Delega sul lavoro, i nodi di una non-riforma

Non solo lo strumento scelto implica tempi lunghi mentre l’occupazione è un’emergenza, ma è carente o addirittura sbagliato su punti cruciali come sussidio universale di disoccupazione, contratto unico, salario minimo. Si può ancora cambiare rotta, ma bisogna farlo presto

Procedere con le riforme. Dare la priorità a quella del lavoro, “madre di tutte le battaglie”. Lo ha detto Renzi all'indomani del voto che lo ha premiato e lo carica della responsabilità di dare seguito agli annunci con risultati concreti. Lo dice la Commissione Ue. Lo chiede una situazione insostenibile del mercato del lavoro. Duale come non mai, esclude i giovani, le donne, gli anziani, specialmente nel Sud. Non solo un record di disoccupazione ma una fuga dal mercato del lavoro (diminuisce anche la popolazione attiva). Lo dicono le previsioni macroeconomiche, da qualunque parte provengano. Se non si modificano le tendenze in atto, la ripresa, già in ritardo rispetto al resto d'Europa, sarà lenta e, quel che è peggio, sarà jobless, non produrrà aumento di occupazione.

 

Detto fatto, si potrebbe pensare. La legge di riforma è già in Parlamento, all'esame del Senato. Invece ho l'impressione che, se tutte le premesse sono vere, si richiede un nuovo inizio. Perché quella legge è solo una falsa partenza. Ed ecco le ragioni.

 

I tempi, per il percorso scelto, in primo luogo. E' una legge delega, diventerà operativa a fine 2015 se in Parlamento sarà approvata senza intoppi e se i decreti attuativi non saranno, ancora una volta come in passato, in colpevole ritardo. Dunque, nella migliore delle ipotesi. Anche in questo caso però si arriverebbe quando le basi della ripresa saranno tracciate, nel solco dell'oggi. Basi fragili, destinate a non risolvere il problema dell'occupazione: jobless, come si è detto.

 

E' stato scelto questo percorso perché si ha la speranza, neanche tanto inconfessata, che lasciando le scelte cruciali nel vago, senza scegliere tra visioni opposte circa le ricette da adottare, potranno poi essere le tecnostrutture ministeriali a decidere per il meglio. Doppio errore, sia in quanto è la resa della politica, sia in quanto le tecnostrutture procedono per consuetudine, si richiamano sistematicamente ai precedenti. Esattamente il contrario di ciò di cui si ha bisogno.

 

Il ministro Poletti che, a una domanda sull'invito della Commissione a fare più in fretta con la riforma, risponde (Repubblica del 3/6) che “ci vogliono i tempi fisiologici”, sorvolando sulla scelta della delega, fa un'offesa all'intelligenza. Tanto più essendosi lasciato scappare che il lavoro sui “regolamenti attuativi” (che in realtà sarebbero i decreti con cui si esercita la delega) è già partito. La Commissione Ue, d'altra parte, sembra aver preso atto. Se si scorrono le Raccomandazioni dedicate all'Italia la spinta a fare presto non viene riferita alla legge delega, la cui esistenza è semplicemente ignorata in quanto non in grado di incidere sui processi in atto. E neppure al decreto Poletti (aggiustamento marginale che comunque peggiora le cose). Le riforme prese in esame sono quelle della Fornero aggiornate nella versione Giovannini. In pratica, per l'Unione Europea siamo ancora fermi a Monti e Letta...

 

Se poi si passa dal discorso sui tempi a quello sul contenuto del disegno di legge si rivelano i motivi che hanno portato a scegliere una strada sbagliata. Emergono le contraddizioni che porteranno ad altrettante non-scelte. Con un destino segnato: o il pantano o il suggello sulla conservazione (perfino peggiore). Ecco un breve elenco.

 

Sussidio universale di disoccupazione. Era annunciato, come misura indispensabile per motivi di equità e per sanare uno squilibrio strutturale. L'accesso va condizionato alla ricerca di un lavoro, con l'assistenza e sotto il controllo dei servizi per il lavoro. Che però non sono in condizioni di svolgere il loro ruolo e vanno riformati. Temendo che una riforma in tempi brevi non sia credibile e che la platea si allarghi troppo, facendo saltare le coperture, si limita l'estensione a pochi casi. Metà dei disoccupati (se non più) resta fuori.

 

Contratto unico a tutele crescenti. Era una bandiera, per disboscare la giungla dei contratti precari e favorire la centralità del lavoro stabile (restavano comunque da precisare i contorni, tutele, contenuto formativo). Ma non lo vuole la parte più arretrata del nostro sistema produttivo, quella sulla cui taglia è stato ridisegnato il diritto del lavoro nel nostro paese. Quella che ha avuto come unico obiettivo abbassare il costo dei nuovi assunti, col risultato di espellere gli anziani (solidarietà tra generazioni) e di portare la disoccupazione giovanile al 50%. Ecco dunque l'alt: il contratto unico diventa, nel testo di legge, sperimentale, oltre che eventuale, e in ogni caso aggiuntivo rispetto alle tipologie esistenti.

 

Salario minimo. Era presentato come un'esigenza elementare, solo l'Italia manca all'appello tra i paesi civili. I sindacati erano sospettosi, temendo fosse un modo per eludere i minimi contrattuali anziché uno strumento per garantire un'equa retribuzione (sufficiente e proporzionata, secondo il dettato costituzionale) a chi non è coperto dai contratti, anche in nome del principio della concorrenza leale. Un principio spesso invocato dai liberali da talk show da cui però la maggioranza del mondo imprenditoriale chiede piuttosto di essere posto al riparo. Nel testo di legge i sospetti dei sindacati trovano così conferma. Il salario minimo, eventuale e sperimentale, resta confinato all'area del lavoro subordinato. A quello che la contrattazione nazionale già tutela (con l'ausilio dell'articolo 39 della Costituzione). Per minare quelle tutele (nella peggiore delle ipotesi, la più logica) o per sovrapporsi senza nessun beneficio (nella migliore, poco probabile).

 

C'è tempo per tornare indietro e cambiare rotta. Scegliendo la strada della legge di merito e chiamando il Parlamento a decidere sui nodi irrisolti (che non sono solo quelli che ho elencato).

 

Ma di tempo ce n'è poco. I dati statistici peggiorano di mese in mese, il paese attende con fiducia, ma la fiducia ha sempre, inevitabilmente, una data di scadenza.

Domenica, 8. Giugno 2014
 

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