Com'è sciatto lo Stato proprietario

L'"economia della manutenzione", che come molti hanno convenuto sarebbe la più adatta a fronteggiare la crisi, sarebbe oltretutto necessaria al patrimonio pubblico, dove non è mai stata applicata, con risultati pessimi anche in termini di deterioramento e di maggior costo degli interventi. Ci sarebbero meno inaugurazioni propagandistiche, ma si eviterebbero drammi come quelli in Abruzzo

Qualche tempo prima dei tragici eventi dell'Abruzzo, nel commentare i provvedimenti anticrisi del governo avevamo auspicato un deciso orientamento della spesa pubblica verso la cosiddetta "economia di manutenzione". Tema ripreso da noi stessi e da altri, anche in dichiarazioni pubbliche. L'argomento merita ulteriori approfondimenti, basati anche sui risultati di una ricerca condotta anni or sono per conto della Commissione di garanzia per l'informazione statistica da un'équipe da me diretta. I dati allora elaborati possono ritenersi tuttora validi.

 

L'analisi era riferita all'ammortamento ed alla manutemzione del patrimonio pubblico, quale si evince dai bilanci. La prima difficoltà che si incontra consiste nel definire il valore del capitale al quale le quote di ammortamento debbono riferirsi. Nel loro formalismo contabile i principi ragioneristici non aiutano molto, perchè prevedono due possibili criteri di valutazione dello stock di capitale da ammortizzare: ai costi storici, ai quali si applicano i coefficienti di rivalutazione monetaria e ai costi di rinnovo. Detto in altre parole, o accantoniamo (figurativamente: non dimentichiamo mai che una scrittura contabile di competenza non implica automaticamente una disponibilità di cassa) una somma che al termine del periodo di ammortamento sarà uguale a quanto ci sono costati un ospedale, una scuola o una strada; oppure una somma diversa, pari al costo della ricostruzione dell'infrastruttura non più funzionale. Si consideri che il termine "funzionale" implica una sostituzione dell'edificio anche per obsolescenza, e cioè per inadeguatezza rispetto ad un'evoluzione dei bisogni. Se si tien conto dell'obsolescenza il periodo di ammortamento si accorcia e le quote risultano più elevate.

 

Se il buonsenso prevalesse nella contabilità di Stato (ma tutti sappiamo che non è così) questo secondo criterio dovrebbe essere l'unico prescelto, mentre normalmente si adotta il primo. Non dobbiamo nasconderci, però, che vi sarebbero notevoli difficoltà di calcolo. Si tratterebbe infatti di prevedere fin dall'inizio del periodo strutture e funzioni, nonché costi, di un futuro anche lontano. Si potrebbero però ipotizzare aggiornamenti periodici; il che comporterebbe quasi certamente quote di ammortamento crescenti.

 

Il calcolo del valore complessivo del capitale pubblico è stato più volte tentato, ma con risultati insoddisfacenti. L'attuale ministro dell'Economia ha indicato a suo tempo una cifra pari a una volta e mezzo del Pil; ma non vi è motivo per ritenerla del tutto attendibile. Quel che è certo è che quando singoli elementi di questo capitale vengono venduti sul mercato, il prezzo risulta quasi sempre inferiore a quello inventariato, per l'azione del "cartello silenzioso" degli acquirenti che, mandando deserte le prime aste, puntano a raggiungere il livello atto a garantire loro il massimo guadagno.

 

La difficoltà maggiore è imputabile alla eterogeneità e al vintage degli elementi che compongono il patrimonio pubblico (sono stati costruiti in tempi diversi). Per questi motivi le quote di ammortamento iscritte in bilancio, facendo riferimento ai costi storici, appaiono poco significative. Il gruppo di ricerca ha tentato di aggirare questa difficoltà, calcolando gli incrementi dei flussi di ammortamento rispetto agli incrementi di capitale, naturalmente per un certo numero di anni.

 

I risultati sono stati in parte prevedibili e in parte deludenti. Le quote sono molto erratiche, per dicasteri e per esercizi: ciò può essere dovuto sia alla predetta eterogeneità sia alla pressione dei vincoli di bilancio. Sono comunque tutte molto basse (dallo 0,2 allo 0,5% e talora molto meno, nella maggior parte dei casi). Ciò equivarrebbe a supporre una durata plurisecolare degli edifici. Il che è senz'altro vero per i centri di potere (Camere, Quirinale, Palazzo Chigi, Palazzo di Grazia e Giustizia), rivalutando così gli speculatori edilizi della Roma papalina e umbertina; ma molto meno per le strutture operative (scuole, ospedali, commissariati, etc.). Non a caso le quote di ammortamento si avvicinano a quelle di analoghe aziende private nel caso del ministero della Difesa e delle municipalizzate. La sensazione nettissima è che, al di là di criteri contabili formali risalenti forse all'epoca di Quintino Sella, manchi un indirizzo generale atto a mantenere la funzionalità operativa del complesso del patrimonio pubblico.

 

Si potrebbe pensare che a questa sostanziale carenza di ammortamenti di "reintegro" si ponga rimedio con adeguati livelli di spese di manutenzione sia ordinaria che straordinaria (quella straordinaria serve per operazioni che in gergo nazional-popolare definiremmo di "rattoppo"). Ancora una volta, non è così. Il livello di queste spese - sempre con le due eccezioni già segnalate - è semplicemente risibile. Alcuni validi indizi mi consentono di affermare che rispetto all'epoca in cui la ricerca si svolse la situazione è tendenzialmente peggiorata.

 

La stessa casualità delle spese per questi due capitoli nel tempo è indizio di un sistema di manutenzione a guasto - che paradossalmente (come dovrebbero ben sapere gli automobilisti ed anche i proprietari di case di abitazione) è ben più costosa nel medio-lungo periodo di quella programmata. Ne consegue una constatazione che è sotto gli occhi di tutti: con qualche lodevole eccezione le infrastrutture pubbliche e soprattutto quelle operative appaiono soggette a degrado più di quelle private.

 

Passiamo dall'analisi alla protesta e dalla protesta alla proposta. Occorrerebbe attuare in tutti i settori della P.A. la manutenzione programmata, soprattutto in quelli più "sensibili" (scuole, ospedali), portandola almeno agli stessi livelli del settore degli armamenti; sottoporre questi criteri a revisione sistematica; accrescere a livelli accettabili anche sotto il profilo finanziario, le quote di ammortamento delle infrastrutture pubbliche, calcolandole sui "costi di rinnovo". E' quasi certo che ciò comporterebbe un azzeramento degli investimenti per così dire "addizionali" e, probabilmente, per qualche anno un loro valore negativo. Ma per avere un paese moderno è preferibile contare meno sulle inaugurazioni e più sulle manutenzioni. Vedremmo in TV più ingegneri e meno politici con o senza la fascia tricolore; ma sarà sempre un bel vantaggio se potremo evitare la televisione del dolore, prevenendo le catastrofi anzichè farne oggetto di sfacciata propaganda.
Domenica, 26. Aprile 2009
 

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