Contro la crisi imparare da Roosevelt

Riediti i discorsi del grande presidente, con prefazione di James Galbraith e postfazione di Adolfo Pepe, due lettere di Keynes, un articolo di Mussolini, interventi di Giuseppe Amari, Maurizio Franzini e Giovanna Leone, saggi di Federico Caffè, appendice cronologica di Maria Paola Del Rossi. Il ruolo dello Stato nell’economia e per “una più saggia e una più equa distribuzione del reddito nazionale”

Franklin Delano Roosevelt (FDR) rimarrà nella storia come una delle figure chiave del Novecento sia per il New Deal, che contribuì a far uscire l’America e il mondo dalla Grande Depressione, sia per la duplice vittoria anglo-americana sulle forze dell’Asse in Europa e nel Pacifico. L’editore Castelvecchi ripropone ora in una nuova traduzione il libro che Roosevelt pubblicò nel 1933, l’anno di inizio della sua lunga presidenza, che raccoglie i discorsi da lui tenuti in campagna elettorale e al momento dell’insediamento. Il volume, intitolato Guardare al futuro, era già stato pubblicato in Italia nel 1933, in piena era fascista, da Bompiani all’interno di una collana dedicata al panorama internazionale, che comprendeva anche due volumi di Adolf Hitler. Questa edizione, curata da Giuseppe Amari e Maria Paola Del Rossi, con prefazione di James K. Galbraith e postfazione di Adolfo Pepe, oltre al libro di Roosevelt, comprende un altro intervento dello stesso Roosevelt alla radio nel 1933, due lettere a lui indirizzate da John M. Keynes, alcuni saggi sul New Deal scritti in epoche diverse da Federico Caffè, un articolo di Benito Mussolini del 1933 nonché alcune riflessioni di Giuseppe Amari, Maurizio Franzini e Giovanna Leone. Un’Appendice di Maria Paola Del Rossi arricchisce il volume di un’utile cronologia dei principali provvedimenti adottati dal presidente americano dal 1933 al 1938. Il volume è dunque molto interessante e ricco di spunti di politica economica anche per il presente e il futuro, che trovano una sintesi nel sottotitolo La politica contro l’inerzia della crisi.

La narrazione del testo rooseveltiano si snoda in modo lineare e chiaro lungo i diciassette capitoli che lo compongono. Alla base del pensiero di FDR vi è un forte ancoraggio ai valori fondanti della democrazia americana, affermati dalla Costituzione americana, che rappresenta il contratto tra lo Stato e i cittadini, e impersonificati da alcuni grandi presidenti del passato: Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt, Woodrow Wilson. Non a caso il primo capitolo si intitola Rivalutazione dei valori, nel quale FDR rivendica il diritto alla vita, alla proprietà, alla sicurezza, alla libertà e alla felicità di ogni uomo. Il compito del governo è quello di “assicurare equità e giustizia per tutti.” Cominciano qui a delinearsi i contorni della riforma rooseveltiana, ossia la necessità dell’intervento dello Stato al fine di affermare il principio di equità non meno di quello di libertà. Intervento che si concretizza con la programmazione economica, oggetto del secondo capitolo, in cui la “riforma” si incontra con l’esigenza di rilancio dell’economia. “Credo che siamo all’inizio di un fondamentale cambiamento del nostro pensiero economico. Io credo che in futuro dovremo pensare meno ai produttori e più ai consumatori. Per fare ciò possiamo immettere ricchezza nel nostro malato sistema economico, e non possiamo sopportare a lungo tale situazione, se non determiniamo una più saggia e una più equa distribuzione del reddito nazionale.”

Nei capitoli successivi FDR declina il suo articolato programma di interventi, che investono tutti i più importanti campi dell’economia e della vita civile. Come osserva nel suo saggio Franzini, le due parole che ricorrono di più sono: concentrazione e potere economico. La lotta contro l’eccessiva concentrazione del potere economico nelle mani delle grandi corporations, che condiziona fortemente il potere politico e la vita dei cittadini, rappresenta il cuore della riforma rooseveltiana. L’uscita dalla crisi – la seconda esigenza del New Deal – deve avvenire coniugando l’espansione dell’economia con l’affermazione di questo principio. Su queste basi, come sappiamo, si coagulerà il consenso di un nuovo blocco sociale a favore di FDR, che sarà eletto per ben quattro mandati. E’ interessante in particolare soffermarsi su questa visione congiunta tra reform e recovery, i due assi portanti del New Deal, perché questo ci introduce alle lettere di Keynes e al giudizio storico sul “nuovo corso”. Come sottolinea Amari, nelle due lettere indirizzate da Keynes a FDR - la prima, pubblica, del 1933 e la seconda, privata, del 1938 - traspare il timore di Keynes che si potessero creare delle contraddizioni tra riforme e politiche di rilancio e che quest’ultime, da un lato, non fossero sufficientemente robuste e, dall’altro, potessero frenare gli investimenti privati. Stressando le rispettive posizioni, potremmo dire che delle due gambe del nuovo corso, a Roosevelt stesse più a cuore quella della riforma, a Keynes quella del rilancio economico.

Questo ci conduce al giudizio sull’efficacia del New Deal nell’uscita degli Stati Uniti dalla crisi. Ne parla James Galbraith nella prefazione, quando dice: “il giudizio economico acquisito ufficialmente è quello di Paul Krugman: il New Deal fallì nel vincere la depressione. Secondo tale pensiero solo la guerra garantì la domanda necessaria, e in seguito la più chiara politica macroeconomica di Keynes sostituì l’eclettico approccio di FDR al sistema di mercato.” Ma lo stesso Galbraith non è d’accordo con questa giudizio, quando subito dopo lapidariamente afferma: “Guardare al futuro smentisce clamorosamente tale tesi.” In effetti, pur concordando con Galbraith, dobbiamo ammettere che il dibattito è aperto. Alcuni sostengono che ben più efficaci del New Deal furono le politiche hitleriane in Germania. Forse sì, furono più efficaci, ma con le SS e la Gestapo dietro la porta! E qui veniamo all’articolo che Mussolini scrisse sul “Popolo d’Italia” il 7 luglio 1933, riportato nel volume. Il nuovo corso rooseveltiano offre a Mussolini il destro per sottolineare l’importanza dell’intervento dello Stato nell’economia, una strada intrapresa anche dal fascismo, criticando però FDR per non avere affrontato in maniera organica il rapporto tra capitale e lavoro, come solo il fascismo attraverso lo Stato corporativo, secondo lui, avrebbe saputo fare. Ma è noto che FDR ricevette critiche sia da destra che da sinistra, venendo contemporaneamente accusato di essere comunista e fascista.

Il dibattito sul New Deal continua nel dopoguerra, avendo in Italia tra i protagonisti principali Federico Caffè, che si rivolge soprattutto ai partiti di sinistra affinché portino avanti la lezione rooseveltiana. Messaggio inascoltato! Nell’intervista concessa nel 1977 a Ferdinando Vianello, Caffè fa un lungo elenco di occasioni perdute dalla sinistra nell’immediato dopoguerra quando condivise responsabilità di governo prima delle elezioni del 1948. Errori che vengono ripetuti anche nel ’77, quando il PCI si avvicina al governo. In sostanza Caffè, che ha sempre ben chiaro in testa l’obiettivo della piena occupazione, rimprovera alla sinistra di aver supinamente accettato le politiche liberiste e tendenzialmente deflazioniste dei governi a guida democristiana e di aver rinunciato a battersi per una seria programmazione.

Cosa resta oggi del New Deal? Non si può non concordare con il giudizio Amari: “La crisi del ’29 e la successiva depressione furono superate, in America, con un decisivo avanzamento civile e sociale: non così dagli anni Ottanta e tanto meno oggi, in Occidente, per le politiche di ripresa, scambiate al prezzo di imposte controriforme alle riforme rooseveltiane e socialdemocratiche.” La questione non ha soltanto un impatto economico e sociale, ma investe le fondamenta stesse della democrazia liberale, che oggi soffre di un male profondo. E’ in atto il tentativo di separare la democrazia, da una parte, dai principi liberali che ne sono a fondamento e, dall’altra, dallo Stato sociale che ne è il frutto più fecondo. Così facendo, la si svuota dall’interno, rendendola sterile e senza più alcun richiamo per i cittadini. Ed è proprio in questi momenti che più si sente la mancanza di personalità dello spessore di Roosevelt e Keynes.

Domenica, 1. Luglio 2018
 

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