ingenue ma dirette, di insoddisfazione per come andavano le cose, di preoccupazione e di allarme per quello che succedeva o si temeva che succedesse in quella fase di dura ristrutturazione delle fabbriche col suo corteo di cassa integrazione, anticamera di licenziamenti collettivi, e caduta del potere negoziale.
 
Alle domande che seguivano i suoi interventi, soleva rispondere più sforzandosi di chiarificare i problemi che fornendo le più o meno sofisticate e sicure soluzioni tipiche dell'accademico che parla ex cattedra. Il Maestro di politica economica al quale si rivolgevano banchieri e ministri economici, chiedendo il suo avviso su complesse questioni di politica monetaria e finanziaria, entrava nei particolari delle condizioni di lavoro nelle fabbriche o nei cantieri. Parlava della nocività e dei suoi fattori ambientali, dello stress psichico, degli orari. Non accettava la critica di moda al cosiddetto assenteismo. Partiva dal pendolarismo per introdurre il tema dei trasporti, e si soffermava sulla carenza degli asili nido e sul lavoro femminile per richiamare il tema delle infrastrutture sociali. I delegati ascoltavano con dedizione quasi reverenziale.
 
Caffè considerava per molti aspetti inaccettabili le condizioni sociali della classe operaia e dei ceti più deboli della popolazione. Si indignava per quella che considerava la scarsa attenzione agli infortuni sul lavoro che provocavano tremila morti all'anno. Citava a questo proposito le statistiche internazionali, e sottolineava l'inaccettabilità della condizione nel nostro paese. Si preoccupava per i livelli raggiunti dall'inflazione, ma a suo avviso troppo poca attenzione veniva prestata, anche da parte del sindacato, alla disoccupazione e, in primo luogo, a quella dei giovani. Era solito ripetere che non ci si poteva affidare ai meccanismi automatici del mercato, e che spettava ai poteri pubblici il ruolo di "occupatore" di ultima istanza. Questo aveva scandalizzato gli economisti benpensanti, e anche una parte di sindacalisti, che vi intravedevano gli echi di un keynesismo passato di moda, che pretendeva di creare occupazione "scavando buche". E Caffè rispondeva che si poteva fare a meno di scavarle, posto che ce n'erano già tante da colmare, irridendo "il sociologismo che invita i giovani a inventarsi un lavoro".
 
Considerava sbagliata la "mania autocritica" di alcuni sindacalisti che in nome della società "postindustriale" chiedevano di liberare il sindacato dal vecchio "operaismo" segnato dall'egualitarismo per farsi carico delle nuove professionalità della società dei servizi. Condannando la "spocchia antiegualitaria", faceva notare che in America i lavoratori dei servizi avevano superato quelli dell'industria già negli anni cinquanta, ma questo non aveva esorcizzato il problema delle profonde diseguaglianze che persistevano a prescindere dall'emersione di nuove professionalità. Non lesinava le critiche al sindacato, quando ne rilevava "il rischio di cadere nel convenzionale" e "la tendenza all'omologazione".
Ma non meno severi erano i suoi giudizi nei confronti dei santuari delle classi dirigenti e del mondo accademico. Di fronte alle critiche rivolte al sindacato per le politiche contrattuali aveva scritto: "Le autorità monetarie avrebbero pienezza di motivi per riflettere sull'arroganza intellettuale con la quale si atteggiano, sempre e ovunque, a depositari della saggezza economica". E aveva aggiunto: "Taccio del mondo accademico, la cui unilateralità nella denuncia delle responsabilità - univoche -delle unioni  sindacali è profondamente mortificante. Spetterebbe, infatti, soprattutto agli intellettuali di combattere le tendenze superficiali a soffermare l'esame su un solo lato delle questioni, contraddicendo quella interdipendenza dei fenomeni che pure viene riaffermata di continuo con enfasi retorica".
Essendo questa la singolare posizione di Federico Caffè nel panorama intellettuale di quell'epoca, non è sorprendente  che, nel pieno della crisi sindacale della metà degli anni ottanta, il sindacato, o almeno una sua parte, si rivolgesse a lui per riaprire un confronto che, dopo i 14 febbraio, era rimasto paralizzato. Profittando dell'assiduità dei rapporti che da alcuni anni mi legavano a Caffè, gli chiesi se era disponibile ad assumere un'iniziativa rivolta alla ricerca di una ricomposizione dei dissensi  che bloccavano i vertici delle tre confederazioni. Era chiaro che non poteva trattarsi di un tradizionale appello che avrebbe lasciato il tempo che trovava. Né sarebbe stato sufficiente un seminario tradizionale con inviti, più o meno casuali, ad alcuni esponenti sindacali. Questo era possibile, e forse anche utile, ma anche troppo poco per avere un'incidenza significativa. Ci si orientò verso un'iniziativa esplicitamente diretta al coinvolgimento dei vertici confederali con l'intento di riaprire un dialogo unitario ormai interrotto, in attesa del "giudizio di dio" che sarebbe venuto dall'esito del referendum fissato per l'estate del 1985.
 
Chiesi, innanzitutto, a Luciano Lama se avrebbe sostenuto l'iniziativa. Acquisita la sua disponibilità, mi rivolsi agli amici di CISL e UIL. La risposta, anche se scettica sui risultati, fu positiva, ma fu chiaro che non si sarebbero potuti coinvolgere direttamente i tre segretari generali. La rappresentanza delle confederazioni sarebbe stata tuttavia assolutamente autorevole, prevedendo la partecipazione di un certo numero di segretari confederali, fra i quali Trentin, Marini, Crea, Veronese, Marianetti, Vigevani.
 
Fu a questo punto che Caffè lasciò cadere ogni riserva e accettò di presiedere il convegno organizzato dalla Terza componente della CGIL con la partecipazione di circa 150 dirigenti sindacali delle tre confederazioni - non a caso -  nel salone della FLM.  Ma mi disse anche che considerava inopportuno e intempestivo avanzare a titolo personale una proposta di merito su un tema che inevitabilmente avrebbe avuto bisogno di una fase di decantazione nei rapporti fra le confederazioni. Nacque così l'idea di proporre una triade di personalità che, alla luce delle conclusioni del convegno, sarebbero stati disponibili a facilitare il dialogo tra i vertici sindacali con l'obiettivo di individuare una via d'uscita dall'impasse che paralizzava l'iniziativa sindacale, in attesa della scadenza referendaria che non prometteva nulla di buono, al di là del suo risultato. Era, da parte di Caffè, ancora una volta una testimonianza di impegno e insieme di modestia e di realismo.
 
Fu così che, alla conclusione di due giorni di dibattito intenso nei quali erano intervenuti i massimi esponenti delle tre confederazioni e alcuni economisti, fra i quali Sylos Labini, Vicarelli, Cavazzuti, Caffè, che aveva seguito i lavori con la consueta puntigliosa attenzione, dichiarando di aver apprezzato l'impegno e la qualità di tutti i contributi, propose che il confronto potesse continuare e le posizioni decantarsi con l'ausilio di tre personalità, la cui autorevolezza e integrità intellettuale erano per tutti fuori discussione. I nomi indicati da Caffè furono quelli di Paolo Baffi, già governatore della Banca d'Italia, Paolo Sylos Labini ed Ermanno Gorrieri.
 
Fu questa l'ultima occasione offerta al sindacato per interrompere la spirale di una frattura che dai vertici si era ormai diffusa verso la base, e che minava nel profondo l'unità che nei luoghi di lavoro si era costruita nel giro di circa due decenni. Non ostante il convegno si fosse concluso in un clima di aperto e, per molti aspetti, costruttivo dialogo - come Caffè riconobbe e sottolineò - l'idea di una mediazione che pure aveva trovato vasti consensi nelle confederazioni fu bloccata dalle posizioni più oltranziste. Ormai il treno del referendum aveva fatto troppa strada per poterlo arrestare con una proposta sindacale unitaria, avendo assunto chiaramente i caratteri di una sfida politica fra il PCI e la coalizione di governo. La proposta dei tre "saggi" fu lasciata cadere.
 
Nella postfazione alla pubblicazione degli atti del convegno, Caffè manifestò una certa soddisfazione per il fatto che "in un momento denso di ansie, di preoccupazioni, di pronunciamenti perentori, di reciproche contestazioni, la riunione di esponenti autorevoli  del mondo sindacale nella configurazione unitaria sembrò fornire almeno una prospettiva promettente di risposta al ricorrente interrogativo:che fare." Ma con una punta di non dissimulato rammarico aggiungeva: "Nei riguardi delle organizzazioni sindacali di vertice, quelle con le quali ho avuto maggiori occasioni di rapporti, il mio atteggiamento è stato di costante attenzione, non disgiunta da frequenti delusioni. Queste non hanno mai riguardato problemi personali, ma la difficoltà di comprendere "svolte" di cui non sono riuscito ad afferrare le motivazioni". E a proposito della proposta delle tre eminenti  personalità  - "del cui ausilio chiarificatore, nell' eventualità di occorrenza, ognuno si sarebbe potuto sentire onorato" - che aveva avanzato in conclusione del convegno, scriveva: "La mia proposta non è stata, in definitiva, che un cauto invito a riflettere su quanto poco giovi un rifiuto ostinato al ripensamento come metodo di convivenza".
 
Il referendum, contrariamente alle aspettative, diede ragione ai No, vale a dire alla non restituzione dei punti di contingenza che il decreto del governo aveva tagliato il 14 febbraio dell'anno prima. Intanto la Confindustria, già alla chiusura dei seggi, prima ancora che si conoscessero i risultati, aveva dichiarato la disdetta unilaterale dell'accordo sulla scala mobile sottoscritto dieci anni prima. La rottura sindacale era manifestamente la crisi più grave dopo la scissione sindacale del dopoguerra. Il mondo sindacale scontava un duplice errore. Da un lato, un'ingenua o errata  fiducia in un meccanismo come la predeterminazione della scala mobile - di cui Carniti era stato intransigente fautore - come strumento di un nuovo patto sociale. Dall'altro, l'errore in una parte della maggioranza comunista della CGIL - pur non essendo questa la posizione di Lama e Trentin - che puntava alla "resistenza" operaia nelle fabbriche, come strumento di contrasto alla durezza della ristrutturazione in corso e di ricompattamento del rapporto, fortemente logorato, tra vertice e base del sindacato.
 
Federico Caffè riteneva, a determinate condizioni, utile una politica dei redditi che coniugandosi con una specifica politica monetaria e finanziaria avesse come obiettivo essenziale la crescita dell'occupazione. Ma non era questa l'esperienza italiana nella quale prevaleva "l'identificazione del patto sociale con la moderazione degli incrementi salariali", lasciando in ombra i problemi della crescita e, in primo luogo, dell'occupazione.  "Il sindacato - aveva affermato - dovrebbe riflettere  sul fatto che molto spesso dietro al concetto di scambio politico o di patto sociale c'è soltanto il vuoto teso a mascherare l'impossibilità di formulare vere e proprie proposte politiche con l'ulteriore risultato di invischiare il sindacato in una sorta di "incapacità istituzionale" di operare" (Atti del seminario nazionale della Terza componente della CGIL", 20-21 dicembre, 1982). In effetti, la disoccupazione era continuamente ed enfaticamente evocata, quando si chiedeva al sindacato moderazione salariale, ma era sempre rimasta priva di strumenti politici concreti. Caffè non si rassegnava alla supposta impotenza o all'ignavia delle politiche economiche. "Non si può considerare -scriveva - la disoccupazione come un male inevitabile e, in fondo, utile…Quale rischio è maggiore di una stabilità apparente, che poggi su una compagine sociale disgregata e sulla emarginazione a volte disperata di disoccupati e precari".
 
Quando avevo cominciato a frequentare Federico Caffè con assiduità, fino a farne un punto di riferimento del mio lavoro sindacale, ero convinto che la singolarità di Caffè fosse nella sua capacità di associare la vasta cultura economica a una personale dote di umanità nel riferirsi ai problemi sociali, come erano quelli che in definitiva facevano da sfondo al lavoro sindacale. Fu poi col tempo che mi resi conto di come il suo modo di essere economista fosse, in ultima analisi, tutt'uno con l'attenzione politica e morale ai problemi sociali. L'analisi economica era uno strumento di comprensione che doveva aprire la strada alle politiche in grado di fronteggiare le condizioni di malessere sociale puntando al loro miglioramento. Una volta chiarita questa intima coerenza intellettuale e morale della personalità di Caffè, non c'era da stupirsi che fosse stato consigliere di più di un governatore della Banca centrale e di molti ministri economici, che a lui facevano ricorso sui sofisticati temi della moneta e della finanza internazionale e, al tempo stesso, fosse interpellato dai vertici delle confederazioni sindacali e ascoltato con rispetto e senso di gratitudine dai delegati di fabbrica.
 
Ma, non ostante, l'indiscusso prestigio che lo circondava, la sua "lezione" non trovò un'eco signficativa nel ceto politico. Era fortemente ispirato dal pensiero keynesiano in un paese dove quel pensiero era stato non di rado utilizzato dal ceto di governo in modo opportunistico e deviante; mentre la sinistra all'opposizione, principalmente comunista, lo considerava con una certa inconfessata prevenzione prima per la sua distanza dal pensiero socialista classico, poi, in termini rovesciati, per la sua critica radicale a quelle che sembravano le indiscutibili novità del pensiero neoliberale. Le tesi di Caffè acquistavano un sapore eterodosso quando, contraddicendo la convinzione sempre più diffusa, anche a sinistra, secondo la quale il welfare  dovesse essere ridimensionato alla luce della "crisi fiscale dello stato", secondo l'analisi che O' Connor aveva sviluppato in America agli inizi degli 70, ammoniva che il primo problema per l'Italia era non il ridimensionamento ma il completamento di uno stato sociale profondamente inadeguato. O quando, riprendendo l'insegnamento di Hirschman sosteneva che all'inefficienza dei servizi pubblici bisognava reagire non con la pratica delle privatizzazioni, ma con l'impegno a riformare dall'interno i modelli di organizzazione delle pubbliche amministrazioni.
Paradossalmente, Caffè, che dai primi anni del dopoguerra aveva partecipato in funzione di sostegno o di critica all'impostazione di politica economica del paese, negli anni più recenti, che coincidevano con quelli più critici e di maggiore disorientamento delle classi dirigenti del paese, finì con l'essere considerato troppo"a sinistra". Il suo pensiero, autenticamente riformista confliggeva con il progressivo affermarsi di quello che sarebbe diventato il "pensiero unico" neoliberista che si avviava a dominare la fine del XX secolo. Ricordando che molti dei suoi scritti "occasionali" sono stati raccolti nel volume intitolato "La solitudine di un riformista", viene da chiederci oggi, a vent'anni dalla sua scomparsa, dove si sarebbe potuto collocare il limpido pensiero di Caffè nell'attuale confusa e ambigua definizione di "riformismo".
 

Questo ricordo fa parte di un'ampia raccolta antologica di scritti di Caffè - "Federico Caffè, un economista per gli uomini comiuni"- in corso di pubblicazione presso Ediesse a cura di Giuseppe Amari e Nicoletta Rocchi; il volume contiene commenti e  ricordi di economisti, intellettuali e dirigenti sindacali, fra i quali: Franco Archibugi, Augusto Graziani, Giacomo Beccattini, Andrea Bixio, Maurizio Franzini, Siro Lombardini, Guido Rey, Mario Tiberi, Luigi Angeletti, Raffaele Bonanni, Guglielmo Epifani.
 
 
Domenica, 15. Aprile 2007
 

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