Dopo i No: l'Unione si può rilanciare

Francia e Olanda non hanno bocciato l'unità europea, ma le politiche di 'questa' Europa: e il centro sinistra potrebbe prendere l'iniziativa per un loro cambiamento

Col passare dei giorni non si attenua fra i commentatori lo sconcerto per il doppio No francese e olandese al trattato costituzionale. Uno sconcerto che spesso diventa irritazione in particolare nei confronti della Francia, accusata di indulgere alla solita mania di grandezza, infarcita di nazionalismo politico e di colbertismo economico. Frustrazione e rabbia non aiutano, tuttavia, a cogliere gli elementi di crisi per cercare di superarli.
 
Per onestà politica, bisogna partire dal fatto che in Francia si è discusso dell'integrazione europea più che in qualsiasi altro paese dell'Unione. Che l'estrema destra e frange della sinistra radicale avrebbero votato contro la costituzione, come contro qualsiasi altra proposta, era noto e non costituisce una sorpresa. Sarebbe come stupirsi in Italia che la Lega voti contro qualsiasi proposta europea, arrivando alla stupidità di proporre l'uscita dall'euro. (Si dice: per legare la lira al dollaro, che equivale alla via argentina alla bancarotta!).

Il problema aperto col referendum sta nel fatto che il 60 per cento degli elettori socialisti ha votato contro il trattato. Parliamo del partito di Mitterand e di Delors, senza i quali difficilmente esisterebbero oggi il mercato unico, l'euro e l'Unione europea. La scelta della maggioranza degli elettori socialisti non è contro la costruzione europea, ma contro la politica dell'Unione europea. Una politica considerata di stampo anglosassone, neoliberista, incapace di creare sviluppo, contraria al modello sociale francese e, più in generale, europeo.

"L'Europa così com'è non piace - ha ammesso Juncker, presidente del Consiglio europeo - con la conseguenza che si respinge l'Europa proposta dal trattato costituzionale". E Giuliano Amato ha messo a sua volta il dito sulla piaga. Il trattato è andato oltre i confini propri di una carta costituzionale, pretendendo di consacrare al suo interno tutte le politiche iscritte nei precedenti trattati, trasformandole in altrettanti vincoli inalterabili.

 
Si può condividere o no la critica dei socialisti francesi, ma non si può stravolgerla.
Una volta realizzato il mercato unico e l'euro, l'Unione doveva presentarsi più forte di fronte alla sfida della globalizzazione. Ma, paradossalmente, le cose sono andate in senso contrario. L'Unione langue nella stagnazione; la disoccupazione è aumentata; le condizioni sociali non solo delle fasce sociali più deboli, ma anche dei ceti medi sono diventate più precarie. Quando Barroso, il presidente della Commissione europea, nominato dai governi di centro-destra, col sostegno di Blair e di Berlusconi, ma contro il parere di Francia e Germania, afferma di voler rilanciare una politica di crescita e di occupazione, pensa alle famose riforme di struttura indirizzate a una maggiore deregolazione del mercato del lavoro e una riduzione della spesa sociale. Piaccia o no, il voto contro il trattato costituzionale è stato anche il voto contro questa politica.

Un'analisi più corretta ci aiuta a evitare, da un lato, il catastrofismo; dall'altro, la banalizzazione di chi suggerisce di prendere tempo, continuare con l'approvazione del trattato - che, in ogni caso sarebbe bocciato in Gran Bretagna -, allungare il termine per la sua entrata in vigore, in modo da portare la Francia a un nuovo referendum dopo le elezioni presidenziali del 2007. Questa è veramente la via della disgregazione. Il catastrofismo è fuori luogo dal momento che le maggiori novità introdotte dal nuovo trattato andrebbero in vigore fra il 2009 e il 2014. L'Unione può intanto continuare a funzionare con le regole del trattato di Nizza. Mentre, come suggerisce Amato, alcune disposizioni del trattato costituzionale - la durata della presidenza del Consiglio europeo, l'istituzione di un ministro degli esteri, il nuovo metodo di voto - potrebbero essere "trapiantate" nei trattati esistenti con una decisione dei governi.

Il problema non riguarda tanto le regole quanto le politiche. Si tratta di far uscire l'Unione dall'attuale apatia e inconcludenza. L'integrazione ha bisogno di ritrovare un motore politico, un nucleo centrale, un gruppo di avanguardia, o comunque si definisca, che si assuma la responsabilità di rilanciare l'economia europea, di farla tornare alla crescita, di utilizzare le sinergie di una politica economica coordinata. La Francia e la Germania sono essenziali, ma non più sufficienti per sviluppare e realizzare un disegno di rilancio. Altri paesi possono concorrervi come la Spagna e il Belgio, e domani - si spera - l'Italia liberata dall'antieuropeismo del governo Berlusconi. 

Il doppio "no" ha svelato una crisi già evidente, ma ostinatamente negata. Il consolidamento dell'Unione sarebbe dovuto venire prima dell'allargamento, come non si era stancato di sostenere Delors. Ora l'allargamento c'è, deve essere consolidato e portato avanti. Ma sapendo che l'integrazione dovrà procedere a velocità diverse. E' questo il senso delle "cooperazioni rafforzate", previste sia nel trattato bocciato, sia in quello vigente di Nizza. Si può cominciare a praticare quest'obiettivo, partendo dall'"europgruppo", i paesi che partecipano all'euro. E' qualcosa che si può fare, e che è ribadito in un protocollo allegato al trattato costituzionale, dove si prevede che i ministri dell'economia dei paesi dell'euro "allo scopo di realizzare una maggiore crescita economica…sviluppino un coordinamento sempre più stretto delle politiche economiche".

Per quale ragione non si dovrebbe procedere in questa direzione? Chi impedisce l'adozione di misure coordinate di politica economica mirate a creare sinergie nei campi della ricerca, dell'innovazione tecnologica, del sostegno delle industrie di punta, a organizzare forme congiunte di concertazione fra le parti sociali per associare misure negoziate di flessibilità con garanzie del lavoro e, in definitiva, maggiore crescita e occupazione? Certamente questo non è pane per i denti del governo Berlusconi e dei suoi alleati leghisti. Ma il centrosinistra italiano può farsi portatore di un rinnovamento delle politiche europee, in attesa di poterne diventare uno dei protagonisti, una volta conquistato il governo del paese (supponendo che ne abbia ancora la voglia e la capacità!).

Un cambio di politica serve ai socialisti francesi oggi profondamente divisi, come ai socialdemocratici tedeschi (ma anche a un eventuale governo democristiano). Su queste basi, non è impossibile riprendere il filo del trattato costituzionale. Una volta che tutti i paesi si saranno espressi, sarà sufficiente che i quattro quinti (venti paesi su venticinque) abbiano approvato il trattato, perché il Consiglio europeo adotti le misure che, a quel punto, saranno considerate le più opportune. Piangere sul latte versato, fingendo che una crisi sostanziale non fosse già in atto, indipendentemente dal "no" francese e olandese (e da quelli che potranno seguirli, a cominciare dal "no" britannico messo in conto sin dall'inizio), significa confondere cause ed effetti.

Un aperto dibattito nel centrosinistra italiano mirato al rilancio dell'Unione può aiutare non solo a precisare il suo programma politico, ma anche a ricostruire la "road map" di un effettivo rilancio dell'Unione da parte delle autentiche forze europeiste, cominciando proprio dalla Francia e dalla Germania, senza le quali l'Unione non sarebbe esistita, e difficilmente potrebbe continuare a esistere.

Martedì, 7. Giugno 2005
 

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