La pace delle due dame

L’accordo che ha visto protagoniste Susanna Camusso e Emma Marcegaglia rischia di non reggere, perché ha scontentato i falchi di entrambe le parti. E’ urgente che il sindacato avvii una profonda riflessione sulla sua natura e sulla sua struttura

Chi ama la storia ricorderà che, nel lontano 1529, venne firmata tra il re di Francia Francesco I e l’imperatore Carlo V d’Asburgo la pace di Cambrai, detta delle due dame perché le reali protagoniste di quella trattativa furono Luisa di Savoia, madre di Francesco I, e Margherita d’Asburgo, zia di Carlo V. Furono esse le vere artefici dell’accordo, che peraltro durò poco perché dopo pochi anni i problemi causati dalla Riforma luterana e le turbolenze politiche della Germania portarono a nuovi scontri tra le potenze europee.

 

L’episodio storico mi è ritornato alla mente in occasione della firma dell’accordo interconfederale del 28 giugno: anche qui, protagoniste due dame e, anche qui, il rischio che l’accordo non sia efficace nonostante la buona volontà dei sottoscrittori. Infatti, alla immediata e prevedibile reazione negativa della Fiom e della minoranza congressuale Cgil, ha fatto da contraltare pochi giorni dopo l’iniziativa di Federmeccanica, che convoca per il 18 luglio un incontro con i sindacati firmatari degli accordi di Pomigliano e Mirafiori per discutere del contratto auto. La Fiom, ovviamente, non è invitata.

 

Ragioniamo. A leggere l’accordo l’impressione è che le segreterie confederali e la dirigenza di Confindustria abbiano soprattutto voluto ricondurre le problematiche contrattuali e di rappresentanza in un alveo squisitamente confederale, ribadendo inoltre la netta supremazia delle organizzazioni sulle istanze di base, soprattutto sul versante sindacale, lasciando alle categorie solo il compito (o meglio l’onere, o se preferite la grana) di regolare come meglio credono la gestione pratica delle Rsu (vedi intesa intersindacale sottoscritta assieme all’accordo). Facile prevedere che in una categoria, quella dei metalmeccanici, tale processo non sarà né breve, né semplice, vista la forte divisione tra le sigle e il vivace dibattito interno alla Fiom; facilmente si andrà verso l’istituzione di Rsa in aziende anche importanti, a meno che non prevalga il buon senso a livello territoriale e aziendale. Comunque, poco male se ci saranno le Rsa: in quel caso, si faranno i referendum così la Fiom è contenta...

 

Al di là della discussione sul merito dell’accordo (che ha sicuramente anche i suoi lati positivi), hanno delle buone ragioni Landini e Rinaldini quando contestano il metodo, lamentando l’eccessiva fretta che non ha consentito una discussione più approfondita. Il primo risultato infatti, come si è visto, è stato lo smarcamento immediato dei falchi di entrambe le parti, che hanno buon gioco perché si basano su fatti compiuti, gli stessi fatti compiuti che l’accordo avrebbe voluto superare e almeno in parte sanare.

 

In altre parole, come nella vecchia vicenda del 1529, per non aver tenuto conto dei movimenti reali si rischia di produrre l’effetto contrario a quello desiderato: da un lato una spaccatura all’interno della stessa Confindustria, da parte della sua componente forse più influente che, a questo punto, sembra schierarsi più con un Marchionne nel pieno dei poteri che con una Marcegaglia ormai a fine mandato, ratificando la scelta Fiat di escludere “chi non ci sta”; dall’altro l’approfondimento del solco (che a questo punto sta diventando un fossato) tra Cgil e Fiom. L’accordo del 28 giugno rischia quindi di essere, per così dire, soffocato nella culla. Questo significherebbe una sconfitta secca soprattutto per Susanna Camusso e un colpo assai grave per la Cgil, se vogliamo veder la cosa esclusivamente dall’ottica delle organizzazioni; ma significherebbe anche (cosa ben peggiore) un ulteriore passo verso l’anarchia delle relazioni industriali italiane, una sorta di feudalesimo sociale in cui le parti deboli sarebbero non solo i sindacati, ma anche e soprattutto i lavoratori.

 

Morale: questa vicenda mostra come sia ormai imprescindibile una profonda riflessione del sindacato italiano sulla sua natura e sulla sua struttura (attenzione: le due cose sono unite come gemelli siamesi; non vivono l’una separata dall’altra). E’ evidente come il tentativo di ripristinare e/o rinsaldare un’egemonia delle confederazioni, sulla scia dell’impostazione data da Carlo Donat-Cattin allo statuto dei lavoratori e rafforzata dai referendum del 1995, sia ormai anacronistico; con le attuali strutture produttive e di mercato del lavoro, gli sbocchi sono da un lato il sindacato dei servizi e della bilateralità, dall’altro il sindacato di testimonianza, anche duramente antagonista. Un pluralismo da tanti auspicato, ma nefasto perché in ogni caso conduce alla rinuncia al governo dell’economia, soprattutto dove essa trova le sue fonti (ossia nelle aziende) e quindi, irrimediabilmente, alla subalternità. Non è quello che qualsiasi sincero democratico si augurerebbe per il nostro Paese, vista anche la perdurante incapacità della classe imprenditoriale nostrana di dotarsi di un’autentica visione generale e di proporsi davvero come classe dirigente.

Martedì, 12. Luglio 2011
 

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