Concertazione e sindacato ai tempi dell'euro

La concertazione ha una storia complessa non solo europea – dai paesi scandinavi alla Germania – ma anche americana. Tra i suoi presupposti vi è la convergenza fra politiche economiche e politiche sindacali, ma la perdita di sovranità degli Stati nazionali ne complica l’applicazione in un solo paese. A quali condizioni si può tornare a discuterne in Italia.
Tre presupposti per la concertazione 
Il rilancio dell’idea di concertazione ha nella situazione italiana un evidente valore politico. L’idea riflette la presa di coscienza della crisi in cui versa il paese e il tramonto di molte speranze che il mondo imprenditoriale aveva riposto nel governo di centro-destra.
Ma quali sono le condizioni di una possibile concertazione nell’attuale quadro dell’economia europea e, più in generale, nell’era dell’interdipendenza globale? Sebbene i modelli di concertazione siano molto diversi da un paese all’altro, alcuni presupposti sono comuni. Il primo è una certa concezione della politica che potremmo definire “mite”. Vale a dire, la politica come terreno di mediazione fra esigenze, interessi, aspirazioni contrastanti.
Il secondo presupposto è che le parti sociali chiamate alla concertazione e, pertanto, a partecipare attivamente al processo decisionale siano dotati di un’ampia e riconosciuta rappresentatività e affidabilità. Sotto questo aspetto, la posizione più delicata è quella dei sindacati a cui non appartiene né la forza istituzionale che qualifica i governi democratici, né il potere economico diffuso che in un’economia di mercato appartiene naturalmente al sistema delle imprese.
Il terzo presupposto è d’ordine sostanziale, e coinvolge una certa visione del rapporto fra economia e società. Le politiche del lavoro e sociali debbono essere concepite e praticate come elementi intrinseci di una generale politica di crescita economica e di giustizia sociale. Sotto questo profilo, (…) i governi debbono mettere a disposizione gli strumenti di manovra economica di cui dispongono per sostenere il quadro di riferimento e gli obiettivi della concertazione.
Questi presupposti nella realtà si dispiegano in un misura diversa. Non esiste un modello idealtipico. Molto dipende dalle tradizioni e dalle circostanze che accompagnano le esperienze di concertazione.
I modelli scandinavo e tedesco
Il primo riferimento d’obbligo è ai paesi scandinavi. La concertazione si fonda in questo caso su un patto sociale esplicito che scambia la pace sociale, garantita da organizzazioni sindacali centralizzate e dotate di una rappresentanza pressoché totalitaria, con una politica diretta alla piena occupazione e a un esteso stato sociale, sul presupposto di una politica di crescita economica sostenuta e duratura.
Un meccanismo sincronico fin troppo perfetto, ma scarsamente riproducibile. Si tratta, infatti, di esperienze legate a un classico schema politico socialdemocratico, che prevede una chiara e riconosciuta divisone del lavoro fra partito e sindacato, nel quadro di una fondamentale vocazione alla cooperazione sociale. Un modello che, tuttavia, non sfuggendo al logoramento dell’epoca post-fordista della globalizzazione - spinte inflazionistiche, squilibri della finanza pubblica, disoccupazione industriale – ha  sottoposto a tensioni esplosive anche lo schema socialdemocratico e neocorporativo. Ma i risultati di quest’esperienza non sono andati dispersi, se si considera che Svezia e Danimarca – due paesi dell’Unione europea, ma fuori dell’euro – hanno uno dei più alti tassi di occupazione maschile e femminile e, al tempo stesso, il più alto grado di sicurezza sociale al mondo. 
Molto diverso è il caso della Germania. Qui esiste (o è esistita) nel dopo-guerra una concezione politica aperta alla collaborazione sociale. A livello delle grandi imprese, essa ha trovato una formalizzazione nella mitbestimmung, la codeterminazione fra management e rappresentanza dei lavoratori. Ma, non ostante l’esistenza dei presupposti che abbiamo prima menzionato, lo schema della concertazione trilaterale ha incontrato un ostacolo insuperabile nel principio quasi costituzionale dell’autonomia della contrattazione rispetto ai poteri pubblici. E, tuttavia, pur in assenza di una forma istituzionalizzata di tipo triangolare, le diverse parti si muovono lungo linee convergenti.
Il punto probabilmente più pregnante era rappresentato dal rapporto implicito fra sindacato e Bundesbank, la potente banca centrale. Da un lato, i sindacati promuovevano, sia pure nell’ambito di un’autonomia sacralizzata, una politica salariale rispettosa del principio di stabilità della moneta - un assioma non solo per i banchieri centrali ma per tutta la società tedesca. Dall’altro, la Bundesbank “riconosceva” il diritto dei sindacati all’aumento dei salari reali come normale ripartizione della crescita della ricchezza nazionale. Non ci furono e non ci sono parametri formali, ma limiti impliciti e riconosciuti reciprocamente, al punto che non è mai stato difficile avanzare una previsione sufficientemente affidabile sul punto di caduta della mediazione negoziale dei contratti pilota - generalmente quello metalmeccanico - al seguito di vertenze basate più sulla minaccia del conflitto che non sulla sua manifestazione.
Questo “rapporto di fiducia” che presiedeva allo scambio fra sindacato, associazioni imprenditoriali e Banca centrale non esauriva il quadro di riferimento di un patto sociale implicito che, travalicando i confini del salario, investiva i temi della sicurezza sociale: campo riservato alla responsabilità del governo. Insomma, ciascuna istituzione faceva la sua parte in un quadro di una sostanziale e consapevole convergenza degli obiettivi. E’ interessante osservare che, a differenza dell’esperienza scandinava, il modello tedesco non può essere attribuito a una politica specifica della socialdemocrazia. Che è divenuta protagonista nella scena politica tedesca solo dopo un lungo periodo di egemonia democristiana, peraltro confermata dal lunghissimo regno di Helmut Kohl fra gli anni 80 e 90.
La politica dei redditi in America
Sarebbe un errore ridurre la politica di concertazione, nelle sue varie forme più o meno istituzionalizzate, a una vocazione specificamente europea, o come si direbbe oggi della “Vecchia Europa”, tendenzialmente incline a eludere la durezza dei conflitti sociali e alla ricerca della mediazione come riflesso di una specifica antropologia politica. In condizioni del tutto diverse, sono stati gli Stati Uniti a fornire, una teorizzazione della politica dei redditi – architrave della concertazione - come parte integrante e determinante della politica economica quando questa è diretta a creare occupazione e sicurezza sociale in un quadro di cooperazione con e tra le parti sociali.
La novità fu introdotta da John Kennedy, e si trattò in America di una sorta di rivoluzione che rovesciava il dogma della non interferenza federale nelle relazioni industriali, storicamente governate dai rapporti di forza tra imprese e sindacati. Il presidente, alle prese con un alto livello di disoccupazione ereditato dalle passate amministrazioni, istituì un comitato di consiglieri per la politica economica formato da un terzetto che comprendeva Walter Heller (che ne era a capo), James Tobin e Gardner Ackley. La missione era l’elaborazione di una politica macroeconomica in grado di attaccare la disoccupazione. Il Comitato dei consiglieri si orientò verso una politica monetaria e fiscale apertamente espansiva, diretta a dare una forte accelerazione alla crescita, sollecitando insieme investimenti e consumi, come condizione per il rilancio dell’occupazione. Una politica di stampo keynesiano che implicava, tuttavia, un alto rischio politico: vale a dire, l’innesco di una spirale prezzi-salari con la conseguente stretta monetaria della Federal Riserve e il fallimento dell’obiettivo che si era posto la presidenza.
La soluzione fu trovata nel coinvolgimento esplicito di imprese e sindacati – a quel tempo molto forti – in quella che pudicamente fu definita una “direttiva su prezzi e salari”. Direttiva che raccomandava “un aumento salariale medio non superiore alla media nazionale dell’aumento della produttività”. Per chiamarla apertamente politica dei redditi, bisognò aspettare qualche tempo. Intanto, il successo fu inequivocabile. Ma, chiaramente,  si trattava, per il paese campione della libertà di mercato, di un importante cambiamento e, per molti versi, ideologico. La svolta diede il via a “una storia di successi”, secondo il commento che Guido Carli dedicò al libro di Walter Heller,“Nuove dimensioni dell’economia politica”.
Negli anni successivi la crescita americana manifestò un ritmo elevato e stabile, la disoccupazione scese al di sotto del 4 per cento, i salari registrarono un’elevata crescita reale, ma senza spinte inflazionistiche. Quello che era stato, nella breve stagione kennediana, un esperimento considerato ad alto rischio politico fu consolidato sotto la presidenza di Lyndon Johnson. La politica che era stata timidamente definita “dei prezzi e dei salari” assurse al rango formale di politica dei redditi, esplicitamente assistita dalla politica fiscale (Tax based income policy). E fu in quel periodo che negli Stati Uniti fu realizzata la più vasta politica di riforme sociali, dopo il New Deal, che andò sotto l’etichetta di “Grande società”.
La lezione era sorprendente, provenendo dal paese dell’economia di mercato per antonomasia, e al di fuori dei tradizionali schemi socialdemocratici tipici dell’esperienza europea. In altri termini, la politica dei redditi era diventata l’asse di un programma economico generale che fu battezzato come “Nuova economia”, per sottolineare sia la svolta politica kennediana, sia l’affermarsi di una nuova concezione della politica economica. Essa forniva un sigillo teorico alla politica dei redditi, il cui elemento distintivo era l’inserimento delle politiche salariali, sotto l’egida dei sindacati, in un quadro dinamico di politica economica. Una lezione di successo, ma che da sola non poteva bastare a fronteggiare l’intreccio delle crisi degli anni 70. Poi, con l’avvento di Reagan, la politica dei redditi fu definitivamente ripudiata in nome della controrivoluzione neoliberista – il nuovo pensiero convenzionale con il quale ancora oggi si debbono fare i conti.
Una storia incompiuta:  il patto sociale in Italia
Non è questa la sede per un’analisi delle premesse e degli esiti del Patto sociale stipulato in Italia nel 1993. Si può, tuttavia, affermare che esso rappresentò, dopo i numerosi  tentativi incompiuti o abortiti, un esperimento che raccoglieva e, per molti versi, sintetizzava la variopinta esperienza dei  paesi che su questa strada l’avevano preceduto. L’intestazione stessa dell’Accordo indica esplicitamente come obiettivo centrale la “politica dei redditi e l’occupazione” insieme con “gli assetti contrattuali, la politica del lavoro e il sostegno al sistema produttivo”. Si tratta probabilmente del più sofisticato tentativo di generalizzazione e istituzionalizzazione della politica  di concertazione.
Ma si collocava in un quadro di grandi difficoltà economiche per il paese. Gli spazi di manovra del governo in termini di politiche macroeconomiche erano pressoché inesistenti. Si trattava di tamponare la crisi inflazionistica, che faceva seguito alla svalutazione della lira, e bloccare il dissesto dei conti pubblici. In pratica, la politica dei redditi significava l’adozione di una lunga fase di moderazione salariale in vista del doppio obiettivo del risanamento e dell’entrata nell’euro: missione, questa, che appariva molto ambiziosa, se non velleitaria, considerate le distanze dai severi criteri di riequilibrio finanziario di  Maastricht.
Alla luce di queste circostanze, il Patto poteva essere letto come una politica dei “due tempi”: quello del risanamento reso indispensabile dalle circostanze in cui si trovava il paese, al quale avrebbe fatto seguito, una volta raggiunto il traguardo dell’euro, una fase di crescita sostenuta, di pieno rilancio dell’occupazione, di riequilibrio dei salari. In effetti, questo secondo tempo era più o meno iniziato, quando fu troncato dall’avvento del governo Berlusconi e dal sostanziale ripudio della concertazione e degli impegni che comportava. Ciò che si può dire, al di là delle luci e delle ombre che caratterizzarono quell’Accordo, è che certamente senza di esso e senza il convinto sostegno dei sindacati, difficilmente l’Italia sarebbe entrata, alla prima scadenza, nell’euro. E, considerata la permanente precarietà della sua finanza pubblica, con una lira disancorata dall’euro e con tassi d’interesse regolati dai mercati finanziari, la situazione sarebbe finita molto probabilmente fuori controllo.
L’avvento dell’euro
Quale che sia il giudizio sulle diverse esperienze di concertazione della seconda parte del secolo scorso (…) il cambiamento più radicale sta nella perdita di elementi essenziali della sovranità economica dei governi entrati a far parte di un’area monetaria unificata, com’è l’euro.
La politica monetaria è passata sotto la sovranità della Banca centrale europea. A livello nazionale non vi è più la possibilità di agire sul cambio. La politica di bilancio è vincolata ai parametri del Patto di stabilità. Quanto alle politiche industriali, le regole della concorrenza comunitarie che vietano gli aiuti di Stato impediscono gli interventi che, con esiti alterni, hanno consentito in passato di accompagnare i processi di ristrutturazione. In sostanza, vengono meno a livello nazionale, alcune delle condizioni essenziali delle mediazioni e dello scambio nei quali si articolano la politica dei redditi e, più in generale, gli accordi di concertazione.
La politica di concertazione, resa zoppa a livello nazionale, avrebbe potuto trovare nuova linfa nel contesto europeo o, più precisamente, dell’eurozona. L’idea di una concertazione in grado di rinascere a nuova vita, nello spazio economico e sociale dell’eurozona non era una novità sorprendente. Era stato Jacques Delors – protagonista del disegno che avrebbe portato con Maastricht alla moneta unica - a indicare, col Libro bianco su “Crescita competitività e occupazione”, una strategia coordinata di sviluppo, oltre ad aver gettato le basi del dialogo sociale europeo. In sostanza, con la realizzazione della moneta unica, l’Europa avrebbe potuto fare quello che è impossibile da parte di un singolo stato di medie dimensioni: fronteggiare la sfida della globalizzazione – un lusso che attualmente, in modo diverso, possono consentirsi solo gli Stati Uniti e la Cina.
Verso un patto sociale europeo?
Una volta sciolto il nodo dell’euro, prioritaria diventava la questione della disoccupazione che alla fine del decennio era ancora intorno al dieci per cento. Su iniziativa del ministro del lavoro francese, Martine Aubry, in accordo con quello italiano e tedesco fu elaborato un memorandum che divenne la base della strategia adottata dal Consiglio europeo di Lisbona all’inizio del 2000.  Il progetto prevedeva che tutte le politiche sia di competenza comunitaria che degli Stati membri dovessero convergere verso l’obiettivo di una crescita media annua dell’Unione del tre per cento in una prospettiva di pieno impiego entro il 2010. Nel corso dell’elaborazione apparve chiaro che il progetto sollevava riserve e ostilità nei governi, a cominciare da quello britannico – che pure era fuori dell’euro - come nella Banca centrale e in una parte degli uffici della Commissione europea che vi leggeva un intento “volontarista”, e un rischio di instabilità dal punto di vista dell’inflazione e della finanza pubblica.
Non mancarono i tentativi di mediazione tra una strategia di crescita sostenuta e la preoccupazione di salvaguardare la stabilità monetaria. Nel Consiglio europeo di Colonia dell’estate 1999 era stato formalizzato il “Dialogo macroeconomico” attraverso un tavolo di confronto fra le parti sociali europee, la BCE, Ecofin e la Commissione europea. Questa poteva essere la premessa istituzionale e politica di un esperimento di accordo a livello europeo per indicare in termini convergenti i criteri ispiratori di una politica salariale compatibile con una crescita non inflazionistica. Non se ne fece nulla. Il “dialogo” divenne uno “scambio di opinioni” privo di significato, una scatola vuota. Il progetto di Lisbona, che poteva essere il terreno di un grande accordo economico e sociale, fu sterilizzato da un’interpretazione che continuava a porre la questione dell’occupazione come un problema del mercato del lavoro dei singoli Stati membri. A quattro anni di distanza, l’Europa fa segnare non una crescita sostenuta e duratura, ma una stagnazione quasi permanente e un aggravamento della disoccupazione.
E’ necessario, tuttavia, essere chiari su un punto. Il rifiuto di sperimentare le politiche di cooperazione tipiche del modello sociale europeo non riflette una posizione puramente contingente o un errore di percorso. Quel rifiuto ha radici profonde in una concezione della politica economica e sociale che fa discendere in termini sostanzialmente esclusivi le condizioni dello sviluppo dell’occupazione dalle “riforme di struttura” del mercato del lavoro e del sistema di tutele – diritto del lavoro, contrattazione sindacale, legislazione sociale – che caratterizza le relazioni industriali dell’Europa continentale.
In un famoso rapporto dell’Ocse del 1994 (Jobs Study), diventato la bibbia delle riforme neoliberiste del mercato del lavoro, era stato tutto spiegato con dovizie di argomenti. La disoccupazione, nell’analisi dell’Ocse, è l’inevitabile conseguenza della rigidità del mercato del lavoro. Se l’offerta di lavoro si presenta sufficientemente flessibile, mobile, adattabile, vi sarà sempre un livello di salario di piena occupazione. “In linea di principio – scrivevano con mirabile chiarezza gli economisti dell’Ocse – vi sarà un livello di salario reale, o più correttamente un livello di costo del lavoro reale che assicura che tutti coloro che vogliono un lavoro a quel livello di salario troveranno un’occupazione”.
Questa teoria dell’offerta, dai nobili natali e vecchia di quasi due secoli, considera l’interferenza delle politiche macroeconomiche dirette a creare migliori condizioni per l’occupazione del tutto illusoria: “una chimera”. Anzi, un profondo errore, per il fatto che le politiche dirette ad accrescere la domanda sono dei palliativi che allontanano il momento della verità delle riforme strutturali: “Nell’area del mercato del lavoro sono proprio i tempi di un’elevata disoccupazione che rendono possibile la spinta ai cambiamenti”. Come si vede, la disoccupazione di massa non è solo un problema, ma un’occasione per adottare le misure (impopolari) che in circostanze ordinarie sono bloccate dalle resistenze che s’incontrano sul piano sindacale e politico.
Naturalmente, queste tesi non sempre sono presentate con la stessa brutale franchezza che troviamo nello studio dell’Ocse, prodotto su ordinazione dei governi aderenti. Esiste un linguaggio meno diretto, “politicamente corretto”, che è in generale quello adoperato nei bollettini della Banca centrale europea e dalle tecnocrazie che a Bruxelles elaborano i documenti di Ecofin (il Consiglio dei ministri finanziari). Ma la sostanza non cambia. E l’idea di una politica di concertazione e di mediazione fra i diversi strumenti della politica economica e i comportamenti dei partner sociali stride con la compattezza (ideo)logica delle posizioni neoconservatrici che attraversano le istituzioni finanziarie europee.
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Le asimmetrie della concertazione 
La contrattazione è un momento essenziale della concertazione a condizione che ne sia mantenuta l’autonomia. In caso contrario, quando la concertazione requisisce l’autonomia collettiva, creando vincoli rigidi alla contrattazione, assume un carattere inevitabilmente asimmetrico. Nella concertazione, i poteri pubblici e le rappresentanze imprenditoriali assumono vincoli che, in generale, hanno un carattere procedurale. Per esempio, l’impegno al confronto congiunto sugli indirizzi di politica economica, sulle scelte relative alle politiche del lavoro, sugli assetti (tempi, livelli, modalità) della contrattazione. Gli impegni di parte governativa e imprenditoriale indicano accordi di principio, metodologie, procedure, intenzioni programmatiche, ma non vincolano l’esito del confronto o del negoziato.
L’asimmetria diventa palese quando il sindacato è impegnato non solo a rispettare criteri generali, ma quando nel suo campo specifico che è la contrattazione, se ne predetermina l’esito stabilendo, per esempio, che il contratto nazionale sancirà aumenti salariali corrispondenti all’inflazione programmata. In questo caso l’autorità contrattuale del sindacato si dissolve nella registrazione di un dato esteriore. Lo scambio  fra gli attori del patto diventa asimmetrico: da un lato, stabilisce una procedura consistente nell’impegno ad aprire un confronto o un negoziato; dall’altro, un vincolo preventivo rispetto all’esito del negoziato. L’asimmetria è altrettanto palese rispetto agli impegni relativi alla creazione di occupazione, in cambio dei quali il sindacato assume impegni di moderazione salariale, di maggiori flessibilità o di deroghe normative. Il primo impegno rimane di carattere generale e difficilmente esigibile. Quelli di carattere sindacale sono sottoposti a un controllo stringente non solo delle controparti, ma della stessa opinione pubblica e della stampa, generalmente non indulgente – per adoperare un eufemismo - con le organizzazioni sindacali.
Questa è una delle ragioni della difficoltà di istituzionalizzare la concertazione in termini di impegni simmetricamente vincolanti. La soluzione non può che risiedere nel riconoscimento del carattere della concertazione come quadro di riferimento che impegna gli attori che vi concorrono al rispetto di principi reciprocamente riconosciuti, procedure e criteri. Ma senza pregiudicarne l’autonomia, da cui pure dipende la democraticità delle scelte e la rappresentatività del sindacato che deve misurarsi col consenso degli iscritti. E, al tempo stesso, con una parte crescente di lavoratori senza “voce”, in nome dei quali partecipa al processo decisionale inglobato nella concertazione.
La concertazione in un solo paese?
Nella concertazione il sindacato mette in gioco la propria credibilità e legittimità molto di più di quanto non accada per gli altri attori. I governi traggono la loro legittimità democratica dal processo elettorale alle scadenze previste e dal sostegno di una maggioranza parlamentare. Il sistema imprenditoriale dispone, in ogni caso, del  potere che gli deriva dall’autonomia manageriale delle aziende, mentre ai suoi  organi di rappresentanza può rimanere un ruolo generale di carattere politico o lobbistico. Il sindacato, al contrario, non dispone di altre risorse che una rappresentatività continuamente messa alla prova dalla sua capacità di rispondere alle attese dell’organizzazione composta dagli iscritti e dal movimento a cui si sforza di dare voce e dal quale implicitamente riceve, quando le circostanze sono favorevoli, una fiducia sottoposta a revoca. Se la rappresentanza effettiva, al di là delle intenzioni e dei proclami, manca o è limitata solo ad alcuni settori “privilegiati” del mondo del lavoro, la concertazione stessa diventa un bersaglio politico da parte di tutti coloro che si sentono esclusi o penalizzati da scelte attribuite alle diverse burocrazie che si confrontano al di fuori di un processo  trasparente e condiviso.
Come abbiamo detto all’inizio, i modelli di concertazione, sotto varie denominazioni e strutture, sono collegati alle tradizioni dei paesi che li adottano. Ma alcuni principi comuni ne condizionano il funzionamento e il successo. Innanzitutto, una concezione della politica che considera la mediazione e il consenso come strumenti di efficienza nel governo della cosa pubblica, non come ostacoli alla governabilità. In secondo luogo, la concertazione può  vivere solo in una prospettiva di politica di sviluppo, di crescita dell’occupazione, di miglioramento delle condizioni di lavoro, di promozione dell’ equità sociale. Senza queste premesse di concezione della politica e di convergenza di principio su alcuni aspetti essenziali del modello sociale, la concertazione rischia di diventare un’effimera etichetta di lusso (magari politicamente spendibile) per una scatola vuota. Date queste premesse, la sua attuazione assumerà strade e contorni diversi, a seconda delle specifiche circostanze, ma certamente non può iscriversi nell’ideologia liberista che, sia pure contaminata da una congenita vocazione populista, ha segnato gli anni del berlusconismo, e che ha visto il ministero del Welfare convertirsi in un’agenzia della Confindustria, andando perfino al di là dei suoi interessi meno miopi.
Abbiamo anche visto, analizzando le esperienze del passato, che lo scambio e la mediazione fra le parti in gioco esigono da parte de governo la disponibilità a mettere in opera un insieme di politiche finalizzato alla crescita e alla piena occupazione. Una parte importante di questi strumenti di governo sono migrati dagli Stati nazionali verso le istituzioni europee. L’Unione europea, e più realisticamente, la zona euro, dovrebbe essere il nuovo spazio della concertazione. Si può obiettare che non esistono parti sufficientemente rappresentative e legittimate a livello sopranazionale. Ma, in linea di principio, non vi sono ostacoli insormontabili.
I sindacati hanno acquisito una rappresentatività già riconosciuta a livello comunitario, quando si tratta di negoziare le direttive europee di carattere sociale. Nella Ces, la Confederazione europea dei sindacati, esiste una procedura di voto a maggioranza che riflette, sia pure con molti limiti, una dimensione decisionale sopranazionale. Dall’altro lato, esistono organi comunitari dotati di piena sovranità, come la Banca centrale. Vi è la Commissione europea dotata di funzioni di coordinamento e impulso delle politiche economiche e sociali. Vi è il Consiglio dei ministri finanziari che esercita un ruolo primario nell’orientamento delle politiche degli Stati membri. Se questi soggetti, conformandosi agli obiettivi proclamati nel Vertice del Consiglio europeo di Lisbona, decidessero di “concertare” le linee di una politica di crescita in grado di coniugare innovazione, occupazione, competitività, non ci sarebbe nessun impedimento di carattere istituzionale.
Ovviamente, bisognerebbe coinvolgere la parte imprenditoriale che è quella più restia a darsi un’effettiva rappresentatività a livello sopranazionale. Ma è altrettanto evidente che non potrebbe sottrarsi (come non si sottrae quando si tratta di legislazione sociale comunitaria) a un rapporto triangolare politicamente impegnativo. Ci si può ancora chiedere quale livello di vincolatività potrebbe essere attribuito a una concertazione di carattere comunitario, scontando i diversi gradi di autonomia che le parti in causa conservano a livello nazionale. Ma qui è evidente che la concertazione non avrebbe caratteri imperativi, ma assolverebbe a una funzione, certamente di grande rilievo nella definizione degli obiettivi e dei criteri direttivi in un quadro coerente finalizzato agli obiettivi comunemente concordati. Si tratterebbe di una concertazione “soft”, ma certamente di un significativo passo avanti nella definizione di un quadro di politica economica comune orientato allo sviluppo e finalmente immune dalla patologica inclinazione deflazionistica che caratterizza l’Unione.
Ma questo appare oggi come un disegno sfortunatamente destinato a rimanere per ora sulla carta. Per concretizzarlo, bisognerebbe far avanzare il progetto iscritto nella nuova Costituzione delle “cooperazioni rafforzate” fra un certo numero di Stati, che come dovrebbe essere il caso dei paesi aderenti all’euro, allo scopo di andare oltre la moneta unica in direzione di una comune politica economica e sociale. Questo potrebbe essere parte di un progetto di governo del centro-sinistra. Ma non è realisticamente proponibile dal governo Berlusconi artefice della rottura del triangolo tra Francia, Germania e Italia che negli anni 90 aveva favorito l nascita dell’euro e il progetto di Lisbona.
In attesa che nuove condizioni maturino a livello europeo, non rimane che sperimentare l’obiettivo di una rinnovata concertazione a livello nazionale. Ma deve essere chiaro che non può trattarsi della pura ripetizione di vecchi schemi più o meno riusciti. Le condizioni sono profondamente mutate. Gli strumenti a disposizione sono ridotti. E quelli che rimangono - come la politica fiscale, la contrattazione, la regolazione del mercato del lavoro e le politiche di tutela sociale – debbono inquadrarsi in un disegno organico e trasparente di crescita e di innovazione.
Se in Italia si possa realizzare o meno un’accettabile politica di concertazione nell’attuale condizione di dissesto della vita politica è difficile dire in astratto. E, tuttavia, discuterne i termini, le condizioni nuove in cui dovrebbe essere praticata, e gli obiettivi  non è cosa diversa da una ricerca unitaria che il sindacato dovrebbe fare anche in assenza della disponibilità indicata dal neo-presidente della Confindustria. Il discorso s’inquadra, per altri versi, nel dibattito, tanto auspicato quanto ancora vago, sulla elaborazione di un credibile programma di governo del centro-sinistra. E questo potrebbe tornare a merito di quanti rilanciano oggi, in condizioni certamente difficili, il tema della concertazione. Ammesso che non si tratti di pure dichiarazioni d’intenzioni, destinate rapidamente a sciogliersi nella effimera retorica di una dialettica politica priva di sostanza.
 Questo articolo è tratto da un più ampio saggio pubblicato da “Lavoro e Diritto” - Il Mulino - numero 1, inverno 2005 - pp. 145-172
Mercoledì, 23. Marzo 2005
 

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