Chi paga il debito pubblico

Al di là della mitologia che lo vede sempre e comunque come un disastro, l’eccesso di debito è un male perché la spesa per interessi sottrae risorse a impieghi più produttivi, ma soprattutto evidenzia la mancanza di volontà politica di distribuire in modo meno sbilanciato il reddito

I recenti eventi portoghesi, l'ampliamento del fondo salva-Stati, la prevista imposizione di un percorso di rientro per i Paesi con elevato rapporto debito/Pil, sono tutte manifestazioni di uno tra gli idola tribus, o mito, che individua nel debito pubblico un pericolo per la stabilità monetaria e più in generale per il benessere collettivo. Altri grandi Paesi, come il Giappone, con un debito/Pil superiore al 200% si apprestano ad accrescerlo per la ricostruzione post-nucleare. Del resto, smentendo molte previsioni, la crisi finanziaria mondiale è nata dall'indebitamento privato.

    

Vien fatto di chiedersi: a) come è nata e come si è sviluppata questa concezione teratologica del debito pubblico; b) quale validità economica ha il mito di cui si è fatto cenno (consacrato nei vincoli di Maastricht) e quali potrebbero essere i veri percorsi virtuosi di rientro senza passare sotto le forche caudine della compressione della spesa pubblica?

 

Nell'800 la borghesia giunta al potere trasferì nel bilancio dello Stato i criteri contabili delle proprie aziende. Fu dunque indicato come obiettivo di base il pareggio di bilancio; ammettendo però il disavanzo di cassa, da chiudere entro l'esercizio, e l'indebitamento per investimenti strutturali, accompagnato da piani di ammortamento da finanziare negli esercizi successivi con il ricorso alla tassazione. Donde l'opinione che l'onere del debito pubblico gravasse sulle "generazioni future".

    

Nel secolo scorso e nei Paesi occidentali il debito pubblico ha avuto un andamento a fisarmonica, per l'alternarsi di guerre, esperimenti keynesiani, politiche di sviluppo a cui si sono contrapposte politiche di rigore e di riequilibrio di bilancio. Due motivi di fondo contribuirono a rafforzare quell'immagine negativa del debito pubblico, poi consacrata nei codicilli di Maastricht.

     - L'opinione delle destre politiche ed economiche che "lo Stato non è la soluzione, ma il problema". Il debito, dunque, rappresenterebbe la via più indolore per espandere la spesa pubblica. L'argomentazione sottostante è quella della pretesa maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico per l'agire della molla del profitto e della scure del darwinismo fallimentare. In realtà nessuna certificata comparazione ha mai confermato il primo assunto, mentre i fallimenti colpiscono di gran lunga di più gli incolpevoli che i responsabili. Parmalat docet.

     - La tesi secondo la quale una dimensione eccessiva del debito pubblico costituisce un rischio per la stabilità monetaria e lo sviluppo. Per quanto riguarda questo secondo punto, gli imprenditori puntarono il dito sul cosiddetto "spiazzamento" (i capitali investiti in titoli pubblici sarebbero sottratti alle aziende private);  ma la mancata controprova statistica ha fatto sì che questa opinione venisse abbandonata.

    

Nei criteri di Maastricht ha prevalso la tesi della difesa della stabilità monetaria, con qualche sottesa diffidenza nei confronti di una espansione della sfera pubblica. La determinazione dei parametri fu caratterizzata da una casualità statistica e da algoritmi basati su previsioni arbitrarie. Il 60% del rapporto debito/Pil è la media non ponderata dei quozienti esistenti nei Paesi allora membri dell'Eurozona. Il 3% del deficit/Pil si basa sull'ipotesi di un tasso di sviluppo nominale del 5% annuo (3% reale con inflazione al 2%): in questo caso il 60% rimane costante, qualunque sia la spesa pubblica rispetto al reddito. Nessun Paese per nessun periodo significativo ha mai registrato un tasso di sviluppo simile a quello ipotizzato.

 

La prima considerazione da fare - che non è sfuggita ad altri osservatori - riguarda la non coerenza di almeno uno dei rapporti che figurano nei vincoli comunitari. Si raffrontano grandezze non omogenee. Mentre il deficit e il Pil sono flussi sincroni, il debito pubblico è un fondo che andrebbe rapportato alla ricchezza nazionale o, più correttamente, al patrimonio pubblico, come si farebbe per un debito privato. E' chiara comunque l'origine monetaristica del parametro: si teme che il debito possa costituire la base per una piramide creditizia atta a turbare la stabilità della moneta. Ma si finge di ignorare che qualunque investimento finanziario può servire a garanzia di un'espansione creditizia, come tragicamente conferma la recente esperienza mondiale.

    

Al di là degli schematismi, non esiste un solo tipo di debito pubblico né un'unica categoria di sottoscrittori. Anche prescindendo dal ventaglio delle scadenze, i sottoscrittori possono essere nazionali o esteri; privati, istituzionali o Fondi sovrani; o ancora cassettisti o speculatori.

    

Qui dunque si evidenziano le differenze. Il debito pubblico Usa è largamente nelle mani di Fondi sovrani cinesi: ciò crea una dipendenza finanziaria, anche se non necessariamente politica. Quello italiano è per il 52% in mani estere e il resto è diviso fra investitori istituzionali e famiglie. Quello giapponese è quasi totalmente nazionale, con sottoscrittori che hanno il tipico comportamento dei cassettisti. Ecco perché le sue enormi dimensioni sono sopportabili, a meno di mutamenti nella psicologia collettiva. Il debito in mano a risparmiatori nazionali sarebbe una partita di giro se le imposte per il servizio del prestito fossero prelevabili dalle stesse categorie economiche: ma non è così, perché una quota rilevante del gettito fiscale ha struttura regressiva (cfr. mio precedente articolo).

    

Il vero spiazzamento generato dall'eccessivo debito pubblico è l'onere per interessi: il flusso di denaro pubblico che va ai rentiers nazionali ed esteri è sottratto a potenziali impieghi sociali o produttivi. Il prevedibile futuro aumento dell'Euribor potrebbe aggravarne il peso. Ma anche una manovra di rientro con contrazione della spesa pubblica ha effetti perversi. Nel 2010 abbiamo pagato una riduzione del 5 per mille del rapporto deficit/Pil rispetto alle previsioni con un calo del 20% degli investimenti pubblici.

 

Il vero aspetto "mostruoso" del debito pubblico non è quello ipotizzato dagli alchimisti di Maastricht né quello del "meno Stato". Esso con il suo padre putativo (il disavanzo) copre l'incapacità o mancanza di volontà della classe politica di procedere ad una massiccia redistribuzione dei redditi, pur di fronte a fenomeni da decenni sottolineati dalla maggior parte degli economisti. Non avendo il coraggio di togliere ai ricchi per dare ai poveri, si adotta la più comoda politica del "todos caballeros". Si tratta di un gigantesco inganno, che mostra la corda quando, in condizioni di crisi, i frettolosi rientri si praticano applicando il rigore proprio a coloro che avrebbero potuto essere in parte beneficiari della manovra redistributiva, come la classe media produttiva e la classe operaia. Sotto questo profilo disavanzo e debito pubblico non sono tanto un rischio o un errore, ma qualcosa di più e di diverso: sono un'iniquità.

    

L'ipotesi di riforma fiscale di Tremonti, basata, secondo lui, su progressività e basse aliquote equivale a desiderare una fidanzata che sia contemporaneamente tarchiata e slanciata. Anche un'ulteriore riduzione della spesa pubblica senza accrescere la pressione fiscale su quei ceti parassitari che sono parte della base elettorale della classe dirigente, prelude ad un aumento del gap di domanda, che, secondo la Confcommercio, frena lo sviluppo del sistema.

 

Governare estraendo conigli o colombe dai cilindri dei ministri dell'Economia dà risultati illusori, ma non rinvigorisce un Paese strutturalmente squilibrato e socialmente stremato.

Martedì, 19. Aprile 2011
 

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