Europa

Allargamento
CISS –Centro internazionale di studi sociali Temi per il seminario sull’allargamento I Allargamento e istituzioni Il dibattito politico-istituzionale, a cavallo fra il 2001 e questi primi mesi del 2002, ha confermato nell’Unione l’ineludibilità dei tempi dell’allargamento. Si punta a concludere i negoziati entro il 2003 per consentire la partecipazione nel 2004 alle elezioni per il Parlamento dell’Unione europea dei dieci paesi che dovrebbero entrare a farne parte. Quest’orientamento che allo stato appare incontrastato ha messo in ombra, almeno formalmente il vecchio dibattito sul rapporto temporale e politico fra allargamento e approfondimento. Dopo Nizza, si dà per acquisita la scelta di procedere all’allargamento senza ulteriori condizionamenti istituzionali. Ma se questa è la posizione formale, i problemi rimangono nella loro interezza e in tutta la loro complessità: - Il Consiglio non può funzionare con un meccanismo di rotazione esteso a 25-27 Membri; - il ruolo della Commissione è messo in discussione; - il meccanismo legislativo deve essere ridefinito sulla base di una rinnovata attribuzione di competenze e del voto a maggioranza. La Convenzione è chiamata a sciogliere i nodi sostanziali che si celano dietro scelte apparentemente evidenti e lineari. Recentemente anche il Regno Unito sembra concordare sull’esigenza di dotare l’Unione di una Costituzione, ma al di là della denominazione, rimane il problema della portata giuridica e dei contenuti: non a caso permane l’opposizione alla Carta dei diritti di Nizza che era concepita come una sorta di preambolo o prima parte di una futura costituzione. Al fondo rimane da sciogliere il dilemma sul significato da attribuire alla formula, apparentemente aperta a un largo consenso, di Federazione di stati nazione. I paesi candidati hanno nella a convezione uno status minore, non essendo stati dotati di diritto di voto. Sarebbe tuttavia un errore non tenere in conto le loro posizioni sul futuro istituzionale dell’Unione. Ciò che appare evidente è che la cessione di sovranità incontra limiti politici a causa dell’esperienza storica dei paesi candidati e nell’esigenza di rafforzare la loro identità nazionale e statuale dopo una lunga fase di soggezione al centralismo sovietico e di “sovranità limitata”. Una riflessione aperta e significativa sul processo di allargamento non può essere confinata nell’affermazione di principio - certamente giusta – della sua importanza e ineludibilità storica e politica. L’intreccio dei problemi politici e istituzionale merita di essere approfondito anche dal punto di vista dei paesi candidati. Le forzature di oggi potrebbero risultare foriere di problemi di più ardua gestione per il futuro dell’Unione e per il successo stesso dell’allargamento. Il seminario organizzato da Ciss, in collaborazione col Ministero, chiamerà a discutere su questo tema esperti che collaborano con l’istituto (fra gli altri il prof Biagio De Giovanni, già presidente della commissione istituzionale del Parlamento europeo). II I negoziati e le posizioni interne ai paesi candidati Se problemi di orientamento politico si pongono nei quindici paesi dell’Unione, altri di vario genere si pongono anche nei paesi candidati. Da un lato, le élite di governo sono ovunque decise a superare tutti gli ostacoli per realizzare nei tempi più rapidi l’obiettivo dell’entrata nell’Unione. I sondaggi generalmente confortano queste posizioni. Non possono essere tuttavia trascurate le posizioni di partiti che raccolgono consensi non irrilevanti di ispirazione etnocentrica (la grand’Ungheria), o semplicemente orientati a marcare gli elementi di conservazione o a sfruttare le difficoltà e i timori presenti nelle fasce sociali più deboli e provate da una transizione costosa e ancora incompiuta (la stessa Polonia), o con assetti politici interni mutevoli (Slovacchia), per non citare che qualche esempio relativo ai paesi più “pronti”. Mentre le difficoltà si presentano maggiori per altri, la cui adesione si annuncia più lontana, come la Bulgaria e, più ancora, la Romania. Sotto questo profilo che riguarda i rapporti con le classi politiche e con le opinioni pubbliche dei paesi candidati risulteranno in molti casi decisivi le conclusioni dei negoziati. Nell’ultimo rapporto della commissione europea della fine del 2001 si constatano gli avanzamenti compiuti più o meno da tutti i paesi candidati (si tralascia qui la particolare situazione della Turchia). Tutti i paesi hanno consolidato i meccanismi democratici e acquisito il passaggio a un’economia di mercato che erano tra i prerequisiti fissati a Copenaghen. Dei 29 capitoli del negoziato finora aperti con i dodici paesi candidati, la maggior parte (a esclusione della Bulgaria e della Romania, significativamente più indietro) sono stati conclusi positivamente o sono considerati prossimi a una conclusione senza particolari difficoltà. Si tratta, in particolare, dei capitoli attinenti in generale al funzionamento dei mercati (beni, sevizi, capitali), alle politiche settoriali (energia, trasporti, telecomunicazioni, pesca), al diritto societario, la concorrenza, le statistiche, l’istruzione, la ricerca. I capitoli che restano aperti sono in generale di numero limitato, ma sono anche fra i più sensibili e complessi come l’agricoltura e gli aiuti regionali. La Polonia è trai grandi paesi quello con un maggior numero di capitoli ancora aperti. Ma qui spicca soprattutto la questione agricola, considerato la larga fascia di popolazione addetta e il peso che questo settore gioca nell’economia nazionale. Ma anche per le questioni in linea di principio risolte si pongono problemi di sostanza, come nei processi ancora incompiuti di ristrutturazione industriale (esempio, acciaio) attualmente sostenuti dagli aiuti di stato. L’acquis communautaire a cui nessun paese candidato intende sottrarsi in linea di principio non risolve problemi concreti attinenti al destino degli aiuti distato in relazione ad alcuni settori e alcune regioni particolarmente sfavorite. Quest’aspetto delle politiche comunitarie ha peraltro acquisito un nuovo rilievo in seguito alle critiche sollevate in tempi recenti dal governo tedesco rispetto alla gestione tendenzialmente rigorosa finora tenuta in questo campo dalla Commissione europea (in particolare dal Commissario Monti). Il seminario sulla base della documentazione raccolta si propone di approfondire questo tema anche con l’apporto di rappresentanti dei paesi candidati. III Le Condizioni economico-sociali dei paesi candidati Le questioni più complesse rispetto alle problematiche dell’allargamento si appuntano sulle condizioni economiche e sociali dei paesi candidati. Si tratta di temi generalmente tenuti in ombra o considerati “scontati”. In effetti, si tratta un punto del tutto centrale. I paesi candidati escono da un decennio di difficile transizione dai regimi a economia centralizzata a un’economia di mercato. Nella prima fase della transizione, si è assistito a processi duri e per alcuni aspetti drammatici di dimezzamento del reddito nazionale, di disoccupazione di massa, di impoverimento di vate masse, compresi ampi strati di ceti medi. Nella seconda parte del decennio passato, si è avviata una fase i recupero, molto differenziata da paese a paese. Ma rimane il fatto che il reddito nazionale della maggior parte di questi paesi oscilla tra un quarto e i due quinti del reddito medio dell’Unione a 15, e che è ancora più basso se confrontato con i grandi paesi continentali (Germania, Francia, Italia) che hanno un ruolo di riferimento. Un paese come la Polonia ha una struttura economica con una fortissima incidenza dell’agricoltura; nella maggior parte dei paesi il processo di ristrutturazione industriale dalla vecchia industria pesante ai nuovi paradigmi europei non è ancora compiuta. La disoccupazione oscilla fra medie vicine a quelle dell’Unione e livelli decisamente più elevati (17 – 18 per cento). Ma anche queste medie vanno considerate come dati statistici formali che celano ampie aree di sottoccupazione e inoccupazione di fatto, sia pure non dichiarata, derivante dalla difficoltà della domanda di lavoro. Dal punto di vista sociale, non solo i salari medi rimangono a livelli che possono essere dieci volte più bassi rispetto ai paesi dell’Unione. Ma con la crescita più recente e il passaggio a un’economia di servizi si sono fortemente accresciute le differenze di reddito fra uno strato sottile operante ai livelli alti dei nuovi sistemi d’impresa con carattere multinazionale e le fasce di lavoro tradizionali. Queste disuguaglianze trovano un fattore di aggravamento nelle difficoltà di assicurare una rete di protezione sociale (disoccupazione, pensioni, sanità) determinate fra l’altro dalle esigenze stringenti di bilancio e dalla lotta all’inflazione che sono parte delle condizioni per l’adeguamento alle regole dell’Unione. L’insieme di queste condizioni può essere inevitabilmente connesso al processo di transizione o più semplicemente alla crisi già in atto al momento della fine dei regimi comunisti. Il dibattito sulle possibilità di modelli diversi di transizione da un modello di economia centralizzata a uno di mercato può essere interessante in sede accademica. Si può discutere sulle forme di passaggio sperimentate in grandi e medi paesi asiatici come la Cina o il Vietnam. Rimane il fatto che il modello seguito al collasso dell’Unione sovietica è stato orientato sia in Russia, sia nei paesi dell’Europa centro-orientale, verso un’accelerazione del processo di liberalizzazione e ristrutturazione, indipendentemente dai tempi di acquisizione di degli strumenti essenziali di regolazione e di gradualità delle ristrutturazioni inevitabili ma socialmente costose. Per avere un’idea della portata dei problemi posti dalla transizione si consideri che nell’unificazione tedesca, l’ex Germania federale ha investito (e continua a investire) 150 miliardi d marchi l’anno, rimanendo ancora lontani da una situazione di soddisfacente riequilibrio. Ora, anche considerando che l’adesione all’Unione dei paesi candidati non significa l’ingresso nell’Unione monetaria, non v’è dubbio che l’Euro è già oggi e sarà sempre di più la moneta di riferimento nell’Unione allargata e che la politica monetaria e fiscale dei nuovi paesi sarà condizionata dalla politica monetaria dell’UEM. In sostanza, i nuovi paesi si troveranno immersi in un’area monetaria unificata, sia pure per un certo tempo con la sopravvivenza di monete nazionali, ma permanendo per la maggior parte una situazione economica profondamente disomogenea rispetto alla vecchia Unione. La teoria economica dominante in questo campo (Mundell) suggerisce che in un’area monetaria disomogenea, il riequilibrio dipende o da un forte intervento delle politiche di bilancio a favore delle aree deboli a più bassa produttività, o, alternativamente, da un aggiustamento operato sui mercati del lavoro, tramite la mobilità territoriale verso le aree a più alto sviluppo ed elevati differenziali salariali. Abbiamo visto, di passaggio, che la Germania ha affrontato i problemi dell’unificazione con pesanti interventi di bilancio, con una sostanziale riduzione dei differenziali di salario che doveva consentire, tra l’altro, di evitare rilevanti fenomeni di mobilità, sia pure all’interno dello stesso paese. Nel caso dei paesi candidati non vi saranno significative risorse di bilancio provenienti dall’esterno. Il bilancio comunitario è da questo punto di vista privo di spazi economici e in ogni caso senza basi politiche. La mobilità della mano d’opera trova dei limiti intrinseci, ma più ancora nelle disponibilità dei paesi dell’Unione, essendo gli ostacoli non solo o non tanto di tipo economico, quanto di carattere cultuale e politico nei paesi ospitanti. Rimane la valvola dei differenziali salariali: ma questi già esistono e, senza avviare un progressivo miglioramento delle condizioni di vita, la spinta all’emigrazione potrebbe rafforzarsi in contraddizione con l’opposta domanda di frenarla proveniente dai paesi di accoglienza. Inoltre, i differenziali salariali, se protratti nel tempo, implicano una stabilizzazione a lungo termine della divisione del lavoro in termini di specializzazione produttiva diretta alle esportazioni nei settori a bassa tecnologia che contrasta con l’esigenza di un elevamento della produttività accelerando il progresso tecnologico. Per altro verso, senza una significativa crescita dei salari, mancando la spinta della domanda interna, la crescita è affidata alle esportazioni con un maggiore rischio legato agli shock esterni e alla variabilità della congiuntura internazionale e, in particolare, del nucleo centrale dell’Unione. Negli anni più recenti, una volta superata la fase più dura dell’aggiustamento, i paesi dell’Europa centro-orientale hanno fatto registrare in linea generale una crescita sostenuta. Questa ha consentito dopo un decennio di tornare ai livelli di PIL antecedenti al collasso dei vecchi regimi e di ridurre in un certo numero di paesi i livelli di disoccupazione. Vale la pena tuttavia di sottolineare, anche a conferma delle valutazioni riportate sopra, che l’accelerazione della crescita è intervenuta in una fase di crescita superiore alla media nei Quindici oltre che di boom americano. Il cambiamento del ciclo tra il 2000 e il 2001 con un forte rallentamento della crescita dell’Unione, in concomitanza con la recessione americana, ha avuto un immediato riflesso sui paesi candidati, con un forte freno alla crescita e un innalzamento della disoccupazione particolarmente preoccupanti per la Polonia che da sola rappresenta circa la metà del reddito dei paesi candidati al primo round di allargamento. Ciss presenterà per questi aspetti i risultati della ricerca compiuta dal lato economico e sociale e il seminario potrà avvalersi del contributo di esperto nel campo economico e sociale. IV Conclusioni possibili Certamente, l’allargamento è per un verso un’esigenza e un obiettivo storico e politico di prima grandezza. Si tratta dell’evento storico più importante dalla prima costituzione della Comunità. Le cose sono giunte al punto che nessun ostacolo o difficoltà siano sia di carattere istituzionale che materiale può mettere in dubbio la conclusione del processo nei tempi annunciati. D’altra parte, l’allargamento costituisce anche un’occasione dal punto di vista economico. Il mercato interno diventa il più vasto a livello globale. Cambia la stessa collocazione dell’Europa nei processi di globalizzazione. Sarebbe tuttavia un errore sottovalutare o mettere in ombra la portata dei problemi economici e della dimensione sociale di questo processo che, al contrario di quanto è avvenuto in passato con altri allargamenti, coinvolge paesi che hanno accumulato nell’ultimo mezzo secolo straordinari elementi di differenziazione e che si svolge con una sorta di big bang, coinvolgendo in un giro rapido di tempo paesi grandi e piccoli con diversi gradi di problemi e di condizioni economiche e sociali. Il dibattito, rinunciando alla retorica e al tentativo di convincere i vecchi e i nuovi paesi dell’Unione che si tratti di un tranquillo processo autoconcluso con la definizione dei negoziati e l’adozione dell’acquis communautaire da parte dei candidati, deve soffermarsi sugli elementi cruciali per la riuscita del processo. Oltre che l’adeguamento dei candidati alle regole dei Quindici, sarebbe opportuno riflettere all’adeguamento delle regole e delle politiche dell’Unione alle esigenze di sviluppo dei paesi nuovi. Qui diventa evidente e per molti versi decisiva la scelta fra una concezione fondata sull’Unione come grande mercato con le istituzioni comunitarie e nazionali poste a guardia delle sue regole con capacità di intervento sempre più ridotte (downsizing delle istituzioni e della politica). E un’altra concezione che vede nelle istituzioni dell’Unione e in quelle statali, ciascuna per la parte assegnata una funzione attiva volta a sostenere politiche di sviluppo, di riequilibrio fra aree disomogenee, di coesione sociale, in definitiva di affermazione di un modello sociale e civile in espansione che non mira a replicare altri modelli, in particolare quello americano, dotato di forti tradizioni democratiche e civili, ma anche profondamente diverso da quello che caratterizza la storia dei rapporti sociali in Europa. (Roma, marzo 2002)
Giovedì, 25. Aprile 2002
 

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