E se l'Italia ricominciasse da sé? (3 commenti)

Un apparato produttivo troppo dipendente dalle esportazioni è esposto non solo all'avversa congiuntura mondiale, ma anche ai ricatti protezionistici dei paesi acquirenti. Il rilancio potrebbe puntare su una politica di riequilibrio della domanda interna, affidando alla politica fiscale e alle liberalizzazioni il compito di sostegno, ma ciò richiederebbe un drastico mutamento del sistema tributario e altre razionalizzazioni

Una serie di circostanze e di eventi ci spingono a qualche approfondimento sul modello di sviluppo post-crisi dell'economia italiana, già accennato in alcuni nostri scritti. Li ricordiamo brevemente.

A) L' approvazione del condono tombale sui reati societari, che dovrebbe garantire, anche con il riciclo di capitali di dubbia provenienza, un gettito provvidenziale per riempire le caselle vuote di una finanziaria fantasma. Ennesimo miraggio del genio di Aladino: la finanziaria-pagherò. La prossima ci verrà presentata con un balletto sulle punte.

B) Le cupe prospettive occupazionali, accompagnate però da segnali di ripresa sui mercati esteri e di ritrovata fiducia di una parte delle imprese italiane.

C) Lo stimolante scritto di Guido Rey sulle debolezze strutturali dell'economia italiana e sulle possibili direttrici di sviluppo.

 

Per ricordare agli immemori o ai "minzolati" da dove partiamo, precisiamo che il -4,8% del Pil equivale al -5,8% rispetto al 2007 e che il +0,7% del 2010 implica pur sempre una perdita di oltre il 5%. Cosicchè, stando sempre alle previsioni del governo, a fine legislatura saremmo ancora al di sotto di oltre l'1%. Tanto per chiarire, ci aspetta una lunga nuotata un bel po' al di sotto del pelo dell'acqua.

 

Lo sviluppo italiano, per motivi storici, non è mai risultato omogeneo né equilibrato, non solo settorialmente (conseguenza ovvia della specializzazione produttiva imposta dalla globalizzazione), ma neppure territorialmente, per dimensioni aziendali, per tipologia giuridica delle imprese. Anche il mercato del lavoro si è profondamente trasformato. Esso è parcellizzato dalla molteplicità delle figure contrattuali, che indebolisce obiettivamente i sindacati, nonchè dalla presenza di singolari ossimori, come il precariato permanente o le partite Iva, che mascherano lavoro subordinato (mentre i calciatori di Serie A, tipici professionisti, hanno ottenuto contratti di tipo impiegatizio).

 

In questa complessità del sistema economico italiano sono andate emergendo tendenze di fondo, che appaiono in contrasto con opinioni correnti. Ciò può dipendere dal fatto che si tratti di fenomeni più difficili da valutare con i normali strumenti statistici.  Ne ricordiamo alcuni, perchè dalla loro corretta ponderazione dipendono le direzioni verso le quali orientare un sentiero di sviluppo, su cui far convergere le forze vive del paese, come i sindacati, le élites - pulite e non alla Brunetta - i partiti politici responsabili, le associazioni imprenditoriali. Il governo attuale, a giudicare dalle declamazioni ufficiali e dalle manovre annunciate, sembra destinato a recitare la parte del Convitato di pietra, e cioè il "Commendatore" del Don Giovanni di Molière.

 

Si ritiene che la debolezza non congiunturale ma strutturale delle esportazioni italiane sia correlata al loro insufficiente contenuto tecnologico. Era forse vero anni or sono, all'epoca delle svalutazioni competitive: oggi lo è solo in parte. Tutti riconoscono il ruolo della nostra alta moda sui mercati del lusso. Ma non altrettanto nota è la posizione italiana di avanguardia tecnologica nella nautica, da quella da diporto alle grandi navi da crociera, nell'industria degli armamenti, in quella aerospaziale (una parte della stazione spaziale è composta con moduli italiani), nella costruzione delle grandi piattaforme petrolifere (secondi al mondo), nelle tubazioni per il trasporto di gas e petrolio (secondi o terzi), nella robotica industriale (siamo fra i primi, alla pari con i giapponesi e superiori a Usa e altri paesi).

 

La battaglia della qualità, che abbraccia tecnologia e design, ci ha consentito di attenuare le perdite della crisi, conquistando nuovi mercati. Parte di questi risultati sono frutto del programma di ricerca applicata "Industria 2015", ideato dall'allora ministro Bersani, che ha continuato a funzionare, pur nel silenzio di un meccanismo informativo da zombi del pensiero.

 

E' stato recentemente affermato che un calo del 20% delle nostre esportazioni produrrebbe una perdita del 4% del Pil. Cifre che ci sembrano eccessive, perchè queste correlazioni non sono mai di tipo lineare e perchè certe produzioni possono spostarsi sul mercato interno. Se, comunque, il dato fosse vero, esso non rappresenterebbe un elemento di forza (come indirettamente ipotizza Rey), ma di relativa debolezza. Un apparato produttivo troppo dipendente dalle esportazioni è esposto non solo ai colpi dell'avversa congiuntura mondiale, ma anche ai ricatti di tipo protezionistico dei paesi acquirenti. Di ciò sembra essersi resa conto, con l'attuazione di una colossale manovra di riequilibrio della domanda interna, la Cina Popolare.

 

Quanto al "nanismo" delle imprese italiane, le valutazioni espresse di volta in volta da autorevoli commentatori divergono in modo radicale. Da un lato si esalta il loro tessuto connettivo, dotato di grande elasticità e con scarsa finanziarizzazione di rischio, che garantirebbe loro una tenuta occupazionale ed una capacità di produzioni proteiformi. Dall'altro si lamentano i bassi livelli di capitalizzazione, le sacche di evasione fiscale, una incapacità di fare squadra ed una pretesa bassa propensione all'innovazione.

 

La verità è che la definizione di questo comparto è troppo semplicistica. Convivono tipologie differenti di imprese di piccole e medie dimensioni. Vi sono quelle che coprono i vuoti produttivi creati dagli spin-off delle grandi imprese, con sub-forniture di altissima specializzazione. Le innovazioni sono spesso fornite dal committente. Talora sono monomarca, e quindi, assomigliano a veri e propri reparti dell'impresa madre. In altri casi si tratta di aziende sottodimensionate, la cui sopravvivenza è garantita proprio dall'evasione fiscale e contributiva.

 

Vi è una terza ipotesi: che esse si trovino nella fase dello start-up e dovrebbero quindi beneficiare delle provvidenze di un'accorta politica industriale; spesso sorgono intorno agli "incubatori di imprese", che sono presenti sia al Nord che al Sud del nostro paese.

 

Sgombrato, dunque, il campo da qualche equivoco informativo, veniamo al punto cruciale delle scelte di sviluppo. E' preferibile una politica dell'offerta, come auspicato da Rey, che accresca la competitività aziendale sui mercati esteri anche con ricorso a finanziamenti pubblici o una politica di riequilibrio della domanda interna, affidando alla politica fiscale e alle liberalizzazioni il compito di sostegno della domanda stessa?

 

La risposta non può essere univoca, ma alcuni punti fermi vanno posti. Molto prima che scoppiasse la bolla finanziaria, economisti di fama internazionale, da Stiglitz a Sen, avevano individuato nella crescente sperequazione nella distribuzione dei redditi, a livello mondiale e all'interno di singole nazioni, i segni premonitori di una crisi da deficit di domanda. La "pauperty in the midst of plenty" di keynesiana memoria non poteva a lungo essere occultata dalla coperta del credito al consumo, come rileva anche Jean-Paul Fitoussi (v. Repubblica del 30/09). Nelle recenti conclusioni del G20 si sottolinea "la necessità di rianimare la domanda privata".

 

Il fenomeno è visibilissimo anche nel nostro paese. Negli ultimi decenni la concentrazione dei redditi è aumentata ben al di là di quanto possono rilevare le statistiche, appannate dalle false dichiarazioni fiscali. Più significativa è la forte divaricazione nella dinamica dei consumi di lusso rispetto a quelli di massa, nonché la concentrazione delle ricchezze patrimoniali, a fronte del persistere di sacche di povertà assoluta e relativa. Se ciò è vero, una politica dell'offerta tenderebbe a rafforzare un sistema produttivo export-oriented, senza correggere gli squilibri di fondo.

 

Paradossalmente l'aumento della concentrazione dei redditi, la compressione del reddito disponibile di oltre la metà della popolazione, il degrado delle infrastrutture materiali e immateriali offrono una formidabile piattaforma di sviluppo, perchè rappresentano un gap di domanda insoddisfatta da colmare nel giro di parecchi anni. Il ventaglio dei bisogni è molto amplio e comprende la sanità, la scuola, la ricerca, la logistica, i servizi alla persona, l'assetto idrogeologico, etc.

 

Il sostegno pubblico non comporterebbe necessariamente una politica di deficit spending o di aumento della pressione fiscale, che anzi potrebbe gradualmente ridursi con un ampliamento della base imponibile. Si tratta di rivedere drasticamente il meccanismo tributario, rendendolo veramente perequativo. Per far ciò occorre agire non soltanto sull'imposizione diretta, ma anche su quella indiretta. Gli interventi vanno accompagnati da un drastico accorciamento delle filiere, minimizzando gli oneri di intermediazione, mediante liberalizzazioni ben guidate. Ulteriori benefici possono trarsi, prevalentemente per i più poveri, dalle semplificazioni amministrative e dalle riduzioni delle diseconomie esterne. Questa azione dovrebbe essere condotta non con le "grida" dell'economista veneziano, ma con una vera e propria rivoluzione culturale, perchè il peso della burocrazia è legato alla necessità di controlli in un paese nel quale chi viola le regole è giudicato intelligente e in cui la discrezionalità della Pubblica Amministrazione è un'arma clientelare. La strada degli automatismi nella politica industriale, iniziata da Prodi, è stata come è noto abbandonata.

 

Non si tratta di mettere genericamente le mani nelle tasche degli italiani, ma di metterle in quelle di molti che le tengono ben cucite e toglierle dai più che sinora sono stati taglieggiati. In un sistema veramente perequato i termini meritocrazia e produttività non si traducono in una beffa nei confronti dei meno fortunati, perchè si tende a realizzare l'allineamento delle posizioni di partenza.

 

Risulterebbero quindi superate le obiezioni di Rey, perchè gli incrementi del potere di acquisto delle famiglie verrebbero considerati permanenti, sostenendo così i consumi, mentre gli incapienti beneficierebbero della riduzione delle imposte indirette e conseguentemente dei prezzi.

 

Anche la spinta propulsiva dell'offerta risulterebbe rafforzata sui mercati interno ed estero, per l'operare delle economie di scala. Effetti positivi si manifesterebbero anche nella ricerca applicata, che implica una dimensione sufficiente del mercato interno.

 

Questo modello di sviluppo incontrerà resistenze molto agguerrite e richiederà una robusta azione politica, atta a conquistare un consenso di massa; dovrà inoltre avvalersi di una programmazione tecnicamente molto efficiente. Ci sia consentito manifestare le nostre riserve sulla volontà e capacità dell'attuale classe dirigente di operare una manovra strutturale o nella direzione indicata da Rey, o in quella sostenuta da noi, o con un sapiente mix. Queste riserve si sono rafforzate dopo il recente intervento del presidente del Consiglio dalle tribune del Palazzo di vetro. Con un volteggio acrobatico, egli ha affermato che occorre essere severi nei confronti dei paesi che non rispettano i diritti umani (il nostro paese è sotto osservazione ONU e UE proprio in questo campo); ha sostenuto la sua contrarietà ad allargare il Consiglio di Sicurezza (mentre da molti anni l'Italia si batte per un posto in più all' Unione Europea); ha auspicato uno sforzo a favore della lotta all'inquinamento (mentre i nostri ritardi dai parametri di Kyoto continuano ad aumentare); ha ribadito la necessità di abolire i paradisi fiscali (mentre imponeva ad una troppo obbediente maggioranza la concessione di un rilevante premio fiscale e di una protezione da reati anche penalmente rilevanti a coloro che in tali paradisi avevano sinora soggiornato). Per chiudere in bellezza, il suo più fidato "scudiero" propone, per il Sud, aree a burocrazia zero (come la Tortuga dei Fratelli della Costa) e una banca "autoctona" (sic!), i cui depositi, presumiamo, saranno raccolti con l'impiego di specchietti e perline.

 

Tanto nomini nullum par elogium o, se vi piace il "latinorum", risum teneatis, amici.

 
 
Commenti
 
Carlo Clericetti - La proposta è interessante, ma lasciatemi fare l'avvocato del diavolo. Premetto che la prospettiva che indicate mi piace. Però, non ho potuto evitare che crescesse lo scetticismo mentre andavo avanti nella lettura. Voi proponete addirittura non solo di far pagare le tasse, ma persino di riequilibrarne il peso! Uno scandalo!!!
Scherzi a parte: mi piacerebbe molto, anzi moltissimo, che ci si potesse muovere in questa prospettiva. Ma poiché le idee camminano sulle gambe degli uomini, quali uomini e quali gambe vedete in giro di questi tempi, che siano in grado di far camminare queste idee? E in effetti nell'ultima parte anche voi dichiarate il vostro scetticismo in proposito.
Significa che è inutile parlarne? Certamente no: Indicare una prospettiva giusta si può, anzi si deve. Ma perché non resti vox clamans in deserto forse bisognerebbe indicare anche un sentiero possibile di avvicinamento, insomma da dove cominciare qui ed ora e con i rapporti di forza attuali (o meglio: con quelli che è plausibile riuscire a raggiungere entro un tempo non indefinito; con i rapporti di forza attuali possiamo solo singhizzare).

 

Rosita Donnini e Valerio Selan - Per quanto riguarda le prospettive pratiche di una rivoluzione fiscale (più tasse ai ricchi veri e meno ai ceti medio-bassi e alle imprese) la validità della tesi risulta rafforzata dai dati della Banca d'Italia sulla concentrazione delle ricchezze, che supera di gran lunga quella reddituale e si avvicina pericolosamente a squilibri di tipo ottocentesco.

Le difficoltà sono formidabili, come tu e noi ben sappiamo. Ma è davvero impossibile ipotizzare l'emergere di una "banda degli onesti" o di una "alleanza dei produttori" - di cui si parlò anni or sono - che coalizzino imprese sane, sindacati non servili, professionisti a schiena diritta e cittadini non del tutto decerebrati? Spes ultima dea...

 
Carlo Clericetti - Mi capita di solito di essere d'accordo con quello che scrivete. Stavolta sarei ancora più d'accordo, solo che la "banda" di cui parlate - fra le tante che circolano di questi tempi - mi pare decisamente minoritaria. Quello di cui stiamo parlando è un programma politico, prima ancora che economico. A me va benissimo, ma temo non ci siano molte speranze di realizzarlo a breve termine. Per questo suggerivo di individuare qualche tappa di avvicinamento. Comunque anche chiarire da che parte si dovrebbe andare non è certo inutile.

Domenica, 18. Ottobre 2009
 

SOCIAL

 

CONTATTI