Di destra o di sinistra? Un giudizio sulla manovra

La Legge di stabilità realizza una politica di spesa in deficit indirizzata a un target selezionato in base a un criterio di consenso elettorale, anziché di reddito o di condizione sociale. Che esclude perciò le fasce a più basso reddito, che si sono progressivamente allontanate dalla politica

In un dibattito sulle sorti della sinistra in cui sempre più spesso viene messa in discussione la stessa distinzione di fondo rispetto alla destra, non è facile ancorare a criteri di giudizio solidi e condivisi un discorso attorno a scelte politiche che, pure, hanno un forte un impatto sulla vita dei cittadini.

Gli schemi che prevalgono hanno tutti un forte tratto autoreferenziale, basati come sono sugli schieramenti  parlamentari. I contenuti sfumano sullo sfondo, i programmi elettorali sono stati rimossi dalla memoria collettiva, sembrano risalire non a due anni fa ma a un'altra era geologica.

Mentre il centro, che in origine identificava la parte più mobile e meno inquadrata nei due schieramenti fondamentali, è passato a rappresentare esso stesso uno schieramento. Anzi, lo schieramento per antonomasia, il luogo di realizzazione della Politica con la maiuscola, quella con il pilota automatico, quella delle euroburocrazie, o del pensiero dominante, o dei “poteri forti”. Insomma, quella senza alternative. Quella delle larghe intese. Quella che, in Italia, da Monti in poi ha ufficialmente estromesso la dialettica destra-sinistra dal quadro istituzionale, inteso come Parlamento e governo.

Eppure la dialettica tra destra e sinistra nella sua evoluzione (certo, non sempre uguale a se stessa)  è ciò che dà un senso alla politica. Ne abbiamo una riprova nella stretta correlazione tra i due fenomeni, perdita di senso della distinzione e perdita di appeal della politica.

Questa premessa, che spero mi sia perdonata, serve a introdurre una riflessione sul colore politico delle scelte che stanno alla base dell'atto parlamentare più importante, la legge di stabilità. Come vanno giudicate?

Se Giorgio Gaber nella famosa canzone su destra e sinistra avesse pensato di inserire anche la politica di bilancio, è facile immaginare che la spesa in deficit sarebbe finita tra le cose di sinistra e il pareggio tra quelle di destra: insieme a “meno tasse”. All'opposto, a sinistra, “più welfare”. Il premier, che adotta uno stile di comunicazione “a cinguettii” basato sulle semplificazioni, avendo bisogno di accreditare un'immagine di sinistra del suo governo (per recuperare un consenso che su quel versante è in netto calo) ha confezionato un racconto sulla legge di stabilità per il 2016 che assomiglia molto a uno schema modello Gaber. Incontrando però qualche difficoltà.

E' una manovra di sinistra, ha sostenuto, perché sforiamo il tetto del deficit senza farci imporre dalla Germania e dai burocrati Ue la linea dell'austerità. E perché usiamo le risorse per sostenere le famiglie bisognose e i diciottenni che devono investire sul loro futuro. In più diminuiamo le tasse: una cosa che (qui ha dovuto correggere lo schema) non è di destra (né di sinistra) ma una cosa buona di per sé. A prescindere.

Funziona? E' convincente questa lettura? E' lecito avere dubbi. Ma, che riesca a convincere o meno, è bene avere chiaro che è uno schema completamente falso.

Deficit spending, ricette keynesiane? La legge di stabilità 2016 si avvia a prendere il largo (o, meglio, la via di Bruxelles) con un rapporto deficit/pil calcolato al 2,4%. Poiché il PIL nella più rosea delle previsioni crescerà a un tasso pari alla metà, è facile trarne la conclusione che qualche ulteriore masso andrà ad aggiungersi alla montagna del debito che si è accumulato nel tempo. Allora, se le risorse eccedenti sono impiegate per produrre una dinamica del PIL che consenta di recuperare lo squilibrio nei conti (in un periodo breve, per il lungo periodo Keynes consigliava piuttosto gli scongiuri) il deficit è non solo utile ma necessario per uscire dalla depressione. Altrimenti peggiora le cose.

La sua utilità dipende dunque dagli effetti sulla ricchezza futura: deve servire a incentivare investimenti che assicurino un aumento di efficienza del sistema produttivo e a tonificare la domanda sostenendo i percettori di reddito con maggiore propensione al consumo. La spesa per assistenza avrebbe quest'ultimo effetto: ma quella prevista nella legge è un'inezia; non sostiene un diritto ma rappresenta un'elargizione; è accompagnata da riduzioni molto più consistenti della spesa per il welfare. Per il resto, l'abolizione di una tassa come la TASI, al pari del bonus 80 euro, è una misura a vantaggio di una platea indifferenziata in cui la propensione al consumo è assai variabile e, stando agli effetti sulla domanda interna, mediamente bassa. Senza contare la distorsione rappresentata da un alleggerimento del peso dell'imposizione su un bene patrimoniale come la casa, a cui corrisponde (aritmeticamente) un aumento del peso di quella sui redditi.

Quanto all'altra condizione – incentivi destinati a chi investe sull'innovazione e sull'aumento di competitività – gli aiuti alle imprese sono stati cospicui, fino all'ultima costosissima elargizione di 8.000 euro in tre anni per chi assume a tempo indeterminato (da marzo scorso con il nuovo contratto che non prevede tutela dai licenziamenti arbitrari). Ma non sono soggetti ad alcun vincolo selettivo, avendo quindi il solo effetto di migliorare i conti aziendali. Quale sia l'ideologia alla base lo ha spiegato di nuovo, senza perifrasi, il ministro Padoan in un seminario all'inizio di dicembre con il conservatore britannico Jonathan Hill, Commissario Europeo per la stabilità finanziaria. Per la ripresa economica serve fornire condizioni favorevoli agli imprenditori. Meno vincoli (amministrativi, forse intendeva anche ambientali), meno costi (del lavoro), meno tasse.

Non c'è che dire, una ricetta di sinistra.

Si dà il caso che questa versione (perfino un po' hard) del liberismo economico oltre ad essere di destra è anche del tutto inefficiente quanto a capacità di dare impulso all'economia. Condanna a una progressiva perdita di competitività, a una stagnazione dei consumi, a un deterioramento della qualità della vita associata, oltre che a una crescita delle diseguaglianze: di sapere, di potere e di reddito, come ci ricorda da ultimo Massimo L. Salvadori.

Stiamo parlando, insomma, di una versione del liberismo di marca ultraconservatrice. A cui si affianca una politica di spesa in deficit indirizzata a un target selezionato in base a un criterio di consenso elettorale, anziché di reddito o di condizione sociale. Che esclude perciò le fasce a più basso reddito (e più alta propensione al consumo), che si sono progressivamente allontanate dalla politica (la protesta “con i piedi” che sta portando a una continua crescita dell'astensione): ricordate il commento di Renzi al crollo della partecipazione nelle elezioni regionali emiliane? “Meglio perdere votanti che voti.”

Una politica che, in uno schema concettuale classico, si definisce di destra populista. Un giudizio ingeneroso? O un pregiudizio radicale? Mi limito a osservare che, fuori da questa specie di Truman Show che è l'odierna politica italiana, la definizione di ultraliberismo più populismo per connotare l'attuale politica italiana, in giro per il mondo, sarebbe considerata banale. Ascritta a una matrice culturale di sinistra, magari: forse un po' classica, non certo radicale.

Per tornare allo spunto iniziale, al futuro della sinistra, ci si dovrebbe dunque domandare se la politica “della Nazione”, quella senza opposizione (che non sia quella dei gufi), che presenta queste caratteristiche non possa trovare un'alternativa. Che peraltro si imporrebbe con urgenza, considerata la gravità della situazione socio-economica.

Ovvio che un'alternativa esiste. Soluzioni di politica fiscale e ambientale. Di sviluppo (sostenibile) e di welfare. Di ampliamento della sfera dei diritti, di tutela della libertà e dell'integrità personale, di affermazione dello stato di diritto (uguaglianza di fronte alla legge). Ce ne sono da riempire biblioteche; e, dove realizzate, possono pure vantare qualche successo, non solo nella storia passata.

E' diffusa la convinzione che il problema stia nella difficoltà di raccogliere consenso tra i cittadini su simili ricette: ma direi che si fa fatica a rintracciare una leva di politici disposti a mettersi al servizio di questa causa, con la convinzione e con la determinazione che sarebbe richiesta.

Giovedì, 31. Dicembre 2015
 

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