Draghi e Epifani, due sponde per Prodi

La Banca d'Italia torna ad essere un interlocutore credibile: un fatto importante per un centro sinistra che, se andrà al governo, dovrà affrontare il dissesto dei conti pubblici. Come importante è la proposta di un "Patto fiscale" da parte della Cgil, al di là delle critiche infondate sul "governo amico"
La scorsa settimana si sono registrati due eventi che, da sponde diverse, possono suonare di buon auspicio per un prossimo, possibile e augurabile, governo di centro sinistra. Pensiamo al congresso della CGIL e al primo intervento pubblico in Italia del nuovo governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi. Cominciamo da qui.
 
Draghi, innovando nell'abitudine del suo predecessore di rendere fumosi i discorsi, con una ridondanza di cifre di ambigua valutazione, ha esposto con linguaggio diretto giudizi netti, non soggetti a una strumentale dialettica interpretativa. "L'Italia - ha affermato - seguita a trarre scarso beneficio dalle condizioni favorevoli che prevalgono nel commercio e nella finanza internazionali. Nel 2005 il PIL non è cresciuto, i nostri prodotti hanno ancora perso quota nel mercato mondiale, il disavanzo nel bilancio pubblico si è ampliato".
 
Al tempo del suo predecessore, che sembra  lontano anni luce, avevamo assistito a  una periodica torsione dell'analisi: dalla piena fiducia accordata alla visione miracolistica del governo di centrodestra all'inizio della legislatura, alle prese di distanza successive (coincidenti con i cattivi rapporti con Tremonti), alla finale riapertura di credito al governo Berlusconi nelle ultime fasi di un  governatorato ormai in agonia.
 
Vale anche la pena di sottolineare che per la prima volta da molti anni non sentiamo la litania sul declino come effetto della mancanza di flessibilità del lavoro e del peso del sistema pensionistico. Draghi mette nella giusta luce la caduta della produttività, ma specificando che si tratta della "produttività di tutti i fattori". E non senza aver riconosciuto, riferendosi alle condizioni prevalenti a livello internazionale,  "la moderazione salariale" come un elemento determinante nella "crescita degli utili delle imprese..(e del) miglioramento delle loro condizioni finanziarie"… "In altri paesi la rivoluzione produttiva generata dall'avvento delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione si è esplicata pienamente: le imprese hanno adeguato il capitale umano e organizzativo alle nuove tecnologie. L'Italia è attardata nel cogliere le occasioni offerte da questa rivoluzione. Il divario è massimo nella produttività totale dei fattori."
 
Sul piano delle strategie di mercato, il neo-governatore ha mostrato più equilibrio e prudenza di quanti (come gli editorialisti del Corriere della Sera) vorrebbero una liberalizzazione di stampo ideologico. Draghi non assume posizioni protezionistiche (che nessuno si sarebbe aspettato), ma chiede un consolidamento del sistema bancario nazionale, come alternativa a un'inevitabile subalternità nei circuiti internazionali dei sistemi bancari e finanziari. La differenza con Fazio è evidente. Da un lato, un esplicito ammonimento a rafforzare il sistema nazionale, bandendo "personalismi e provincialismi", per evitare il libero shopping nel sistema bancario nazionale. Dall'altro, una Banca centrale trasparente nelle sue strategie, aliena da sotterranei giochi più o meno collusivi.
 
Il discorso di Draghi sarebbe stato certo più compiuto se ci avesse aiutato a capire come sia possibile che, al cospetto di una crescita dell'economia mondiale tra le più alte dell'ultimo trentennio, l'Unione europea e, in particolare, l'eurozona, sono insabbiati da anni in una situazione letargica. La tesi secondo la quale la politica della Banca centrale europea è stata efficace custode della stabilità, e che il problema è quello delle riforme - senza specificare di cosa si tratti - fa parte di un giudizio convenzionale  che non aiuta una comprensione critica del problema. Ma sarebbe stato ingenuo aspettarsi, su un punto così controverso, un'analisi più penetrante da un neo-governatore che si accinge a entrare nel club dei banchieri centrali dell'Unione.
 
Se la Banca centrale torna a essere un interlocutore affidabile e trasparente a beneficio di  un possibile governo di centrosinistra che dovrà affrontare il lascito di una finanza dissestata, non meno importanti sono per Prodi, sulla sponda opposta, gli esiti del congresso della CGIL. A parte il comune giudizio di fallimento del centrodestra, Epifani ha espresso un'apertura di credito nei confronti di un possibile governo di centrosinistra. La critica alla tesi del "governo amico" mi sembra pretestuosa e mal riposta. In democrazia le elezioni si celebrano per giudicare i governi passati ed eventualmente cambiarli. In altre parole, il voto democratico si basa sul presupposto che non tutti i governi siano eguali. Sarebbe altrimenti un esercizio costosamente pletorico andare periodicamente al voto, se nulla dovesse cambiare.
 
E' vero che un sindacato deve essere, in linea di principio,  disponibile a confrontarsi con qualsiasi governo. Ma non è altrettanto vero che un sindacato non possa e debba distinguere fra un governo e l'altro. Ci sarà differenza fra un governo che chiede i voti sulla base di un programma che si fa carico dei problemi del lavoro, della sicurezza sociale e dell'equità, e un altro, come quello di Berlusconi, che si dichiara in partenza d'ispirazione thatcheriana (anche se nei fatti, impareggiabilmente meno serio), che fa del conflitto col sindacato un elemento programmatico, che contribuisce alla frantumazione del mercato del lavoro e all'esaltazione delle disuguaglianze.
 
La proposta di Epifani di un "Patto fiscale", che copra l'intero arco della legislatura, al di là della retorica dei cento giorni, può essere poco e molto, al tempo stesso. Il riferimento alla politica fiscale indica un terreno limitato ma concreto di un rapporto che non si può definire "concertazione" per almeno due ragioni. La prima è che la concertazione implica una politica dei redditi nella quale entrano in gioco tutte le grandezze macroeconomiche. In altre epoche, una politica monetaria e del cambio (insieme a quella fiscale) diretta a uno specifico traguardo di crescita e di occupazione.
 
Dopo l'euro, la politica monetaria e quella del cambio non sono più nelle mani del governo nazionale. Il principale riferimento, dal punto di vista macroeconomico, rimane quello fiscale, con tutti i limiti imposti dal disastro in cui l'attuale governo ha precipitato il paese.Una volta che lo strumento fiscale diventa la punta di lancia della politica macroeconomica del governo, la CGIL a ragione ne esalta il carattere distintivo ed essenziale per valutare la politica del governo.
 
La seconda ragione per la quale, allo stato dlele cose, non esistono le condizioni per una concertazione in senso proprio è che questa esige nel suo svolgimento il riconoscimento e la disponibilità della rappresentanza imprenditoriale. Ciò che appare lontano dal "manifesto" confindustriale di Montezemolo. Il quale, dopo aver riconosciuto - gliene va dato atto - i disastri del governo Berlusconi, assume posizioni di grande rigidità, quando, come fa nell'intervista al Sole 24 ore del 5 marzo, non solo si dichiara deluso degli esiti del congresso della CGIL (il che non è di per sé sorprendente), ma chiede non cinque (obiettivo già problematico e, per molti versi, discutibile), bensì dieci punti di riduzione della contribuzione previdenziale. Mentre, al tempo stesso, finge di non conoscere i danni della cosiddetta "legge Biagi", facendone un elogio, che suona immeritato perfino dal punto di vista concreto ( e non ideologico ) delle imprese.
 
In conclusione, mi pare si possa dire che un governo di centrosinistra non debba aspettarsi sindacati "amici", nel senso tradizionale del rapporto fra sindacati socialdemocratici e governi socialdemocratici (o in America AFL-CIO e presidenza democratica), ma un sindacato aperto a un dialogo costruttivo, disponibile a favorire una politica che vada nel senso di un riequilibrio fra capitale e lavoro. Dialogo che il sindacato può accompagnare facendo valere, di volta in volta, la sua autonomia conflittuale insieme con la sua autorevolezza e la sua responsabilità nella regolazione dei rapporti di lavoro.
 
Quest'impostazione della CGIL sarebbe, d'altra parte, scarsamente concreta, se non addirittura velleitaria, in mancanza di un rapporto unitario con CISL e UIL. Da questo punto di vista,  sia gli interventi di Angeletti che di Pezzotta non hanno mancato di porre in evidenza i punti di dissonanza,  la cui natura, tuttavia, non appare tale da impedire un approdo unitario. Le differenze sul tema della rappresentatività rimangono - soprattutto tra CGIL e CISL - intatte, ma probabilmente entrambe le confederazioni possono convenire sul fatto che il problema essenziale e comune non è tanto quello della misura della rappresentatività, quanto quello della estensione della rappresentanza ai nuovi strati di lavoratori e lavoratrici, soprattutto giovani, che rimangono dispersi nel mondo della precarietà, privi di punti di riferimento collettivi e di rappresentanza sindacale.
 
Quanto al modello contrattuale, l'altro tema del dibattito interno, è importante che tutt'e tre le confederazioni si dichiarino unite nella difesa del contratto nazionale e nel rifiuto del suo depotenziamento. Quanto poi alla sua articolazione con la contrattazione di secondo livello, credo che l'accento posto da Pezzotta sul rilancio del ruolo della "prima linea", le rappresentanze sindacali di base, non possa costituire un elemento di divisione, ma semmai di rilancio e rafforzamento del percorso unitario a tutti i livelli della rappresentanza e della negoziazione.
Lunedì, 6. Marzo 2006
 

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