Come cambiare il Patto di stabilità

Idee per un programma/ Per dare al Patto una funzione di crescita e non solo di stabilità gli Stati debbono riguadagnare una loro autonomia. Che non significa 'finanza creativa'

 Con l'avvio della nuova Commissione europea, torna in primo piano la possibile revisione del Patto di stabilità e di crescita. La posizione del governo di centro destra è stata in questi anni, e continua a esserlo con la finanziaria, ambigua e contraddittoria. Per un verso, apparentemente deferente, per l'altro incapace di rispettarne i limiti, più in generale, privo di un progetto per una sua possibile revisione.
 
Eppure l'Italia è il paese più di ogni altro coinvolto nell'origine del Patto. Paradossalmente, se l'Italia non si fosse impegnata per imporre la sua partecipazione all'euro nella prima tornata, Theo Waigel, l'allora ministro delle Finanze tedesche, non avrebbe imposto il Patto, o non ne avrebbe preteso una formulazione così rigida, da andare al di là di quanto prescriveva lo stesso Trattato di Maastricht.
 
Perché l'Italia ebbe una parte importante e probabilmente decisiva nella nascita del Patto di stabilità? La Germania era profondamente divisa di fronte allo scambio fra il marco, simbolo della rinascita tedesca, e una moneta unica considerata di scarsa affidabilità. Il fatto poi che nella nuova moneta dovesse entrare anche la lira con alle spalle una tradizione d'instabilità e un paese schiacciato da un debito pubblico doppio di quello tedesco o francese, era la goccia che faceva traboccare il vaso.
 
In sostanza, l'entrata dell'Italia nell'euro fu resa possibile dalla determinazione politica con la quale il Cancelliere Kohl sostenne questa scelta. E' in questo quadro, segnato da contraddizioni e incertezze, che prese corpo il Patto di stabilità. Che rappresentò, per molti versi, la contropartita imposta dalla Germania  per la rinuncia al marco.
 
Insomma, se non fosse stato per la caparbietà con la quale il cancelliere Kohl voleva consolidare intorno alla Germania riunificata un più forte schieramento europeo, con al centro l'euro, non limitato a Francia e Benelux, come si era ipotizzato a metà degli anni 90, l'Italia sarebbe rimasta molto probabilmente, almeno per una prima fase, fuori dell'euro.
 
Ma se questa era la decisione politica, bisognava stringere i cordoni. Il Patto, irrigidendo i criteri di Maastricht, metteva sotto tutela la politica di bilancio di tutti i paesi dell'euro, come garanzia che la nuova moneta non sarebbe stata meno stabile del marco. Quanto all'Italia, avrebbe dovuto insieme puntare all'equilibrio del bilancio e dimezzare il debito, portandolo nella media europea.
 
Il Patto fu oggetto di molte critiche. Ma alla fine dei Novanta, il problema non si poneva in termini pratici, dal momento che l'Europa era in piena espansione, e l'occupazione cresceva a vista d'occhio. Il problema si è posto col rovesciamento del quadro congiunturale che ha colpito l'Unione negli ultimi tre anni. In un clima di stagnazione, con tassi d'interesse doppi di quelli americani, e l'euro in progressiva rivalutazione sul dollaro, l'unico strumento di politica economica a disposizione degli stati membri sarebbe stata una politica espansiva del bilancio. Per ironia della sorte, il paese che più ne avrebbe avuto bisogno era proprio la Germania, finita in recessione. Ma il Patto impediva una manovra anticiclica. Il risultato è quello che abbiamo ancora sotto gli occhi. L'Unione europea, e la zona euro in particolare, è l'area a più basso sviluppo del pianeta. Il Patto impediva di utilizzare la manovra fiscale in funzione antirecessiva e al tempo stesso il quadro di stagnazione impediva il rispetto del Patto.
 
La domanda a questo punto è: perché la Banca centrale europea e una parte importante della tecnocrazia di Bruxelles si sono opposti (fino a promuovere il ricorso alla Corte di giustizia) a una revisione del Patto o, quanto meno, a una sua interpretazione meno ottusamente rigida? La spiegazione è nella convinzione che i problemi di crescita dell'Unione non si risolvono ricorrendo alle manovre monetarie e fiscali, secondo gli schemi tradizionali della politica macroeconomica, ma riformando in profondità le strutture del mercato del lavoro e dello stato sociale. Convinzione che ha profonde radici ideologiche nelle teorie liberiste e monetariste, da Hayek a Friedman a Barro. In una visione neoconsevatrice, il Patto è la leva per una politica economica e sociale diretta a ridurre lo spazio dell'intervento pubblico e il controllo dei sindacati sui mercati del lavoro. In altri termini, uno strumento per far passare le "riforme di struttura" del mercato del lavoro e dello stato sociale che nell'Europa continentale incontrano una strenua opposizione sociale e politica.
 
Il Patto, nato come uno strumento "tecnico" diretto a rafforzare la nuova politica monetaria dell'euro, è così diventato uno strumento politico per forzare il cambiamento sociale. Un giorno, in un impeto di intelligente sincerità e senza badare alle norme del "politically correct", Prodi definì "stupido" il Patto. Ora che è inevitabile, anzi è già avviata, la sua revisione, quale posizione può assumere l'Italia? O quale posizione può assumere il centro-sinistra dall'opposizione, ma con l'ambizione di tornare a governare?
 
Proviamo a formulare qualche ipotesi. La "stupidità de Patto non sta nel fatto che si pone l'obiettivo di creare un quadro di coordinamento delle politiche di bilancio. Il problema riguarda la finalità del coordinamento. E' se esso debba sostituirsi, com'è accaduto in questi anni, a una politica economica (riducendola alla liberalizzazione del mercato del lavoro e alla compressione della spesa sociale) o se, viceversa, la sua gestione debba essere ricondotta all'interno di un quadro di politica economica complessiva, finalizzata alla crescita, all'innovazione, all'occupazione (in definitiva, agli obiettivi smarriti della strategia di Lisbona). Insomma, privati della politica monetaria e del cambio, gli Stati membri dovrebbero recuperare come strumento dì autonomia e discrezionalità la politica di bilancio. (A meno di non voler gestire un'unica politica di bilancio a livello europio; ma questo è impossibile con risorse pari all'uno per cento, o poco più, del reddito europeo).
 
Autonomia senza limiti? Evidentemente, no. Una politica populista o avventuristica di un singolo Stato membro si rifletterebbe negativamente sull'intera area. Gli spazi di autonomia non possono non essere soggetti a un trasparente criterio di controllo. Vale a dire, la consistenza del debito pregresso di ciascun paese dovrebbe diventare il limite alla possibilità di creare disavanzo, oltre una soglia prestabilita. In altri termini, la valutazione del livello di disavanzo corrente e la sua ammissibilità sarebbero riferite all'entità del debito pregresso e all'impegno di ridurlo a medio termine verso le soglie di compatibilità.
 
Se l'Italia proponesse una riforma e una semplificazione del Patto in questa direzione sarebbe chiaro che, essendo il paese a più alto indebitamento, non intenderebbe sottrarsi a un necessario impegno di convergenza verso la media europea. E non potrebbe ricorrere ai trucchi della finanza creativa o alla riduzione (più o meno finta) delle imposte accrescendo il disavanzo. Al tempo stesso, acquisirebbe, come tutti gli altri, una maggiore discrezionalità nell'ambito dell'impegno a medio termine di una progressiva riduzione del debito. E, soprattutto, si avvantaggerebbe delle ricadute di una politica macroeconomica più flessibile e generatrice di crescita da parte dei paesi a basso indebitamento, fra i quali Germania e Francia che, per la dimensione della loro economia, condizionano i ritmi di crescita nell'intera area dell'euro.
 
 Sostenere una riforma del Patto in questa direzione avrebbe il doppio merito di assumere una linea di finanza sana all'interno e, al tempo stesso, di liberazione di un importante strumento di crescita a livello europeo, con evidenti riflessi positivi sull'economia nazionale.

 

Martedì, 12. Ottobre 2004
 

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