Com’è difficile tagliare la spesa

A leggere certa stampa (specie di destra) sembrerebbe che non ci voglia nulla. In realtà si tratta di intervenire su meccanismi complessi e molte cose non sono come appaiono ad uno sguardo superficiale. Senza contare che spesso il pubblico è più efficiente del privato

Ad una traduzione letterale il termine "review" (che figura come pilastro della manovra di governo delle intese, non sappiamo se più larghe o più strette) può suonare come "rivista", che in Italia indica il varietà. Potremmo dunque immaginare il ministro Saccomanni come capo comico, i responsabili dei centri di spesa come ballerini di fila e il dottor Cottarelli, dirigente del Fondo monetario internazionale che dovrà ora occuparsene, come soubrette.

    

A parte le battute scherzose, la riduzione della spesa pubblica (data per scontata: il che non è pacifico, ma appare ragionevole per ridurre la pressione fiscale) ad una analisi superficiale, caratteristica di certa pubblicistica della destra economica, sembra compito facile. E' mai possibile, si legge su questi giornali, che non si riescano a raggranellare una decina di miliardi su un totale annuo di 800 di spesa? Tuttavia si sono finora cimentati nell'opera due governi, uno dei severi tecnici montiani e quello attuale, non  meno scrupoloso custode della stabilità monetaria. I risultati sono stati deludenti. Spesa pubblica e debito - il secondo legato alla prima - hanno continuato ad aumentare anche se con un ritmo un po' attenuato rispetto al governo dei "ristoranti affollati". Le percentuali inoltre peggiorano per la contrazione del Pil. Occorre un'analisi più approfondita, che certamente è in corso, e che vorremmo chiarire ai nostri lettori perché valutino da cittadini consapevoli le difficoltà della manovra.

 

La spesa pubblica può ridursi per varie cause o scelte operative: a) fine di certe funzioni; b) spin off di alcune attività, con eventuale ricorso al meccanismo delle convenzioni con l'affidamento di servizi a privati, sempre a carico del bilancio dello Stato; c) razionalizzazione efficientistica a parità di funzioni-obiettivo; d) modifica delle priorità con conseguente spostamento di risorse da un obiettivo ad un altro: il che non garantisce necessariamente un minore livello di spesa, ma mira a conseguire un maggiore massimo edonistico collettivo.

    

La prima ipotesi si è verificata con l'abbattimento dei dazi comunitari. Il personale (doganieri) è stato ricollocato all'interno della PA e svolge più impegnativi compiti per contenere le truffe comunitarie e l'evasione dell'IVA attraverso le cosiddette società carosello. Gli immobili delle cinte daziarie sono stati ceduti a basso costo ai soliti furbetti o sono abbandonati e in rovina.

    

La seconda ipotesi è la più interessante ed anche quella più apertamente promossa dalla stampa che fiancheggia l'imprenditoria che si sviluppa nei dintorni dell'amministrazione pubblica con rapporti non sempre di una chiarezza cristallina. Si tratta in sostanza di spin off o affidamento all'esterno di funzioni che possono essere svolte da dipendenti pubblici. Un esempio minore ma molto diffuso è quello dell'affidamento a ditte esterne della pulizia dei locali, ad esempio delle Università. A parte qualche oscurità nelle procedure degli appalti mancano evidenze statistiche che dimostrino una sensibile diminuzione delle spese a parità di efficienza dei servizi. Considerazioni analoghe valgono per le mense universitarie. Forse la soluzione più economica consisterebbe, come fanno molte aziende, nel fornire buoni pasto agli aventi diritto.

    

Ma vi è un grande settore nel quale la ibridazione pubblico/privato genera ircocervi talora inefficienti e costosi, evidenziati da processi che rivelano solo la punta di un iceberg. Alludiamo alle convenzioni con la Sanità privata, i cui costi gravano sui bilanci pubblici, costi ingigantiti da inefficienze e truffe vere e proprie anche per omessi controlli. Questa corsa all'affidamento a privati della gestione di funzioni pubbliche è il frutto avvelenato di un pregiudizio ideologico secondo il quale la molla del profitto è garanzia di efficienza e, quindi, di minori costi. Sarebbe come se si ritenesse preferibile affidare la direzione di un ospedale al pirata Morgan (che pur concluse la sua carriera da Governatore della Giamaica) anziché a un dirigente pubblico capace e irreprensibile. Il problema si manifesta anche nella graduale eliminazione delle gestioni dirette delle municipalizzate. Su questo punto particolare ci auguriamo che manifesti il suo impegno personale l'attuale presidente del Consiglio di cui molti hanno avuto modo di apprezzare, nell'esperienza intellettuale di Vedrò (centro di ricerca socio-economica) la pacata razionalità accoppiata ad una autentica passione civile.

 

Un discorso diverso e più approfondito si può e si deve fare per la cosiddetta razionalizzazione (leggi: riduzione) della spesa attraverso i meccanismi dei “costi standard”. L'impresa è difficilissima: infatti le componenti del costo per la molteplicità dei sistemi organizzativi e per la specificità di certe funzioni sono oggettivamente diverse a livello territoriale e settoriale. Nel campo della Sanità i diversi prezzi delle siringhe, cavallo di battaglia della pubblicistica d'assalto, non sono sempre ingiustificati. Occorrerebbe analizzare le tipologie richieste, il grado di urgenza, la scala degli acquisti e la logistica delle consegne. Certo è che il meccanismo ha funzionato bene con la Centrale degli acquisti e le gare on line.

    

Nella riduzione della spesa pubblica, però, occorre tener conto del fatto che essa è una componente della domanda aggregata al pari della equivalente riduzione delle tasse. A seconda che prevalga una delle due grandezze di segno opposto, gli effetti finali saranno propulsivi o recessivi. Sicuramente propulsivo è il calo degli interessi sul debito pubblico. Essi vengono prelevati da tutti i contribuenti in modo solo parzialmente progressivo e pompati verso i rentiers italiani ed esteri. Questi ultimi inoltre sottraggono liquidità, solo faticosamente recuperabile attraverso le esportazioni.

    

Nel campo della razionalizzazione margini di miglioramento sensibili potrebbero individuarsi, come avevo detto in altri articoli, nell'incremento della manutenzione programmata delle infrastrutture urbane e geologiche, dando un taglio netto alla valanga di spese post disastro. E' sorprendente, ad esempio, il fatto che ogni anno le amministrazioni della Capitale trascurino la pulizia delle caditoie, con i prevedibili danni costosi che le piogge provocano alle infrastrutture urbane, quando sarebbe bastata sul piano previsionale un'attenta lettura dei versi di un poeta italiano contemporaneo (Ungaretti).

 

Un'ultima ipotesi è quella della modifica delle priorità, complicata in Italia per la rigidità delle poste di bilancio. Questo è un punctum dolens intorno al quale si accende la battaglia politica. E' preferibile comprare e coprodurre gli F135 o finanziare un massiccio programma di edilizia pubblica, che manca dall'epoca di Fanfani buonanima? Le alternative di questo tipo sono numerose. La modifica delle priorità potrebbe produrre anche una riduzione dei costi. L'esperienza dimostra però che le modificazioni strutturali della spesa comportano effetti secondari talora non correttamente valutati. Ad esempio, la riforma Fornero ha aggravato i costi della PA mantenendo in servizio dipendenti anziani con remunerazioni più alte e produttività più bassa, ha aggravato di fatto la disoccupazione giovanile ed ha generato un flusso addizionale di spese per esodati e sussidi di disoccupazione. Il vantaggio vi sarà, se vi sarà, come si suol dire a babbo morto.

 

Accanto a questa tipologia di interventi che, per l'inerzia dei sistemi complessi non potranno fornire ingenti risorse in tempi brevi, appaiono periodicamente slogan semplicistici, come quello del "drastico taglio alle spese improduttive".Non è chiarissimo cosa significhi improduttivo e a chi spetti il giudizio. Ad una analisi lessicale, improduttivo significherebbe che un intervento non produce i vantaggi che si propone, o ne produce meno di quanto sarebbe possibile con una diversa organizzazione o produce cose inutili o non agevola l'attività di altri soggetti. Ancora una volta bisogna guardarsi dalle analisi a volo di uccello. Vi sono spese apparentemente improduttive a breve periodo che si sono rivelate efficacissime nel tempo con risultati superiori ad ogni previsione. L'esempio sempre citato è quello della Roma-L'Aquila, giudicata dai contemporanei uno spreco di risorse per favorire le fortune politiche di Remo Gaspari e rivelatasi formidabile strumento di sviluppo.

    

Altrettanto improduttivi appaiono molti passaggi burocratici, come se fossero un meccanismo di autosostentamento del ceto impiegatizio e. forse, anche un'occasione di corruzione, il cui costo (60 miliardi annui?) grava sulle aziende e sui consumatori finali. Questo sì è decisamente improduttivo. Però occorre separare il grano dal loglio. E' infatti vero che - forse anche a causa di una ventennale predicazione politica amorale - quando i controlli si allentano interi settori e masse di cittadini diventano partecipi di forme di criminalità diffusa (truffe comunitarie, cibi avariati, scatole cinesi, società ombra, autocertificazioni fasulle e via contraffacendo). Non basta, dunque, sburocratizzare: occorre ripulire eticamente le menti di una parte dei nostri concittadini.

    

Sulla vendita o valorizzazione del patrimonio pubblico ci riserviamo un approfondimento in altra nota.

 

Rimarrebbe, per concludere, da riesaminare anche l'assunto su cui si fonda la spending review, lontano epigone della "affama la Bestia" di reaganiana memoria. Esistono prove empiriche del fatto che in Italia, rispetto ad obiettivi ovviamente non coincidenti, il settore pubblico sia meno efficiente di quello privato, travolto da scandali, bancarotte colossali, fallimenti diffusi, processi spettacolari? Le comparazioni non vanno fatte per i casi di eccellenza, ma in termini globali. Obiettivamente mi pare che la risposta sia quanto meno dubitativa. Soprattutto negli anni delle vacche grasse, certa imprenditoria nostrana non ha dato il meglio di sé.

    

Le comparazioni sono rese difficili dal fatto che per la sua natura la spesa pubblica copre costi costanti sociali, difficilmente misurabili a prezzi di mercato, ma con vantaggi diffusi e prolungati, come quelli delle infrastrutture, della ricerca di base, dell'istruzione, dell'ordine pubblico e della magistratura.

    

Comunque al nuovo Proconsole che si accinge a varcare il Rubicone della spending review auguriamo di non finire impastoiato, come i suoi predecessori, nella vischiosa ragnatela della contabilità pubblica.

Lunedì, 7. Ottobre 2013
 

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