Cinque punti al posto di un brutto DEF

Il Documento di economia e finanza è in perfetta continuità con quelli che l’hanno preceduto, che hanno sprecato risorse senza effetti significativi sull’economia. Eppure la ricetta per uno sviluppo più solido non è astrusa, né complessa, né utopistica e si può riassumere in cinque “pillole”

Il DEF varato dal governo Gentiloni va ad aggiungersi alla lista di atti, varati in questi pochi mesi di vita, che hanno sancito la continuità, si potrebbe definirla pedestre, con il precedente governo Renzi. Non bastasse la riconferma di tutti i ministri salvo una, cui è stato addebitato il calo verticale dei consensi nel mondo degli operatori e degli utenti della scuola a causa della riforma, non c'è provvedimento, anche secondario, da cui non  risulti evidente che la musica non è cambiata. Sola variante, il direttore d'orchestra non ha più lo stile esuberante e le ossessioni da primadonna che portavano ad interpretazioni sopra le righe.

Chi sperava in segnali di novità è rimasto deluso. Senza addentrarci nel dettaglio, si continua lungo le direttrici prevalenti dell'ultimo quindicennio che un ampio settore di politici così come di economisti fortemente critici riassumono nella scelta di una “via bassa” allo sviluppo. Recupero di competitività affidato alla svalutazione interna, alla diffusione del sottosalario, nell'illusione di poter reggere la concorrenza internazionale recuperando produttività solo dal lato dei costi (riduzione del denominatore). Illuminante a questo riguardo la scelta, che ha di poco preceduto il DEF, dell'abolizione dei voucher: l'imperativo categorico essendo quello di evitare il referendum, il governo si è affrettato a promettere che una soluzione equivalente sarebbe stata trovata a breve (riesumare il job on call? Effettuare un lifting di facciata ripristinando con qualche ritocco i buoni lavoro?) usando l'argomento, smentito dalle evidenze statistiche, che il lavoro sottopagato e sottotutelato rappresentasse un argine al lavoro nero e non un incentivo.

A fronte degli insuccessi inevitabili di una strategia così debole, questa linea è stata accompagnata da sovvenzioni a pioggia ai settori marginali dell'economia, che hanno drenato risorse ingenti che si potevano destinare a misure di ben altro impatto sulla crescita. Il DEF, al riguardo, accantona il sogno renziano dell'abbassamento delle aliquote che, se non è la flat tax agognata dall'estrema destra va però in direzione di un ulteriore colpo alla progressività. Non manca di ribadire però la priorità per la riduzione del cuneo fiscale: un titolo del tutto neutro per una misura che, a seconda di come viene configurata, assume significati opposti quanto agli effetti distributivi. Per come si annuncia, in questo caso sarebbe un ulteriore sussidio per le imprese marginali, a cui corrisponderà, al più, qualche briciola a favore dei salari.

Ne è derivato fin qui, e continuerà a derivarne, sul piano della distribuzione del reddito, uno spostamento di risorse dai salari ai profitti, nel solco della più genuina politica “sociale” della destra nelle sue varie espressioni, all'insegna della favola, ammantata di dignità teorica, del “trickle down”, con i suoi corollari: da quelli inevitabili, come l'aumento delle diseguaglianze, a quelli prodotti dalle specificità della realtà italiana, come il cedimento del potere statale nei confronti della criminalità organizzata, sempre più forte anche economicamente, la vasta appropriazione indebita di risorse pubbliche da parte di fornitori della PA e pubblici funzionari tra corruzione e concussione, la sistematica violazione delle leggi in materia di imposte e di lavoro.

La componente europea della politica della destra, all'insegna di ultraliberismo e austerità, ha avuto senz'altro il suo peso nel comprimere i margini di manovra per una politica di sviluppo e avrebbe quindi condizionato qualunque politica alternativa di incentivo allo sviluppo. Ma l'aver dilapidato risorse per seguire questa “via bassa” che ha reso il nostro paese ancora più povero e più debole nella competizione internazionale, dentro e fuori l'Europa, deve essere imputato esclusivamente alla destra italiana, a cui il PD renziano si è serenamente allineato, perfino con qualche accento enfatico.

Se la bilancia dei pagamenti, nonostante la debolezza generale della nostra economia, ha retto ed è perfino migliorata si deve alla resistenza, in alcuni settori chiave, di una parte del sistema produttivo che ha saputo rinnovarsi e guadagnare perfino in competitività, “all'insaputa” della politica dominante. È invalso l'uso di definirlo Capitalismo “del Quarto tipo”, ma sarebbe più corretto definirlo “alieno” rispetto al contesto. Senza contare il fatto che i profitti e le rendite che sono state generate sono andate in misura considerevole a beneficio degli investimenti all'estero, di gran lunga superiori a quelli interni (nella quasi totale assenza di investimenti esteri in Italia).

L'alternativa esiste, è sempre possibile. Ma con il passare del tempo si fa sempre più ardua. Non solo si deteriora e si indebolisce il sistema produttivo nazionale ma si delocalizzano, oltre agli impianti, le risorse umane: non solo quelle che occupavano i posti di lavoro trasferiti nei paesi di destinazione ma anche quelle ad alta qualificazione, in particolare giovani, che non trovano posto in un sistema sempre più dequalificato. E mentre cresce il fabbisogno di risorse pubbliche necessarie a rimettere in moto il sistema produttivo si fanno sempre più stretti i margini di manovra per il peso della rendita parassitaria e dell'economia sub-marginale che drenano risorse sempre più ingenti senza restituire alcun beneficio al paese.

Eppure la ricetta per uno sviluppo più solido e sostenibile in senso sia sociale che ambientale appare, sì, sempre più difficile da far passare, ma non è astrusa, né complessa, né utopistica. È solo dolorosa, per chi ha goduto finora dei benefici di una politica sbagliata. E si scontra con l'ingente “volume di fuoco” che la politica mainstream può sviluppare sul terreno della comunicazione.

Basti pensare al rilievo che viene dato a un tema come la pressione fiscale, una vera e propria “arma di distrazione di massa”. Perché, con la ricetta da adottare, non c'entra un fico secco. Non è proprio all'ordine del giorno, in nessuno dei due sensi: non deve né aumentare né diminuire.

Allora, partiamo proprio da qui, per la ricetta in (5) pillole.

1) Le tasse per i tre quarti dei contribuenti italiani devono diminuire. Con una redistribuzione a spese del restante quarto, il più ricco. A saldo (pressione fiscale complessiva) invariato.

2) Al quarto più basso dei contribuenti e agli incapienti (quelli veri, non gli evasori) vanno destinate risorse, in modo mirato e motivato, per garantire a tutta la popolazione un livello di vita dignitoso (oltre la soglia di povertà e quella di marginalità) e per rianimare al tempo stesso la domanda interna (si tratta della fascia il cui indice di risparmio è pari a 0).

3) Vanno destinate risorse adeguate a sostegno degli investimenti in innovazione, di prodotto e di processo, riservandone una quota significativa per promuovere la diffusione di modi di produzione non solo non profit ma non di mercato, orientati al valore d'uso, e per alimentare un flusso consistente di investimenti pubblici in un grande piano di piccole opere oltre che in poche grandi opere di rilevante ricaduta sociale e ambientale.

4) Il sostegno a una generale ristrutturazione in profondità del nostro sistema produttivo deve prevedere:

– un consistente investimento nel sistema dell'istruzione ponendo fine alla logica mercantilista e utilitaristica che ha preso il sopravvento negli ultimi decenni mettendo al centro la persona, i saperi, riconquistando il primato del pubblico e della laicità;

– un investimento altrettanto consistente (anche se meno pesante sul piano strettamente economico ma impegnativo sul piano culturale) nel fattore umano, nella partecipazione libera, consapevole, responsabile delle persone, lavoratori e lavoratrici, individualmente o in associazione, al processo produttivo e in particolare al suo miglioramento.   

5) Le risorse per questi altri obiettivi vanno reperite con una riconversione radicale della spesa:

– taglio di bonus, incentivi, defiscalizzazioni, detrazioni non riconducibili a questi obiettivi e rivolti a un target selezionato su criteri di consenso elettorale anziché economico-sociali;

– orientamento prioritario della macchina amministrativa all'obiettivo della lealtà fiscale: non solo “lotta all'evasione fiscale” ma rivoluzione culturale: sradicare paradigmi come “evasione di necessità”, “nero di sopravvivenza”, “rimessa in circolo” dei capitali di origine criminale nel circuito dell'economia legale.

Non avendolo esplicitato, va messo in chiaro che due misure occupano un posto centrale in questo quadro, trovando del resto una loro fonte direttamente nella nostra Costituzione:

– il reddito minimo garantito in relazione al sostegno del reddito in caso disoccupazione “involontaria” (art. 38): implica una riconsiderazione, non più rinviabile alla luce dell'attuale stadio di sviluppo tecnologico, del tema della involontarietà (vedi in particolare il punto 2)

– il salario minimo in relazione al diritto a una retribuzione che garantisca un'esistenza libera e dignitosa (art. 36), da applicare alle prestazioni NON coperte dalla contrattazione collettiva (vedi in particolare il punto 4).

Non venga qualche bello spirito a rivendicare qualche mossa, “raccontata” da chi ci ha governato e ci sta governando, come ispirata a queste ricette. Buona scuola, Jobs act, Sblocca Italia, bonus 80 euro e bonus assunzioni, per dire le principali, vanno tutte in direzione esattamente opposta (e ne vediamo i risultati). Se qualcosa, quasi inevitabilmente, va nella giusta direzione (per dire, Industria 4.0”, con 0,028 miliardi destinati alla “Nuova Sabatini”, o il miliardo per il Reddito di inclusione), basta metterli a confronto con i 50 miliardi spesi in bonus elettorali e “difesa del risparmio” per ristabilire il corretto senso delle proporzioni.

Lunedì, 24. Aprile 2017
 

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