Come fermare le 'morti bianche'

Nonostante i passi avanti degli ultimi anni, nel 2005 sono state ancora 1.280. Un problema complesso che va affrontato su diversi fronti e chiama in causa anche il ruolo del sindacato

La questione sicurezza sul lavoro ha preso il suo posto dal punto di vista degli onori della cronaca. Ciò come conseguenza della spettacolarità di alcuni eventi luttuosi, l’insistenza del Presidente della Repubblica nella denuncia, talune proteste come quella dei portuali di Genova che hanno portato il caso in piazza, fino al fatto che il Primo maggio di questo anno è stato dedicato al tema.

Vediamo alcuni numeri di fonte Inail. Relativamente al 2005 risultano pervenute all’Istituto 939.566 denunce di infortunio con 1.280 casi mortali. Tra il 2001 e il 2005 si è avuto un calo costante: si era  partiti da un milione e 23.379 casi, 1.549 dei quali mortali. Nel dato sono compresi i casi “in itinere” (cioè gli incidenti avvenuti mentre si raggiunge il posto di lavoro) che ebbero un boom nel 2001-2002 in conseguenza del Decreto Legislativo 38 del 2000 che ne aveva regolamentato la indennizzabilità ampliandola (396 casi nel 2002, ridotti a 280 nel 2005).

Quanto al 2006, “dalle prime proiezioni – dice l'Inail – risulta un incremento complessivo degli infortuni rispetto all’anno precedente che è stimabile nel 3% ”.  Per quelli mortali si parla di una quindicina in più.
Tutti riconoscono che il fenomeno pesa di più sui lavoratori irregolari e in nero, quindi sugli immigrati. C’è  un fenomeno consistente di piccoli infortuni che si fanno passare per malattie. In questo senso si subisce la pressione dell’azienda; in qualche caso perfino la contrattazione aziendale induce a questi comportamenti se il premio aziendale variabile è anche legato a obiettivi di riduzione degli infortuni. L’intento appare nobilissimo, ma l’esito può essere nefasto. Lo stesso Presidente Napolitano evidenzia che “ci sono anche comportamenti delle aziende e perfino delle stesse rappresentanze dei lavoratori che devono essere adeguate” (Corriere della sera del 22 marzo).
 
Ancora più sommerso è il fenomeno delle malattie professionali. Nel 2005 risultano denunciati appena 26.332 casi (28.360 nel 2001); di queste malattie appena 5.062 sono state riconosciute (8.549 nel 2001), e solo 2.563 le indennizzate (4.282 nel 2001): le altre vengono considerate lievi e quindi entro la franchigia.

E' vero che alcune patologie da lavoro possono essere in calo anche se per l’amianto, pur avendone vietato l’uso dal 1992, ci si aspettano per i prossimi anni ulteriori fenomeni dal momento che le cellule della pleura possono degenerare in tumore anche a 30 anni di distanza dalla contaminazione. Ma c’è una vasta tendenza a non denunciare ed a non individuare il nesso causale tra malattia e condizione di lavoro.
Non la denunciano i medici di base anche per la ragione che rischiano di più a fare una denuncia sbagliata che a ignorare la causa di lavoro della malattia. Gli stessi lavoratori sono incerti anche perché una volta riconosciuta la malattia e la sua causa rischiano di essere licenziati per inidoneità. Se ti trovi in un’azienda dove ci sia un sindacato forte e capace di difenderti potrai ottenere di essere spostato ad un altro lavoro  compatibile con la tua condizione; se no ti possono sbattere fuori.
 
Ma anche con Inail c’è una lotta dura da fare. Il primo atteggiamento dell’Istituto assicurativo è di negazione della malattia, in subordine la negazione che essa derivi da cause connesse al lavoro. Se fai ricorso e vai in giudizio puoi vincere e ottenere il riconoscimento del tuo diritto, ma è una lite anche costosa, non solo per gli avvocati, ma per tecnici specialisti che sostengano la tua tesi. E più sono autorevoli le firme sotto le perizie e più potrai vincere. Al tempo stesso più sono autorevoli e più costano. Talvolta questa lotta è resa ancora più difficile dal fatto che i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza possono avere messo la loro firma sotto documenti di analisi della condizione ambientale (previsti dalla legge 626) escludenti il rischio poi denunciato dal lavoratore. Questo rende più forte Inail  nel negare il nesso di causalità.

Inail proclama di volersi dedicare alla prevenzione anche destinandovi risorse. Questo è molto bello e permette anche di fare bella figura, ma se non svolge correttamente il suo compito di indennizzare i lavoratori che hanno subito un danno la cosa appare propagandistica. E' sempre sospetto chi proclama di fare il molto e non dimostra si saper fare il poco. Un impegno al quale Inail deve dedicarsi in maniera più rilevante è quello della riabilitazione, anche valorizzando ed estendendo le sue esperienze positive come la struttura di Budrio di Romagna.

Bisogna anche riconoscere che tendenzialmente nella impresa medio-grande si sono fatti progressi apprezzabili. C’è più attenzione e rispetto per le norme; le stesse nuove tecnologie di per sé migliorano la condizione ambientale. Per esempio la cucina colori di una tintoria tessile di trenta anni fa era un inferno dantesco, adesso sembra una sala operatoria.

Vediamo come l'Inail descrive la situazione odierna: “Dal compresso delle patologie classificate e rilevate dall’Inail è utile e sufficente riportare i risultati di un numero circoscritto di esse, che da sole rappresentano oltre il 60% dei casi. Sia le malattie tabellate che non tabellate, sia per l’Industria e Servizi, sia per l’Agricoltura e i Dipendenti Conto Stato, la tecnopatia più frequente resta ancora la ipoacusia e sordità che copre nel quinquennio circa il 30% delle malattie manifestatesi. In ambito non tabellare, sempre maggior incidenza assumono anche patologie come le tendiniti, le affezioni dei dischi invertebrali e la sindrome del tunnel carpale, e continuano ad avere particolare rilievo anche le malattie dell’apparato respiratorio e quelle cutanee. Nella lista nera delle principali malattie, per l’area industriale-terziaria, si trovano ancora la silicosi e l’asbestosi, significativamente presente quest’ultima anche tra i Dipendenti del Conto Stato. In crescita, infine, con oltre 1.400 casi denunciati nel 2005 tra le patologie tabellate e non tabellate, sono i tumori e le neoplasie, un fenomeno che gli esperti del settore, per una serie di fattori di varia natura, ritengono ancora sottostimato e rappresentato solo in parte da questi numeri.” Si può aggiungere che malattie osteoarticolari conseguenti a fatica fisica, posizioni scomode e ripetitività combinata con velocità eccessiva dei movimenti sembrano caratterizzare tutt’ora taluni reparti della Fiat.


La situazione inaccettabile che ci troviamo a fronteggiare è generata da un complesso di cause e non c’è un punto risolutore.
- Il Servizio sanitario non ha messo la prevenzione al primo posto.
- Lo stesso mondo medico e scientifico non assegna il valore che meritano alle  condizioni del lavoro come cause di malattia al punto che si è perfino ridotto il valore che prima veniva assegnato alle statistiche epidemiologiche come strumento di indagine.
- Le imprese seguitano a considerare la sicurezza un costo.
- Le funzioni ispettive hanno addirittura ridotto la loro efficacia.
- La Magistratura non agisce e in taluni casi si è resa protagonista di assoluzioni clamorose.
- Dell’Inail si è detto.

Anche il sindacato ha le sue difficoltà e responsabilità. Proviamo a ragionare su queste. In primo luogo non è che scarsamente modificata una tendenza spontanea dei lavoratori a difendere il lavoro anche nocivo e pericoloso; a rivolgersi di più verso l’ottenimento dell’indennizzo piuttosto che alla rimozione delle cause del danno. L’ultima mia esperienza drammatica di dirigente sindacale è stata a Gela nel 2002 quando un provvedimento del Magistrato imponeva la chiusura di una parte del ciclo del petrolchimico. Naturalmente era fondata la nostra tesi che fosse possibile risolvere con innovazioni capaci di garantire sicurezza sia ai lavoratori che alle popolazioni circostanti, ma alle strette seppure a fronte delle negligenze aziendali, si difendeva la fabbrica comunque. In quel tempo si considerava Gela a rischio, mentre Siracusa sarebbe stata al sicuro. Successivamente sono emerse statistiche su patologie neonatali in quel di Siracusa che fanno accapponare la pelle e che, se vere, non possono che essere indizio da prendere in considerazione seria.

Per qualsiasi organizzazione è sempre molto difficile andare contro corrente rispetto alle tendenze spontanee della propria base. Ma questo è ciò che bisogna tornare a fare anche ristudiando l’esperienza di lotte vissute da metà anni sessanta in poi. Certo non tutte da ripetere tali e quali, ma da studiare anche per evitare di inventare la ruota più di una volta.
 
La prima esigenza è quella di mettere la sicurezza al primo posto nella gerarchia delle priorità dell’azione sindacale. A Marcinelle il 5 luglio dell’anno passato ho sostenuto che questa deve diventare la sola variabile indipendente da tutte le altre. In questi ultimi anni non è stato così. L’assedio al quale siamo stati esposti su articolo 18, Legge 30, pensioni ci ha obbligati ad una difesa che inevitabilmente metteva in fondo alla lista la sicurezza. D’altra parte le lotte che si hanno su questo tema sono proteste di fronte ai morti; raramente si hanno lotte con obiettivi di miglioramento della condizione di lavoro.

Talune scelte difensive, a parte il come della loro realizzazione, erano inevitabili. Non era inevitabile la contrapposizione tra contratto nazionale e contrattazione decentrata, anzi è stata un errore che si è tradotto in calo di potere contrattuale nelle aziende con effetti sulla sicurezza e anche sulla difesa del salario lasciando uno spazio assurdo alle imprese nella gestione unilaterale dei rapporti di lavoro a cominciare dalla organizzazione del lavoro e la sua sicurezza. E’ da qui che bisogna ripartire. Per intenderci non vedo alcuna necessità di rimettere mano a quanto scritto nei contratti nazionali. La cosa importante è prendere nelle mani le norme nazionali esistenti e passare ad una diffusa iniziativa decentrata soprattutto aziendale.

Una chiave di questo lavoro è il superamento del lavoro separato che tutt’ora caratterizza il Patronato e i sindacati di categoria. Inevitabile e ovvio che i Patronati si occupino prevalentemente del risarcimento del danno e che siano i sindacati con le Rsu e i Rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza a occuparsi dell’intervento sulle condizioni di lavoro, ma se queste due funzioni non marciano assieme neppure nel movimento sindacale ci sarà sufficiente consapevolezza del nesso causale tra danno e condizione di lavoro. Qualche progresso si vede dal punto di vista di questa collaborazione, ma siamo ben lontani dal necessario.

Un altro filone di collaborazione da rivedere è quello con il mondo dei medici e della scienza. E’ delicata e contraddittoria la posizione del medico competente come previsto dalla 626. E’ un soggetto pagato dall’azienda; come ci si può illudere che sia indipendente da essa? Sarebbe ragionevole mutualizzare il costo, ma liberare il medico dal condizionamento dell’azienda. Va poi rilanciata la formazione sindacale anche riconsiderando quella rivolta ai Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza che, fatta insieme alle imprese, può da questo trarre autorevolezza, ma anche esserne condizionata eccessivamente.

La funzione ispettiva ha da essere adeguata nella quantità degli ispettori, nei mezzi a loro disposizione, nel coordinamento del loro lavoro oggi disperso in diversi rivoli. E va trovato il modo della loro collaborazione con chi rappresenta i lavoratori.

Ci sono tutti i motivi per migliorare i trattamenti Inail anche alla luce del bilancio che si può fare del Decreto 38 del 2000. Del resto lo Stesso Consiglio di Amministrazione dell’Istituto, con una sua deliberazione del 28 febbraio 2006, propone miglioramenti che hanno da essere attuati con misure legislative.

A proposito di Inail va presa sul serio la proposta del bonus-malus inventata a suo tempo da Gianni Billia quando ne era Presidente; cioè non solo sostegno economico alle imprese che investono in sicurezza, ma riduzione degli oneri da pagare quando si riduce il rischio. La cosa ha fin’ora scarsamente funzionato. Che non sia anche perché dalla sua gestione sono stati tenuti fuori i rappresentanti dei lavoratori i quali non hanno fatto storie preferendo non prendersi responsabilità?

Una cura maggiore va posta anche alla ricollocazione in un lavoro accettabile e compatibile per chi è stato danneggiato e reso parzialmente invalido anche riconsiderando la cosiddetta Rendita di passaggio.

E’ all’ordine del giorno anche un rinnovamento della legislazione. E’ cosa giusta e necessaria, ma non sarà efficace se non accompagnata da una ripresa di iniziativa soprattutto sindacale, che si realizzi dando luogo a collaborazione efficace con tutti i soggetti e le istituzioni che hanno una parte da fare e che a ciò vanno responsabilizzate. Ciò insieme ad una battaglia culturale che metta in generale nel Paese la sicurezza al primo posto. A proposito di cultura c’è perfino da sconfiggere certo “bullismo” che in taluni ambienti di lavoro si manifesta in sciocco sprezzo del pericolo.

Sono tanti i profili della condizione di lavoro che giustificano una ripresa di iniziativa sindacale, compreso quello chiamato mobbing con tutti i risvolti di novità che esso propone. Da ultimo mi ha lasciato di stucco un cenno del libro di Roberto Saviano (Gomorra): “Il mercato secondiglianese ha superato le vecchie rigidità dello smercio di droga; riconoscendo nella cocaina la nuova frontiera. In passato droga d’elite, oggi grazie alle nuove politiche economiche dei clan è divenuta assolutamente accessibile al consumo di massa, con diversi gradi di qualità ma capace di soddisfare ogni esigenza. Il 90 per cento dei consumatori di cocaina secondo le analisi del gruppo Abele sono lavoratori o studenti. La coca si è emancipata dalla categoria di sballo, diviene sostanza usata durante ogni fase del quotidiano, dopo le ore di straordinario, viene presa per rilassarsi, per avere ancora forza di fare qualcosa che somigli a un gesto umano e vivo e non solo un surrogato di fatica. La coca  viene presa dai camionisti per guidare la notte, per resistere ore davanti al computer, per andare avanti senza sosta a lavorare per settimane senza nessun tipo di pausa. Un solvente della fatica, un anestetico del dolore, una protesi alla felicità.” E poi: “Ora esistono i cosiddetti giri. Il giro dei medici, il giro dei piloti, dei giornalisti, degli impiegati statali.” E ancora: “Il numero delle persone dipendenti che si rivolge al Sert raddoppia ogni anno.” Rispetto alla discussione realizzata con un gruppo di delegati di aziende napoletane questa è una conferma. Temo che non sia soltanto un problema napoletano.

Tutto concorre a mostrare che ci sia bisogno di un cambio di passo.

Giovedì, 10. Maggio 2007
 

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