Contratto unico con libertà di licenziare

L'illusorio superamento del cosiddetto “dualismo” tra i lavoratori con rapporto di lavoro a tempo indeterminato e quelli che ne sono privi. Come un falso principio di equità rischia concretamente di tradursi in un ridimensionamento dei diritti per tutti. La provocazione di Tremonti sul posto fisso dovrebbe rivitalizzare nel sindacato e nella sinistra un dibattito di merito sulle questioni del lavoro


La  sortita del ministro Tremonti sul cosiddetto "posto fisso", con il dibattito che ne è scaturito, ha consentito la riproposizione di un tema molto caro a economisti e politici; mi riferisco al "contratto unico". Sotto questo profilo, può risultare utile tornare a un'analisi ravvicinata della proposta sostenuta, con rara insistenza, da Tito Boeri e Pietro Ichino. Essa prevede - quale caratteristica principale - l’istituzione di un contratto di lavoro “a tempo indeterminato”, distinto in tre fasi:
1) un “periodo di prova”, della durata (per tutti) di sei mesi;
2) un “periodo di inserimento”, dal settimo al trentaseiesimo mese;
3) la “stabilità”, alla scadenza del triennio.

Nel corso del periodo di prova, il rapporto di lavoro potrebbe essere rescisso - così come avviene oggi - da parte di ciascuno dei due contraenti, senza alcuna conseguenza. Nei successivi trenta mesi, fatto salvo il caso di licenziamento “discriminatorio”, il lavoratore potrebbe essere licenziato - senza la possibilità di far valere l’assenza della “giusta causa” - in qualsiasi momento. Il datore di lavoro sarebbe solo obbligato a corrispondere al lavoratore un indennizzo economico. L’entità dello stesso varierebbe in ragione della durata del rapporto interrotto. Alla scadenza del triennio, inizierebbe, in effetti, la fase di cosiddetta “stabilità”; con il ripristino delle garanzie di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e all’art. 8 della legge 604/66, come modificato dall’art. 2 della legge 108/90.

La nuova tipologia contrattuale rappresenterebbe solo una delle direttrici attraverso le quali - pur in presenza di dettagli tecnici diversi - i suoi sostenitori si propongono di conseguire un ambizioso obiettivo: il superamento del “dualismo” tra i lavoratori con rapporto di lavoro a tempo indeterminato e quelli che ne sono privi. In questo senso, altri elementi, proposti nel corso degli ultimi anni, sono rappresentati dall’ipotesi di stabilire alcuni “diritti minimi” da riconoscere a favore di tutti i rapporti di lavoro, e di ridurre il numero delle tipologie contrattuali disponibili (previste dal decreto legislativo 276/03), lasciando alle parti la possibilità di elaborare qualsivoglia figura contrattuale. Insieme con questi, l’individuazione di un salario minimo - da riconoscere a tutti i lavoratori - contributi previdenziali uniformi per tutto il mercato del lavoro e durata massima del contratto a tempo determinato pari a due anni. In linea generale, non si può non osservare che il l’individuazione di “diritti minimi” per tutti, considerato dai fautori della proposta un principio di equità, rischia concretamente di tradursi in un ridimensionamento per tutti. Un concetto rovesciato di eguaglianza.

Tornando al contratto unico, l’allungamento del periodo di prova si presenta come l’inutile esasperazione di un falso problema. Infatti, se la proposta è dettata dall’esigenza di offrire al datore di lavoro più tempo per verificare l’affidabilità e le capacità professionali del lavoratore, già oggi l’ampia disponibilità di tipologie contrattuali, non ultimo il contratto a tempo determinato - con il sostanziale superamento delle causali “oggettive” - consente sufficiente discrezionalità e tempi di verifica. D’altra parte, sarebbe assolutamente illogico equiparare il periodo di prova di un usciere, o di un commesso, a quello di un dirigente.

Il punto dirimente è, evidentemente, quello relativo al cosiddetto “inserimento”. Nel corso di questa seconda fase, lunga ben trenta mesi, è prevista una sostanziale moratoria del diritto del lavoratore di fare opposizione al licenziamento per mancanza della “giusta causa” o “giustificato motivo soggettivo”; salva la possibilità (pressoché irrealizzabile) di dimostrare la fondatezza di un licenziamento “discriminatorio”!

Quanto alla previsione di un indennizzo economico a favore del lavoratore licenziato, bisogna osservare che, se è vero che (oggi) un lavoratore assunto a tempo determinato non ha titolo ad alcun indennizzo una volta giunto alla fine dello stesso, è altrettanto vero che, in caso di rescissione anticipata unilaterale del rapporto - senza giusta causa o giustificato motivo - il datore di lavoro è obbligato a corrispondere al lavoratore tutto quanto previsto fino alla scadenza naturale del contratto.

Tra l’altro, considerata l’attuale facilità di utilizzo del contratto a tempo determinato, quale datore di lavoro sano di mente rischierebbe l’obbligo di dover corrispondere un indennizzo economico - per aver interrotto il periodo di inserimento - piuttosto che ricorrere, anche in modo reiterato, a rapporti a termine?

Ancora, su quali garanzie potrebbero contare i lavoratori circa l’interesse del datore di lavoro a confermare il rapporto, una volta trascorsi i trentasei mesi? Su questo punto, è opportuno rifarsi all’esperienza quotidiana e ai dati ufficiali diffusi dai sindacati di categoria del commercio e dei servizi. Nella stragrande maggioranza dei casi, il contratto a termine non è utilizzato per le alte professionalità - per le quali potrebbe anche avere un senso - ma si ricorre a esso per le mansioni operaie e d’ordine. Da questo punto di vista, il contratto unico servirebbe su un piatto d’argento alle imprese, ad esempio commerciali, l’opportunità di cambiare periodicamente commessi, fattorini, addetti ai servizi vari ecc, dopo averli in quei tre anni tenuti in stato di soggezione nell’illusione di una conferma che non verrà.

Appare del tutto evidente che allo scopo (dichiarato) di superare il cosiddetto dualismo tra “insider” e “outsider”, si teorizzi una sostanziale riduzione delle garanzie a danno dei lavoratori che ne beneficiano, piuttosto che esercitare il massimo sforzo possibile per aumentare il livello di tutela di coloro che ne subiscono l’assenza. In più, perché parlare di “contratto unico” in termini di rapporto di lavoro a tempo indeterminato? Non sfugge a nessuno che, in pratica, nella migliore delle ipotesi, si tratta di un contratto di lavoro a tempo determinato (al massimo 36 mesi) con eventuale indennizzo economico e con libertà di licenziamento senza giusta causa. Come dire che il termine “indeterminato”, nel contratto unico, ha un valore puramente virtuale! In altri termini, l’eventuale ricorso al contratto unico, piuttosto che rappresentare - come sostenuto da Riccardo Del Punta - un viatico per “profanare” il sancta sanctorum del rapporto a tempo indeterminato, finirebbe, inevitabilmente, per intonarne il de profundis.

Ben altre prospettive si aprirebbero, invece, se la provocazione di Tremonti fosse in grado di determinare un’approfondita riflessione sugli effetti (spesso devastanti) prodotti da una “flessibilità” che, nel nostro paese, è diventata sinonimo di precarietà.  In questo senso, rivitalizzare un confronto di merito sulla necessità di porre limiti oggettivi ai rapporti a termine e ai rapporti di collaborazione, drasticamente riducendo l’attuale miriade di tipologie contrattuali, rappresenterebbe un proficuo esercizio a livello sindacale come nell’insieme della sinistra.

Lunedì, 2. Novembre 2009
 

SOCIAL

 

CONTATTI