Come salvarsi da stagnazione e virus

Il coronavirus piomba su un’economia che aveva già dato segnali preoccupanti. L’unico modo di farla ripartire sarebbero gli investimenti pubblici. Ma bisognerebbe smetterla di favoleggiare su progetti finanziati solo sulla carta, e invece riesaminare il funzionamento delle norme e di quegli organismi creati per superare le difficoltà che bloccano quelli davvero realizzabili

Gli ultimi dati sull’economia italiana suonano come un bollettino di guerra. A dicembre gli occupati sono diminuiti dello 0,3% rispetto a novembre e la produzione industriale ha subito un calo del 2,7% sul mese e del 4,3% in termini annui. Nel quarto trimestre 2019 il Pil è diminuito dello 0,3% rispetto al trimestre precedente, rimanendo invariato in termini tendenziali. Nell’intero 2019 il Pil è aumentato appena dello 0,2%, mentre la produzione industriale ha subito un calo dell’1,3% (è la prima contrazione dal 2014).  

Sebbene il ministro Gualtieri parli di “rimbalzo” nel primo trimestre di quest’anno, le prospettive con cui si è aperto il 2020 non sono certo rosee. Anche perché il ciclo internazionale non è ancora ripartito, e l’epidemia del coronavirus non fa che rimandarne la partenza. L’intera Europa, Germania e Francia in testa, è alle prese con una crisi industriale profonda, che forse non ha ancora toccato il fondo.

Che fare? Il governo italiano sta discutendo di una riforma fiscale piuttosto complessa, che implicherebbe lo spostamento di una parte della tassazione dall’Irpef all’Iva nonché la revisione della delicata materia delle detrazioni e delle spese fiscali. E’ un piano troppo ambizioso per pensare che una coalizione debole come l’attuale lo possa realizzare in tempi brevi. In realtà, la leva direttamente alla portata del governo per far ripartire l’economia sono gli investimenti pubblici. E’ su questa leva che si dovrebbero concentrare i principali sforzi dell’esecutivo.

Ma c’è purtroppo tanta confusione sia sull’ammontare delle risorse effettivamente a disposizione sia sui fattori che bloccano l’operatività dello strumento. Per quanto riguarda le risorse, abbiamo sentito più volte Matteo Renzi parlare di un piano choc per sbloccare 120 miliardi di investimenti pubblici in tre anni. Non solo. La ministra per le Infrastrutture Paola De Micheli nella trasmissione televisiva Cartabianca ha detto: “Abbiamo 200 miliardi per le infrastrutture nei prossimi 15 anni: spendiamoli!”

Tutti questi soldi in realtà ci sono solo sulla carta, nel senso che sono stati stanziati attraverso le leggi di bilancio in un determinato arco temporale. Poi però, quando si tratta di finanziare concretamente un’opera, occorre andarli a trovare nel bilancio di cassa di quell’anno. E qui, come sappiamo, i nodi vengono al pettine. Perché immancabilmente le risorse vere e proprie per le spese in conto capitale degli enti pubblici sono sempre poche, essendo soggette a tagli, dati i vincoli di bilancio e la incomprimibilità della spesa corrente.

Gli investimenti pubblici in Italia

Meglio sarebbe se i politici, anziché fare mirabolanti promesse che difficilmente saranno mantenute, si concentrassero sulle risorse effettivamente disponibili per le infrastrutture di anno in anno e si impegnassero a trasformarle in nuovi cantieri, monitorandone attentamente l’attuazione. Sotto questo punto di vista sarebbe opportuno procedere, come propone Assonime, al coordinamento delle banche dati sul patrimonio infrastrutturale e sullo stato di avanzamento delle opere, che giacciono presso i vari ministeri. Bisogna accelerare l’attuazione del Piano nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione, rendendo le varie banche dati interconnesse e accessibili.

Per quanto riguarda i fattori di blocco, si sa che sono numerosi e comprendono: le difficoltà di programmazione e di progettazione degli enti pubblici, l’eccesso di burocrazia, la corruzione, il sovrapporsi delle modifiche al Codice dei contratti pubblici, il grande contenzioso esistente. Si tratta di problemi molto annosi, con i quali dovremo convivere a lungo. Qualche passo in avanti però può essere fatto.

Il precedente governo ha istituito due organismi di supporto alle amministrazioni al fine di migliorare la qualità dei progetti: InvestItalia e Centrale per la progettazione di beni ed edifici pubblici. Tali organismi dovrebbero coordinarsi con Strategia Italia, la cabina di regia presso la presidenza del Consiglio nata con il compito di superare gli ostacoli relativi ai procedimenti deliberativi. Stanno funzionando a dovere queste strutture? E’ lecito saperne qualcosa di più. Anche per non continuare nell’antico vizio italico di affrontare un problema creando nuovi organismi, anziché far funzionare meglio quelli esistenti.

Occorrerebbe inoltre mettere la parola fine alle continue modifiche del Codice degli appalti, evitando gli eccessi di regolamentazione. Anche il ruolo dell’Anac, ridisegnato dal governo Renzi e messo in discussione dal primo governo Conte, andrebbe definito, separando i compiti di prevenzione della corruzione da quelli di regolazione dei contratti pubblici.

Infine, il governo deve decidere cosa vuol fare con le concessioni autostradali, a cominciare da Autostrade per l’Italia. Da un lato, è necessario esigere da parte dei concessionari l’effettivo rispetto degli obblighi di manutenzione e di investimento. Dall’altro, al fine di separare l’intreccio spesso perverso tra concessionari e burocrazia ministeriale, è opportuno trasferire all’Autorità dei Trasporti i compiti di controllo finora affidati al ministero delle Infrastrutture. Qui serve una grande dose di trasparenza: i contratti trattati come segreti di Stato, le clausole per impedire la revoca delle concessioni e permettere ai concessionari di caricare sulle tariffe il costo degli investimenti, le proroghe continue senza fare le gare sono tutti elementi che vanno disciplinati in maniera diversa e molto più chiara rispetto al passato.

Lunedì, 24. Febbraio 2020
 

SOCIAL

 

CONTATTI