Chi non esporta è perduto

Sotto la frusta della crisi una parte delle imprese, dopo il primo schock, si è riposizionata su segmenti a maggior valore aggiunto e con una politica dei prezzi aggressiva recupera e conquista quote di mercato, specie extra-Ue. Nel primo quadrimestre i migliori risultati verso la Turchia (+52,6%), la Cina (22,5%), l’India (19,8%), i paesi del Mercosur (49,7%)

Con il 2009 è finita una prima fase della crisi iniziata nell’autunno del 2007, la fase cioè che ha visto il crollo della produzione e del Pil in tutto il mondo. Dall’inizio di quest’anno è in corso una nuova fase in cui i principali indicatori dell’attività economica tornano a crescere, ma che definire di ripresa è improprio, vista la tendenza al peggioramento dell’occupazione, soprattutto nel nostro paese. Per cercare di capire come potrà evolvere da adesso in avanti la situazione è opportuno partire dai cambiamenti avvenuti nell’ultimo biennio nel mondo delle imprese, che sono pur sempre le protagoniste dell’attività economica. Di questi cambiamenti, soprattutto dal punto di vista qualitativo, finora non si è parlato molto.

 

Come sottolinea il recente Rapporto annuale dell’Istat, nel biennio 2008-2009 la caduta dei livelli di attività e della produttività è stata più forte in Italia rispetto alla media dell’Unione europea, ma all’interno di questo dato generale è aumentata la diversità di comportamento delle imprese tra loro. Queste differenze di performance e di reazione alla crisi si colgono soprattutto distinguendo le imprese esportatrici dalle non esportatrici. Quando è scoppiata la crisi, nel 2007, il nostro export stava recuperando quote di mercato, dopo le perdite avvenute dalla fine degli anni ’90 fino al 2005. Questo recupero era da imputare al miglioramento delle ragioni di scambio (rapporto tra i prezzi all’export e prezzi all’import) e alle strategie delle imprese, che, da un lato, si sono riposizionate su fasce di prodotti a maggior valore aggiunto e, dall’altro lato, hanno spesso praticato una politica di prezzi all’export accomodante (con aumenti cioè inferiori rispetto ai prezzi praticati sul mercato interno). Una politica quindi volta a (ri)conquistare vecchi o nuovi mercati, cercando di dare una risposta alla duplice sfida lanciata dall’introduzione dell’euro e dalla globalizzazione. Nello stesso periodo avvenivano lente modificazioni del nostro modello di specializzazione, imperniato sui beni tradizionali del made in Italy (prodotti per il sistema-moda e per il sistema-casa) e sulla meccanica, a favore soprattutto di quest’ultima, dei prodotti in metallo e degli alimentari.

 

La recessione mondiale all’inizio ha investito in maniera più forte soprattutto le imprese maggiormente esposte sui mercati internazionali, propagandosi poi al resto del sistema produttivo. Non tutte le imprese sono state però colpite alla stessa maniera: anche durante la fase più acuta della crisi ci sono state imprese che hanno aumentato il fatturato. Questo non solo perché differenti sono le specializzazioni di prodotto e di mercato delle imprese, ma anche perché sono avvenuti profondi processi di ristrutturazione sia all’interno delle singole imprese sia lungo la filiera produttiva. I distretti industriali sono stati tra i più coinvolti da questi processi. La razionalizzazione dei costi – una delle principali risposte delle aziende alla crisi – ha messo in difficoltà, o costretto a chiudere, molte imprese subfornitrici di gruppi leader, che hanno esercitato il loro potere di mercato agendo in maniera asimmetrica sui tempi di pagamento (ossia allungando le scadenze ai fornitori e accorciandole nei confronti dei clienti).

 

Contemporaneamente, anche i gruppi leader italiani hanno dovuto fare i conti con i cambiamenti nei rapporti di forza tra le imprese a livello globale, che in molti casi hanno inciso sulla composizione delle catene di fornitura internazionali. Ciò ha comportato a volte la necessità di compiere scelte apparentemente contraddittorie, come quella di riportare in Italia alcune fasi del processo produttivo – in precedenza decentrate, magari per motivi di costo - per controllarle direttamente.

 

A partire dalla seconda metà dell’anno scorso è poi iniziato un processo di recupero dell’attività industriale, che però, anche qui, non ha coinvolto allo stesso modo tutte le imprese. Ancora una volta sono state le imprese esportatrici a differenziarsi rispetto alle non esportatrici, questa volta in senso contrario, recuperando cioè più rapidamente e tentando di riposizionarsi, anche grazie all’indebolimento dell’euro, sui mercati più promettenti, come quelli asiatici e dell’America Latina. Nei primi quattro mesi del 2010 le esportazioni italiane sono aumentate – rispetto allo stesso periodo del 2009 – dell’8,9% nei paesi extra-UE e dell’8,7% nei paesi UE. Tra i primi, forti aumenti si registrano per la Turchia (52,6%), la Cina (22,5%), l’India (19,8%), i paesi del Mercosur (49,7%). Tra i settori, gli aumenti più consistenti nell’ambito della manifattura (+9,3%) riguardano i beni intermedi e di consumo durevole, come i prodotti petroliferi raffinati, la chimica, la gomma e plastica, i mezzi di trasporto. Meno brillante la crescita dei beni di investimento, a conferma che l’economia mondiale non ha ancora imboccato in maniera decisa la strada della ripresa. Questo significa che per la meccanica - il fiore all’occhiello di molti distretti industriali – c’è ancora da soffrire.

 

Ma naturalmente occorre distinguere tra effetti di breve e di lungo periodo. Sotto questo punto di vista, è sempre l’Istat a dirci che sta continuando il processo di lenta modifica del modello di specializzazione, con l’aumento delle esportazioni dei settori ad alta tecnologia, la cui quota – misurata su un ampio campione di imprese – sarebbe passata tra il primo bimestre 2008 e il primo bimestre 2010 dal 6,8 all’8,5% del totale delle esportazioni.

 

In ultima analisi, durante la crisi fattori strutturali di trasformazione, come il maggior orientamento verso i prodotti a più alto contenuto tecnologico, si sono mischiati a elementi di cambiamento dettati dalla necessità di far fronte alle esigenze più immediate, spesso in una logica di pura sopravvivenza. Il volto che avrà il sistema industriale italiano alla fine di questo nuovo, intenso processo di ristrutturazione non è facilmente immaginabile. Si può però ragionevolmente pensare che saranno soprattutto i processi di internazionalizzazione a dettarlo, anche perché il grado di integrazione a livello globale delle imprese italiane è destinato ad aumentare. D’altra parte le esportazioni, in un momento in cui la manovra del governo tenderà gioco forza a deprimere la domanda interna, sono l’unica arma rimasta al paese per rilanciare la propria economia. Peccato solo che la politica economica non pensi minimamente a questo, e che le imprese italiane debbano far fronte alle sfide internazionali fidando soltanto sulle proprie strategie.

Giovedì, 17. Giugno 2010
 

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