Due dame per uno scacco al governo

La "pace delle due dame" tra Camusso e Marcegaglia del 28 giugno scorso sembrava destinata a rinfocolare gli estremismi delle due parti. Al contrario, si è rivelata una mossa vincente che può essere davvero un punto da cui ripartire

Mea culpa. Mi ero sbagliato e anche di molto, quando ritenevo che la nuova “Pace delle due dame” Marcegaglia e Camusso, ossia l’accordo interconfederale del 28 giugno, fosse un fuoco di paglia destinato in breve a diventare cenere, polarizzando gli opposti estremismi nelle parti sociali. In realtà, con una di quelle sorprese a cui la storia ci dovrebbe avere abituati, esso si rivela essere stato una mossa del cavallo, presumibilmente oltre le speranze di chi lo aveva sottoscritto: questo grazie a una serie di eventi concatenati e a una riflessione più approfondita da parte di quegli attori del dramma che avrebbero potuto farlo fallire, trasformandolo così da una fragile e contestata intesa a un possibile e inaspettatamente solido punto di ripartenza per un nuovo ragionamento sul futuro d’Italia.

Non occorre rifare la cronistoria di quanto è accaduto nella società, nell’economia, nel mondo del lavoro nei quasi tre mesi intercorsi dalla firma dell’accordo a questa fine di settembre. Quel che preme sottolineare sono state alcune cose inattese che sono successe.

Partiamo da Confindustria. Emma Marcegaglia, con notevole abilità, ha capito il momento politico molto meglio di tanti politici di professione: ha mollato in maniera netta il governo al suo destino e ha stabilito un asse neppur tanto nascosto con Susanna Camusso, la quale, da parte sua, forte del successo dello sciopero generale del 6 settembre, che ha trovato consensi importanti anche nelle basi di Cisl e Uil, ha potuto giocare il suo nuovo prestigio presso l’opinione pubblica per convincere la Fiom, nella sua ultima assemblea nazionale, ad abbandonare posizioni troppo oltranziste e cercare così di utilizzare le opportunità che l’accordo dà anche alla Fiom per non essere esclusa dalla rappresentanza in Fiat ed, eventualmente, in altre aziende in cui si stipulassero accordi separati. Del resto, è questa la sostanza della sentenza di Torino del 16 luglio sull’accordo di Pomigliano: sentenza fondamentale, per molti versi, dato che riconosce in materia di relazioni industriali la preminenza del fattore rappresentatività, sulla base della Costituzione, sulle mere interpretazioni legalistiche dell’art. 19 dello Statuto messe in campo dalla Fiat negli accordi di Pomigliano e Mirafiori.

A favorire le mosse delle due signore, poi, ci si è messo anche il governo. La sciagurata idea dell’articolo 8, che ha trovato il plauso praticamente solo di Sergio Marchionne e di qualche accademico consulente di Sacconi, ha messo in seria difficoltà, più di quanto già non lo fossero, le dirigenze di Cisl e Uil; ha rinforzato negli industriali l’idea che il governo, più che cercare di favorire le loro aziende, cercasse di colpire in modo del tutto ideologico il mondo del lavoro, perlomeno quella parte percepita come antagonista. Non che questo dispiaccia ai datori di lavoro, per carità: il fatto è che in questa congiuntura si rendono tutti conto che creare ulteriore malcontento e divisione nel Paese è una delle vie maestre per innescare una spirale davvero micidiale per tutti di sfiducia e rassegnazione. La modifica nella stesura definitiva, peraltro piuttosto ambigua e pasticciata col recepimento dell’accordo del 28 giugno, ha dato solo l’impressione di una mossa per accontentare tutti e salvare la faccia. Insomma, vista poi la firma dell’intesa interconfederale per la non applicazione dell’articolo nella contrattazione delle aziende Confindustria, una vittoria politica per il duo Marcegaglia-Camusso e una sconfitta secca per Sacconi.

Concludendo. Possiamo dunque registrare una ripresa del dialogo forte tra le parti sociali; la CGIL è uscita dall’angolo (ammesso che ci sia mai stata) e si riafferma come un’organizzazione fondamentale per la vita civile del Paese; si cominciano a vedere segnali di riunificazione anche nella categoria fin qui più lacerata, quella dei metalmeccanici, il tutto al fine (sperabile) di creare un movimento che stimoli la politica a trovare soluzioni prima che la crisi economica e sociale del Paese diventi irrimediabile. Tutto questo è senz’altro positivo.

Rimane però la realtà di una nazione in cui larghe parti della cittadinanza (donne, giovani, immigrati) faticano a trovare spazi e adeguata rappresentanza sia politica sia sociale: e senza di loro qualsiasi progetto di rinascita è destinato a rimanere monco e zoppo. D’altronde, le forze politiche sembrano nel loro complesso allo sbando, continuando a litigare su Berlusconi, che non è il problema ma solo una parte: la questione vera è riuscire a far piazza pulita della mentalità che ha prodotto Berlusconi, fatta di egoismi, difesa dei privilegi e di totale cecità di fronte alle dinamiche reali della società e dell’economia. L’acqua in cui Berlusconi e i suoi hanno nuotato per quasi vent’anni è ancora molto alta, soprattutto dalle parti della politica e in molti settori della vita sociale, Chiesa cattolica inclusa. Il rischio è che in una ritrovata concordia delle forze sociali e nell’inconsistenza delle forze politiche si affermi una politica tecnocratica, formalmente centrista e consociativa ma di fatto conservatrice se non reazionaria, che rinnovi sotto altre forme, magari più decenti e rispettose anche del mondo del lavoro, quell’ideologia piccolo borghese di cui l’attuale governo è espressione, affidandosi per restare a galla a un europeismo subalterno e legato più ai poteri forti continentali che non a una idea precisa d’Europa. Questo, del resto, non è forse il segno delle ultime manovre finanziarie?

Mercoledì, 28. Settembre 2011
 

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