Cinque domande sul futuro - Risponde Bersani

Abbiamo rivolto ai candifati alla segreteria del Partito Democratico alcune domande per contribuire a rendere chiaro il contenuto delle diverse posizioni su alcuni problemi fondamentali. Le risposte di Pier Luigi Bersani

La sorte del PD riguarda tutti. Partendo dall’importanza che il dibattito precongressuale nel PD assume per tutto il paese, E&L intende contribuire a rendere chiaro il contenuto delle diverse posizioni che si confrontano su alcuni nodi si cui si appunta in particolare l’attenzione, quanto meno agli occhi dei suoi lettori. Con questo spirito ha rivolto ai candidati alla segreteria del PD alcune domande. Ci sono giunte le risposte di Pier Luigi Bersani e di Ignazio Marino, che pubblichiamo separatamente.

E&L.

Se è vero che, per molti versi, siamo di fronte al peggiore governo di centro-destra nell’Unione europea ma pur con questo il centro-sinistra incontra grandi difficoltà ad imporre una salda e credibile alternativa, la vittoria di Berlusconi ed alleati deve forse essere collocata in una visione storico-politica di medio-lungo periodo, o è fondamentalmente la conseguenza di una competizione gestita in modo "sfortunato" o "sbagliato"dal centrosinistra?.

BERSANI

- Non c'è dubbio che la forza della destra berlusconiana e leghista ha cause profonde. Il berlusconismo non è stato e non è solo costruzione di senso comune. E’ stato ed è anche espressione di una parte di Italia reale, profonda, tanto al Nord quanto al Sud, seppur in forme diversissime. È stato ed è attenta difesa di interessi materiali, di soggetti spaventati, di interessi corporativi di corto respiro. Dietro il successo del berlusconismo c'è la storia lontana dello Stato unitario, ma c'è anche la storia recente dalla fine degli anni '70 al 1992. C'è un quarto di secolo di "crescita senza riforme". Un periodo, dopo il fallimento del compromesso storico, durante il quale la politica costruiva consenso attraverso la spesa pubblica assistenziale e l'evasione fiscale. Mentre le altre grandi democrazie, segnate dall'alternanza di governi, facevano le riforme, noi, prigionieri del nostro sistema bloccato, facevamo debito pubblico e svalutazioni per alimentare una diffusa rete di piccole e grandi rendite a detrimento delle migliori forze innovative nel lavoro, nell'impresa, nelle professioni, nella scuola, nelle università: dalle false pensioni di invalidità, all'evasione di sopravvivenza; dalle pensioni di anzianità alle barriere nell'accesso alle professioni; dal sottobosco di servizi privati garantiti dall'arretratezza delle pubbliche amministrazioni, al credito facile delle banche pubbliche alle grandi famiglie del capitalismo italiano. Crescere a debito è una sciagura economica, come la crisi finanziaria e sociale del '92 e del '95 ed il deperimento del nostro apparato produttivo evidenziano. Ma non solo. E' anche una sciagura etica e politica. Poiché la crescita a debito, in tutti i settori della società, porta alla formazione e selezione di classi dirigenti parassitarie, culturalmente povere, dotate di servilismo, non autonomia creativa, abili nella distribuzione e nell'appropriazione particolaristica di risorse pubbliche. Alimenta una cultura diffusa lontana dal merito, alla ricerca del "favore", dove il premio ed il riconoscimento sociale alla capacità di innovazione è solo accidentale. Per questo è tanto difficile il riformismo in Italia.

E&L.

In ogni caso, come ritiene che si possa ricostruire quell’unità delle forze politiche intorno alla Resistenza e alla Costituzione su cui la Repubblica ha affondato le proprie radici nel mezzo secolo seguito alla fine della guerra e alla caduta del fascismo? Più in particolare, come ritiene si possa recuperare una questione che ha avuto certamente un suo posto centrale tra gli elementi fondanti della Repubblica, per la formazione della coscienza storico-politica: la questione del "dualismo italiano" e la "questione meridionale", che il centrodestra ha definitivamente abbandonata a se stessa, rovesciando completamente l’agenda, iscrivendovi la "questione settentrionale"? In questo quadro, non ritiene che il federalismo fiscale possa presentarsi anche come un’opportunità, ma certamente come una minaccia di deriva anti-unitaria e anti-meridionalistica? Come ritiene che il Pd debba affrontare questa situazione? Quale alternativa politico-strategica pensa di proporre agli italiani?

BERSANI

- La ricetta della destra non può funzionare. La ricollocazione al ribasso dell'Italia determina una società sempre più polarizzata, certo tra Nord e Sud, ma anche bloccata, castale in termini di distribuzione di redditi e di opportunità e sempre meno democratica in termini di diritti civili e politici. È una ricollocazione impossibile, perché esclude larga parte delle classi medie e penalizza la parte più dinamica ed innovativa del lavoro e dell’impresa. Una contraddizione sulla quale il Pd ed il centrosinistra dovrebbero lavorare, consapevoli che tanti elettori votano a destra, rassegnati al berlusconismo ed al leghismo, per assenza di alternative credibili. Non sono antropologicamente diversi e peggiori di noi, come qualche salotto intellettuale continua a sostenere, confortato dall'auto-rappresentazione di illuminata minoranza morale. Sono lavoratori, imprenditori, professionisti attanagliati da problemi, impossibilitati ad aspettare il superamento dei capricci nel centrosinistra. Uno schieramento ripiegato nell'anti-berlusconismo nei 5 anni di opposizione. Paralizzato negli ultimi 2 anni di Governo, nonostante le qualità di Prodi e di alcuni ministri. Sterile oggi in Parlamento, diviso tra le grida demagogiche e lo smarrimento culturale e politico.

Per affrontare efficacemente la contraddizione, il Pd deve superare la lettura ideologica del Paese. La domanda di riforme non è data, strutturata e maggioritaria. Non abbiamo perso solo per limiti, nostri, di offerta programmatica. Limiti soggettivi (leader timidi o inibiti da conflitti interni al Partito o alla coalizione) ed oggettivi (il filtro dei media controllati o allineati a Berlusconi). In realtà, la domanda di riforme è solo in parte già espressa. In larga misura, è solo potenzialmente presente. Per evolvere in compiuta domanda politica ha bisogno di un intenso lavoro culturale, politico, organizzativo. Ha bisogno di un partito radicato nei territori e tra gli interessi. Un partito che non intende solo rappresentare passivamente, ma prova, attraverso un progetto forte e condiviso, ad orientare i bisogni verso le riforme. Un partito con una classe dirigente di qualità.

Il principale problema italiano è se in futuro si potrà ancora parlare di Repubblica una e indivisibile. Molti, dapprima soltanto al Nord e ora anche al Sud, dichiarano apertamente che è meglio fare da soli. Questo spirito di separazione non riguarda soltanto lo squilibrio territoriale, ma pervade il corpo sociale e lo spirito pubblico. Rinnovare il patto di unità nazionale è il compito storico-politico del Partito democratico, è l’anima del nostro progetto. La modernizzazione del Paese è il linguaggio comune di una nuova reciprocità tra Nord e Sud: le riforme che si muovono in questa direzione rispondono alle domande del Nord ma, al contempo, mettono anche in movimento il Sud. Al Sud, la nostra ambizione è quella di pronunciare la parola "Mezzogiorno" in una prospettiva rinnovata. Gli investimenti devono essere garantiti, non rubati, né rapinati né dispersi. Sono necessari meccanismi automatici, non intermediati, per sostenere gli investimenti di impresa e premiare chi raggiunge determinati standard di servizi. C'è bisogno di perequazione delle infrastrutture e dei beni collettivi. Il Sud potrà svilupparsi davvero soltanto se messo in condizione di farlo con le proprie forze. La divisione nasce dalla crisi dello Stato, ormai causa del rancore del Nord e strumento di dipendenza al Sud. Riformare lo Stato quindi, è l'unica via per mantenere unita l'Italia. Il federalismo responsabile e solidale è la rotta da seguire per avvicinare le istituzioni ai cittadini. Esso affonda le radici nel patrimonio delle culture autonomistiche e popolari di cui siamo eredi. Le sfide per l'immediato futuro si chiamano attuazione del federalismo fiscale, razionalizzazione e riforma delle autonomie locali, trasformazione del Senato in Camera delle Regioni e delle Autonomie. Ma lo Stato va anche riorganizzato secondo il principio della sussidiarietà orizzontale, valorizzando le energie di civismo democratico, del terzo settore e del volontariato. Un’Italia unita da Nord a Sud fa bene prima di tutto agli italiani: accresce la nostra ricchezza e la nostra creatività, ci rafforza a livello internazionale. Certamente, il federalismo fiscale è un'opportunità, ma al tempo stesso è un rischio. La Legge delega approvata la primavera scorsa è stata emendata dai principali elementi di incostituzionalità grazie al lavoro del Pd. Rimangono in essa principi inconciliabili con l'unità del Paese, in particolare la "proprietà" territoriale del gettito delle imposte. È decisivo, per affermare un federalismo responsabile e solidale, la corretta definizione qualitativa e quantitativa dei costi standard e dei livelli di perequazione. È decisivo un salto di qualità per le classi dirigenti del mezzogiorno, non solo della politica, ma dell'amministrazione, dell'impresa e della cultura.

E&L

- L’Italia continua a mancare di un sistema universalistico di protezione sociale. Il nostro sistema si fonda su un impianto lavoristico che, tra l’altro, non tiene conto dei profondi cambiamenti nel mercato del lavoro: il lavoro cosiddetto atipico ne risulta doppiamente penalizzato, in termini di precarietà e di protezione sociale. La realizzazione di un sistema adeguato di "ammortizzatori sociali", per quanto continuamente evocato, è rimasto disatteso sotto tutti i diversi governi che si sono succeduti. Al contrario, è continuamente riproposta la questione delle pensioni che è l’unica ad avere avuto una soluzione strutturale con il passaggio al sistema contributivo e la flessibilità dell’età del pensionamento, mentre l’età media effettiva del pensionamento si è progressivamente assestata sui livelli medi europei. Il problema non risolto è piuttosto quello dei lavoratori per i quali è prevista una minore contribuzione con una prospettiva di pensione del tutto insufficiente. Il costo del sistema di protezione sociale in Italia rimane significativamente al di sotto dei grandi paesi con i quali ci confrontiamo, come la Francia e la Germania. Pur in presenza, delle difficoltà connesse all’indebitamento pubblico, è la stessa crisi che rafforza l’esigenza di un compiuto progetto di adeguamento del sistema di protezione sociale. Secondo lei quali possono essere le iniziative capaci di rendere questo problema una priorità dell’agenda politica sia a breve che a medio termine?

BERSANI

- Dobbiamo compiere un'operazione difficile: realizzare contestualmente interventi che universalizzino il nostro sistema di protezione sociale e, al tempo stesso, lo rendano meno risarcitorio e più forte in termini di promozione di opportunità di lavoro. La nostra spesa sociale va gradualmente ri-bilanciata verso funzioni oggi solo parzialmente coperte. Per diventare un Paese meno diseguale l'Italia deve dotarsi di una moderna rete di sicurezza sociale: riqualificare l’intervento pubblico e promuovere una nuova alleanza tra Stato, terzo settore e privati ispirata al principio di sussidiarietà, nella chiarezza delle responsabilità. Riformare il welfare vuol dire superare il dualismo del mercato del lavoro, che colpisce soprattutto i giovani, aprendo dei processi univoci di inserimento e di stabilità del lavoro; sostenere le famiglie e i loro redditi; introdurre un reddito minimo di inserimento; estendere la qualità del sistema sanitario e renderlo sostenibile; aiutare i non autosufficienti. Ma l'obiettivo principale della riforma del welfare consiste nell'innalzare la qualità dei servizi in modo da offrire alle donne una base sicura per affrontare i diversi momenti della vita, dal lavoro, alla maternità, all'istruzione alla cura delle relazioni. Da questa base è possibile promuovere la piena e buona occupazione femminile, superando il pesante divario dell’Italia rispetto agli altri paesi europei e realizzando, così, una condizione essenziale per la crescita e la competitività. Chi non trova lavoro o ha perso il lavoro, dipendente o autonomo, deve poter contare su un sostegno universale al reddito e su efficaci servizi pubblici di formazione e reinserimento. Bisogna occuparsi di salario minimo, anche per vie contrattuali, sollecitare una contrattazione che assicuri il potere d’acquisto e distribuisca meglio i guadagni di produttività. Va garantita nei fatti, e non a parole, la sicurezza nei luoghi di lavoro. L’innalzamento flessibile e volontario dell’età pensionistica va favorito, ma al contempo è necessario estendere la contribuzione figurativa per i periodi di disoccupazione, di formazione o di esercizio di responsabilità familiari per innalzare gli importi delle future pensioni. Queste politiche sono sostenibili con un nuovo patto di fedeltà fiscale, anche per eliminare distorsioni della concorrenza, basato su una più equa distribuzione del carico tra i contribuenti e su meccanismi che inducano l'emersione, la trasparenza, la tracciabilità nella formazione dei redditi e delle basi imponibili.

E&L

- Altra grande questione è quella delle diseguaglianze. In Europa siamo il paese con le maggiori diseguaglianze di reddito e in compenso anche quello con la minore mobilità sociale. Questa contraddizione è rafforzata dall’innovazione silenziosa che comporta una minore regolazione per chi sta in alto nella scala sociale e meno diritti per chi sta in basso. Anche per questa via la società viene, di fatto, ingessata. A pagarne le spese sono soprattutto i giovani. Non a caso i tassi di attività e i tassi di occupazione per i giovani sotto i 30 anni in Italia sono tra i più bassi dell’Europa. Il fatto è che le "nuove leve" italiane sono sensibilmente svantaggiate rispetto ai loro coetanei, non tanto sotto il profilo del benessere economico (al quale bene o male provvede la famiglia) ma sotto quello ben più rilevante dell’apprendimento, della conoscenza, dell’autonomia. Nella ricerca, nell’insegnamento universitario, nelle libere professioni, è difficile entrare. Se non (assai spesso) per raccomandazione e cooptazione. Per questo molti brillanti giovani neolaureati preferiscono andare all’estero. Il paese invecchia, non solo per il basso tasso di natalità, ma anche perché inossidabili corporazioni gerontocratiche presidiano inesorabilmente ogni possibilità di accesso. E un paese che invecchia non può certo avere un radioso futuro. A suo giudizio come, con quali misure, si può avviare una prospettiva diversa?

BERSANI

- L'Italia, più che gli altri Paesi Ocse, è segnata dalla disuguaglianza e dall'immobilità sociale. Ha pesato su entrambi i fenomeni la svalutazione del lavoro, in particolare del lavoro dipendente esplicito e mascherato. L'impoverimento relativo del lavoro dipendente ha coinvolto anche larghe fasce delle classi medie. Le generazioni più giovani dell'universo del lavoro dipendente ed assimilato hanno subito più delle altre a causa di contratti a termine sotto-remunerati, privi di diritti e di tutele fondative della cittadinanza sociale e politica. Tuttavia, in Italia, la lettura prevalente delle dinamiche redistributive è stata fuorviante. È vero che il giovane operaio, quasi sempre figlio dell'operaio data la nostra immobilità sociale, riceve un reddito precario inferiore, in media, del 30% rispetto al reddito del padre. Ma è anche vero che il reddito del padre è fermo, in termini reali, ai livelli del 1993 (la media è poco sopra ai 18.000 euro l'anno). Per affermare una reale eguaglianza delle opportunità occorre una rivoluzione copernicana che ponga al centro il merito e la responsabilità. L'Italia ha bisogno di una nuova stagione di liberalizzazioni: meno barriere di accesso alle professioni, più concorrenza nei servizi, imprese maggiormente contendibili, autorità realmente indipendenti, class-action a difesa dei consumatori. Agli imprenditori che scommettono sull'Italia il Pd deve proporre le riforme necessarie per competere: incentivi per la capitalizzazione, gli investimenti produttivi e la ricerca e sviluppo; un rapporto proficuo con le banche e con la pubblica amministrazione, meno tasse e meno burocrazia; infrastrutture materiali e immateriali degne di un Paese europeo.

Centrale è la funzione della scuola italiana. Essa è chiamata ad aiutare la mobilità sociale, a mantenere unito il Sud e il Nord, a coltivare e praticare l’accoglienza degli immigrati, a rilanciare l’educazione permanente, a ripensare l’insegnamento tecnico per adeguarlo ai modi di produzione contemporanei. Per questo bisogna anche aiutare la scuola a cambiare: lontana dalle burocrazie ministeriali e ricca di autonomie, pronta a riconoscere i meriti, capace di valutare i progressi raggiunti rispetto ai livelli di partenza, generosa nel restituire motivazione civile e professionale ai docenti. Scuola, università e ricerca sono la prima fonte di energia per il Paese. Le università e gli enti di ricerca devono diventare le migliori istituzioni italiane. Ci vorrà molto impegno. Si può cominciare con nuove regole di finanziamento per aumentare i fondi a enti e atenei che raggiungono i migliori risultati scientifici, che sono inseriti nelle reti internazionali e che riconoscono i talenti dei giovani. Anche così si riporta il merito dal cielo alla terra.

E&L

- Infine, tra le questioni aperte, c’è il problema della ricerca di un’etica comunitaria condivisibile da uomini e donne, nel pluralismo di fedi e culture. Condivide la convinzione che questa ricerca sia necessaria per dare fondamento alla democrazia politica e che un’etica condivisa non possa che nascere dalla dialettica delle diverse posizioni e dalla ricerca delle migliori soluzioni possibili per la convivenza sociale, attraverso una mediazione da attuarsi nel rispetto reciproco? Non le sembra che sia contraddetta da rigidi schieramenti confessionali ma anche dalle posizioni che negano in radice la capacità di generare e possedere un’etica? Come pensa che il PD debba affrontare le posizioni di chi tende a rifiutare che valori e convinzioni siano relativi a chi li professa e che, di conseguenza, non possano essere imposti gli altri?

BERSANI

- La carenza di un'etica condivisa è la causa vera del malato bipolarismo italiano. Per definire un'etica condivisa è imprescindibile l'apporto delle diverse fedi religiose, in un'ottica di reciproco ascolto e disponibilità al riconoscimento della propria parzialità. Per arrivare a tale ambizioso risultato bisogna puntare sulle energie civili del Paese che si esprimono ogni giorno nell'impegno sociale, nella partecipazione politica, nel volontariato, nei piccoli gesti di amicizia della vita quotidiana ed emergono con forza nei grandi momenti della vita nazionale, da ultimo nella solidarietà con il popolo abruzzese colpito dal terremoto. Insomma, è necessario praticare una idea solida della laicità, intesa non come negazione dell'orientamento religioso nella sfera pubblica, ma come via maestra di una convivenza plurale. Non è facile. Negli ultimi decenni il rapido sviluppo delle scienze, il movimento e l'incontro di persone, culture e stili di vita su scala planetaria, hanno investito l’umanità con nuovi interrogativi etici. Dove la crescita dell'informazione, della cultura e della responsabilità personale e istituzionale non sono altrettanto veloci, queste straordinarie opportunità di progresso suscitano rapidamente un regresso civile e morale. Ad esempio, avviene quando si affermano la demonizzazione dello straniero e del diverso, nuove forme di sfruttamento, oscurantismo, umiliazioni della dignità della donna, paura del progresso, nuovi fondamentalismi, chiusure identitarie. Questi rischi sono ben presenti nel nostro Paese. Questo è il terreno culturale e morale sul quale costruire un'etica condivisa. Su questo terreno impervio il Partito Democratico intende impegnarsi, contribuendo giorno per giorno, casa per casa, alla crescita e al rilancio di un maturo spirito pubblico italiano ed europeo.

 

Venerdì, 23. Ottobre 2009
 

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