Elezioni svedesi, tassando si vince

Gli elettori hanno premiato il no a qualsiasi riduzione che mettesse in questione lo Stato sociale
Il successo del Partito socialdemocratico svedese non può riparare la sequenza di sconfitte accumulata dai governi di centro-sinistra nell’ultimo anno, dal Portogallo alla Norvegia, passando per l’Italia e la Francia, mentre rimane da vedere il risultato tedesco. Il successo di Goran Persson contiene, tuttavia, alcuni messaggi di carattere generale che meritano qualche considerazione aggiuntiva.

Nella prima metà degli anni 90, la Svezia era diventata il simbolo della fine di un’era: la fine del più classico dei modelli socialdemocratici, fondato sullo stato assistenziale "dalla culla alla tomba", che consentiva alti salari, manteneva un elevato standard dei servizi pubblici, il tutto con un regime fiscale fra i più esosi al mondo. La Svezia diventò il paradigma di un modello sociale e di governo obsoleto, da mandare definitivamente in soffitta. Era venuto il tempo delle "riforme strutturali", intendendo per tali il drastico ridimensionamento dell’intervento pubblico in economia e, in primo luogo, dello Stato sociale, la deregolazione del mercato del lavoro, la privatizzazione dei servizi pubblici.
In effetti, le cose non erano mai andate così male in Svezia. Quando i socialdemocratici tornarono al governo nel 1994, trovarono inflazione, conti pubblici dissestati e una disoccupazione che aveva superato l’otto per cento. Tutti i dati convalidavano l’idea della fine irreversibile del regime socialdemocratico che, all’insegna del "modello svedese", con sole due brevi parentesi, aveva governato il paese per i precedenti 60 anni.
 
Toccò a Goran Persson, allora ministro delle Finanze, chiedere agli svedesi un inconsueto regime di sacrifici. Dopo quattro anni, i socialdemocratici ebbero alle elezioni del 1998 il peggior risultato della loro storia, con il 36 per cento dei voti. Il risultato fu un governo monocolore, diretto da Persson, con l’appoggio esterno della sinistra (ex-comunisti) e dei verdi.
 
E’ su questo sfondo di difficoltà e di fine delle "illusioni" che va misurato il "fantastico successo", come lo ha definito Persson, del 15 settembre. Dopo gli anni dei sacrifici, la Svezia aveva recuperato fiducia. La disoccupazione era stata dimezzata, attestandosi intorno al quattro per cento; l’inflazione sotto controllo; il bilancio pubblico in attivo. E’ a questo punto che la coalizione di destra gioca le sue carte. E’ venuto il momento di ridurre le tasse, tra le più alte di tutti i paesi industriali, di ridimensionare lo Stato assistenziale, di aprire i servizi pubblici alla concorrenza privata. Non c’è niente di geniale o particolarmente innovativo in questa piattaforma: è quella che ha consentito al centro-destra di vincere tutte le elezioni in questo scorcio di nuovo secolo.
 
In questo scenario, Goran Persson ha fatto una scelta contro-corrente. Ha alzato la posta. Ha rivendicato la giustezza dell’elevata imposizione fiscale e contributiva, come il costo necessario per difendere le conquiste dello Stato sociale più esteso del mondo industriale, si è impegnato ad accrescere e migliorare la spesa nei servizi pubblici. Ha respinto ogni tentazione di "terza via" e di rincorsa al centro. Ha chiesto e ottenuto l’appoggio convinto della L.O., la grande centrale sindacale e, al tempo stesso, di una grande parte delle imprese interessate agli investimenti nei settori tecnologicamente più avanzati (dall'elettronica all'auto) e al sostegno dei consumi interni per controbilanciare il declino della domanda internazionale.
 
L’orgogliosa difesa di un’identità culturale e politica ha riportato il Partito socialdemocratico al 40 per cento dell’elettorato. Nei prossimi giorni si vedrà se Goran Persson continuerà a governare con un monocolore, o stabilirà una coalizione con la Sinistra e i Verdi, con i quali permane tuttavia il dissenso sull’entrata nell’euro.
Sulla partecipazione all’Unione monetaria deciderà probabilmente un referendum nell’autunno del 2003. Persson deve per allora convincere i suoi concittadini e i gli stessi elettori socialdemocratici della bontà di questa scelta. Finora, la maggioranza degli svedesi ha manifestato un forte scetticismo, se non un’aperta contrarietà, a compiere quest’ulteriore passo verso l’integrazione europea, temendo di rimanere impigliati nell’ambigua politica dell’Unione monetaria proprio su quel "modello sociale" europeo che ha avuto e continua ad avere in Svezia la sua patria d’elezione.
Martedì, 17. Settembre 2002
 

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