Cinque Stelle, scegliere o scomparire

Molti ritengono irreversibile il declino del Movimento, ma i problemi che hanno spinto tanti elettori a sceglierlo sono tutt’altro che risolti. Non può continuare, però, con la politica del “né-né”: se facesse una scelta di campo culturalmente e socialmente chiara, puntando sui contenuti di maggiore rilievo sociale, si aprirebbe una stagione nuova della politica italiana

L’esito delle elezioni in Emilia Romagna è stato accolto con grande sollievo dalle parti del PD e dei suoi alleati. Il segretario Zingaretti nei suoi commenti non si è però limitato a festeggiare la sconfitta di Salvini (e del centro-destra) ma ha voluto vedere nel misero risultato dei Cinque Stelle un segnale di ritorno al bipolarismo e dunque, a suo modo di vedere, alla normalità.

In verità, questa affermazione non sembra coerente con la trattativa in atto per affiancare al taglio dei parlamentari, il cui voto finale ha inaugurato il Conte2, una modifica in senso proporzionale della legge elettorale. Perché se l’abolizione della quota uninominale si accompagnasse a un aumento della soglia di accesso al 5%, oltre a cancellare il diritto di tribuna, si produrrebbe, per il richiamo del cosiddetto voto utile, una riduzione della rappresentanza parlamentare a quattro-cinque partiti.

Se questo fosse il punto di arrivo, l’unica alternativa a un governo delle destre sarebbe di nuovo l’attuale alleanza di governo. Se poi, come prevedibile, si finisse per non alzare la soglia così da permettere l’entrata in gioco di due o tre altre formazioni, con buona pace del mito bipolare, il ritorno alla normalità ricorderebbe molto la Prima Repubblica. Ma, al di là di questa contraddizione tra gli auspici per il futuro e le mosse del presente, quello che ci si deve domandare è se la lettura del voto emiliano come annuncio di un ritorno al bipolarismo attorno a Lega e PD abbia riscontro nei segnali provenienti non solo dal voto ma dalle istanze espresse dal corpo della società.

Ammesso che il Movimento Cinque Stelle abbia imboccato davvero, in modo irreversibile, la strada del declino (ipotesi che i sondaggi recenti smentiscono, fotografando piuttosto un assestamento nell’area tra il 15 e il 18%): che cosa ci autorizza a ritenere che con ciò siano venute meno le ragioni di fondo che hanno portato un terzo dell’elettorato a rivolgersi a loro? Pensiamo allo scontento e alla rabbia di cui si alimentavano i Vaffa day; e alla voglia di partecipazione diretta alla vita politica alla base del proliferare dei meet-up, mentre le sezioni di partito si rinserravano nei riti burocratici della scelta di chi destinare alle cariche istituzionali e ai posti di potere amministrativo (con relativi risvolti economici); infine alla delusione di chi, a sinistra, avendo preso sul serio i programmi che facevano balenare le immagini di un mondo più giusto e più sano li ha viste seppelliti sotto le larghe intese, la resa all’ideologia del TINA (non c’è alternativa), l’esercizio del potere per il potere. Tutte queste istanze, siamo proprio certi che si accontenteranno del sorriso bonario del neo-segretario o dei richiami a “sconfiggere la cultura dell’odio” che le sardine stanno veicolando nelle piazze?

Prendiamo atto, per cominciare, che una parte di quelle istanze ha preso la strada della destra salviniana. Non c’è analisi dei flussi che non indichi per ognuna delle ultime tornate elettorali, un travaso di voti verso la Lega proveniente, oltre che da Forza Italia, dal PD e dai Cinque Stelle.

Il PD aveva fatto il pieno di voti al centro con la gestione Renzi nelle Europee del 2014 ma, dopo aver perso voti sul lato sinistro (verso l’astensione e verso i Cinque Stelle) per aver fatto proprie le ricette del liberismo, ha finito per perdere anche il voto moderato, verso la Lega, nelle regioni più ricche.

I Cinque Stelle a loro volta hanno ceduto il voto degli arrabbiati verso chi sulla rabbia aveva meglio speculato: lo scontento che non trovava una risposta credibile ai bisogni fondamentali, su cui si basa la speranza di una vita degna di essere vissuta, è stato catturato personificando i motivi di scontento: da un lato, le icone del potere, i personaggi che occupavano la scena politica (più che altro come rappresentata in TV); dall’altro, il diverso, l’estraneo, raccontato come temibile fonte di pericolo dalla parte più spregiudicata (e meno esposta nei media mainstream) di quello stesso potere politico (ed economico). Il fenomeno descritto come rabbia dei penultimi verso gli ultimi.

Il travaso verso la Lega si è arrestato, in parte è rifluito verso Fratelli d’Italia, ma non è tornato indietro. Quello dei delusi dalla sinistra è rimasto in bilico tra l’astensione e la conferma di fiducia, a denti stretti, ai Cinque Stelle. Mentre il PD non riesce ancora a risalire la china: non verso la vetta delle Europee ma neanche verso il risultato del 2018.

 

In questa situazione, la scelta a cui i Cinque Stelle sono chiamati con i prossimi Stati Generali finisce per travalicare il confine della loro constituency attuale, nel senso che se dovessero continuare ad avvilupparsi nelle contraddizioni degli ultimi anni perderebbero ogni residua capacità di rappresentare l’area di elettorato che esprime quella domanda politica fin qui insoddisfatta.

Se la loro maggiore colpa è quella di non saper distinguere tra le ragioni vere della rabbia e le mistificazioni, la confusione insita nel “né-né”, che è il tratto caratteristico della gestione Di Maio, è doppiamente dannosa. Poteva essere perfino comprensibile se si fosse limitata a un “né con la destra né con il PD” (intendendo “in quanto fa una politica di destra”), ma il “né di destra né di sinistra” non solo ha spinto molti di sinistra verso l’astensione o il voto di testimonianza ma, quel che è peggio, si è tradotto in un eclettismo sfociato inevitabilmente nell’ opportunismo. Li ha portati a inseguire la destra che investiva sulla paura per pescare voti da quella parte.

La teoria dei “taxi del mare” è stata un assist insperato per Salvini che gli ha permesso di compiere gli atti più beceri, eversivi, della sua gestione; al tempo stesso, tutte le parti più innovative e più connotate in termini sociali sono state ridotte a pure manifestazioni di intenti, subordinate al lasciapassare di praticabilità emesso dal potere costituito. La stella dell’ambiente è finita nella polvere, il reddito di cittadinanza, sola bandiera a cui si siano votati con tutte le forze, ha perso molto del suo impatto e quindi del consenso potenziale, le istanze di democrazia economica si sono svuotate, l’onestà è rimasta un richiamo morale senza rilievo politico, la pretesa diversità, dalla folta schiera dei politici di regime, è diventata una pretesa di autoassoluzione.

È questo il destino inevitabile dei Cinque Stelle, una meteora destinata a dissolversi nell’impatto con l’atmosfera dei palazzi del potere? Sono condannati senza appello al declino dalla loro ambiguità? Lo sapremo prima dell’estate. Ma se una possibilità è ancora data, se cioè decidessero almeno di recuperare i contenuti di maggiore rilievo sociale (se ne trovano nella versione partecipata del loro programma elettorale, quella che il gruppo di comunicazione centrale ha ridotto a venti punti insignificanti per aprire la strada al contratto di governo con chiunque ci stava), se facessero insomma una scelta di campo culturalmente e socialmente chiara, si aprirebbe una stagione totalmente nuova della politica italiana. Non solo segnerebbero una linea di demarcazione invalicabile dall’egoismo leghista ma incalzerebbero il PD: altro che fare tagliandi, dovrebbero rendere conto di una stagione ormai lunghissima di politiche di destra, fallimentari. E potrebbe tornare ad aver voce in capitolo la cultura di sinistra più attuale, più radicale, più rigorosa.

Una stagione nuova che avrebbe un sapore antico: quello degli anni tra la caduta del fascismo e la fine del governo di unità nazionale in cui fu partorita la Costituzione attuale. Quello che è stato il punto più alto raggiunto dal popolo italiano in termini non solo di democrazia ma di visione del futuro. Quel futuro non si è realizzato, se non in piccola parte, il ritorno indietro ha prevalso. Ma l’idea non è morta e ogni volta che ne è stata tentata la soppressione ha dimostrato tutta la sua vitalità. Quella che ci incoraggia ancora oggi a combattere senza perdere la speranza.

C’è però un problema di tempi: se arrivassero alle prossime tornate regionali e amministrative senza scegliere, rinviando ogni decisione al dopo, dimostrerebbero di essere ormai rassegnati. Si giocherebbero il tutto per tutto in una corsa in solitaria, una partita senza speranza, assumendosi in tal modo la responsabilità di un ennesimo passaggio a vuoto di una politica che, paralizzata e taglieggiata da poteri eversivi, sta riducendo il paese allo stremo.

Lunedì, 24. Febbraio 2020
 

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