Chi assume immigrati non delocalizza

Da recenti indagini risulta che l’utilizzo di lavoratori stranieri, che costano meno, è spesso un’alternativa allo spostamento della produzione all’estero. Inoltre il loro afflusso è determinante per le imprese dei settori manifatturieri tecnologicamente meno avanzati, molte delle quali altrimenti chiuderebbero

Sopraffatti dall’ondata emotiva che suscita ogni sbarco di immigrati a Lampedusa, non abbiamo ancora riflettuto abbastanza sull’impatto delle migrazioni sulla nostra economia. Non basta infatti dire che gli immigrati consentono di far fronte ai problemi d’invecchiamento della popolazione e alla necessità di coprire nel mercato del lavoro quelle mansioni che gli italiani non sono disposti a svolgere. Né ricordare che interi pezzi dell’economia e del welfare, come l’assistenza ai bambini e agli anziani, dipendono in larga misura dagli extra-comunitari. E nemmeno sostenere che il PIL prodotto dagli occupati stranieri pesa per più dell’11%, con punte del 23% nelle costruzioni, del 14,5% in agricoltura e del 13% nell’industria. Sono tutte cose arcinote e documentate, che comunque è bene non dimenticare, come invece sembra fare quella parte dell’opinione pubblica accecata dalla retorica xenofoba.

 

Ci sono anche altri effetti importanti determinati dalla relativamente abbondante disponibilità di forza lavoro straniera sul mercato del lavoro. Questi effetti impattano direttamente sul nostro sistema produttivo e sulle strategie delle imprese. In particolare sono due i temi da considerare, su cui, tra l’altro, esiste un’ormai consistente letteratura economica, ma che ancora non trovano spazio nell’anedottica dei mass media.

 

Il primo tema riguarda i cambiamenti che possono avvenire nei settori produttivi e all’interno delle imprese, partendo dal presupposto che, per la maggior parte, i lavoratori immigrati sono scarsamente qualificati - o quanto meno, anche se istruiti, sono disposti a svolgere mansioni poco qualificate - e costano meno alle imprese del personale italiano. Come documentato da più fonti, tra cui Banca d’Italia e Confindustria, questi lavoratori tendono ad affluire soprattutto verso i settori tecnologicamente meno avanzati dell’industria manifatturiera, come quelli tradizionali (tessile-abbigliamento, pelli-cuoio-calzature, legno e mobili, alimentare), e verso le piccole imprese, che hanno una maggior quota di operai e impiegano meno laureati. Sappiamo che entrambe queste caratteristiche sono tipiche del sistema industriale italiano, che si distingue rispetto agli altri paesi avanzati per un livello tecnologico meno elevato e un minor ruolo delle aziende di grandi dimensioni. Sono caratteristiche che potranno evolvere nel tempo, ma molto lentamente, e dalle quali dipende la domanda di lavoro da parte delle imprese. Di qui l’immediata conseguenza che, comunque, a prescindere dalle questioni demografiche, di immigrati avremo sempre notevole bisogno in Italia, con buona pace delle tentazioni xenofobe, e che quindi ci dobbiamo attrezzare per accoglierli nel modo migliore. Se non altro, per ragioni di efficienza produttiva.

 

Il secondo tema considera la relazione tra immigrati e delocalizzazione della produzione (vedi, tra gli altri, Barba Navaretti, Bertola, Sembenelli, 2008). Come mostrano alcune rilevazioni condotte su dati aziendali (vedi Capitalia per il periodo 2001-2003 e UniCredit/Progetto Efige per il triennio 2007-2009), le imprese che trasferiscono all’estero parte della produzione tendono in generale ad avere, in patria, una quota minore di immigrati. La stessa cosa avviene spesso anche per le semplici imprese esportatrici, che hanno in generale una quota maggiore di personale maggiormente qualificato e più istruito. In larga parte dell’opinione pubblica si tende quasi sempre a vedere sotto una luce negativa le imprese che delocalizzano per ridurre il costo del personale, perché distruggono posti di lavoro in Italia. Quella stessa opinione pubblica spesso e volentieri è anche contraria all’ingresso degli immigrati. Ma la contraddizione è evidente: se si vogliono tenere più produzioni all’interno dei confini nazionali, bisogna essere disposti ad accettare l’ingresso di lavoratori stranieri. Di questo potranno avvantaggiarsi gli stessi lavoratori nazionali (benché non in diretta concorrenza con gli stranieri), che vedranno salvaguardati i loro posti di lavoro. Quando infatti si trasferisce all’estero la produzione, si finisce con il decentrare anche altre funzioni aziendali (amministrazione, logistica, acquisto di servizi e prodotti intermedi, ecc.), spesso occupate dagli italiani.

 

Si obietterà che la riduzione del costo del lavoro ottenuta spostando la produzione all’estero è superiore a quella che si ha impiegando extra-comunitari in Italia. Tuttavia, anche qui occorre tener conto della dimensione media delle nostre imprese. Una azienda con pochi addetti difficilmente può trasferire la produzione all’estero, ma può rimanere competitiva impiegando gli immigrati in Italia. In alternativa, rischia di chiudere.

 

 

 

Queste considerazioni servono forse a vedere sotto una luce diversa l’impatto degli immigrati sul sistema produttivo italiano, ponendolo in relazione ad altre variabili. La conclusione è che, da un lato, gli immigrati hanno un peso rilevante in un sistema in cui contano molto i settori tradizionali e le piccole imprese e che, dall’altro lato, l’ingresso di personale straniero può costituire, in certi casi, un’alternativa alla delocalizzazione.

Sabato, 30. Aprile 2011
 

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