Cancun e l'impero del Nord

Il fallimento della riunione dell'Organizzazione mondiale del commercio apre una nuova fase nei rapporti fra Nord e Sud. E rilancia la riflessione sulla globalizzazione
Sono passati appena quattro anni dalle manifestazioni di Seattle, quando per la prima volta la globalizzazione fu messa sotto accusa come strumento di sfruttamento dei paesi e delle popolazioni più povere della terra. Quelle manifestazioni, represse dalla polizia a cavallo in tenuta nera antisommossa furono bollate come un disperato rigurgito di anarchismo mescolato a spirito conservatore, incapace di cogliere i cambiamenti della storia. Una sorta di jacquerie, come se ne vedevano nei secoli passati in Europa, animate da schiere di contadini vessati e affamati dai proprietari delle terre. Ma era una diagnosi autoconsolatoria, miope e sbagliata.

Il fallimento di Cancun è il sintomo del fatto che, sottoposta alla critica militante delle organizzazione della società civile e a quella intellettuale e accademica proveniente da alcuni dei grandi santuari universitari del mondo anglosassone, la globalizzazione ha perduto la connotazione di evento quasi naturale, inarrestabile e progressivo che aveva abbagliato anche una parte non piccola della sinistra italiana. Il famoso “consenso di Washington”, una sorta di teologia fondata sulla triade liberalizzazione, privatizzazione, apertura dei mercati, si è rivelata, con la crisi del sudest asiatico prima e la catastrofe argentina poi, un fallimento pratico oltre che teorico.
 
La novità inattesa di Cancun stava nel fatto che i paesi del sud hanno deciso di andare oltre la denuncia dei mali della povertà per presentare analisi, proposte, piattaforme precise, chiare, che tutti potevano capire e giudicare. La messa non era più in latino. La denuncia questa volta era circostanziata, e i paesi del nord si sono trovati sulla difensiva. Dal momento che la filosofia portante della globalizzazione è l’apertura dei mercati, come avrebbero potuto i paesi ricchi continuare a sostenere in punta di principio la razionalità e i vantaggi del libero scambio, se continuavano a sussidiare la propria produzione agricola con trecento miliardi di dollari l’anno (e Bush ha impudicamente aumentato i sussidi nel 2002), chiudendo i loro mercati interni, vendendo in dumping la sovrapproduzione e mandando in rovina i contadini dei paesi poveri?
 
Stati Uniti ed Europa avrebbero potuto ammettere che l’apertura dei mercati pone problemi di equilibri economici e sociali anche al loro interno. Ma avrebbero dovuto, al tempo stesso, riconoscere che la critica era fondata e ragionevole, e che il negoziato doveva aprirsi con l’assunzione di impegni concreti nella direzione rivendicata dal nuovo blocco dei 21 paesi guidati dal Brasile col sostegno dell’India e della Cina.
Poi l’esempio più clamoroso e la prova finale della miopia dei paesi ricchi si è avuta a proposito della (mancata) trattativa per l’abolizione dei sussidi ai produttori di cotone americano. Sono poche migliaia che beneficiando di quattro miliardi di dollari l’anno a titolo di sussidi, inondano il mercato di cotone sottocosto, riducendo alla fame dieci milioni di contadini di alcuni paesi dell’Africa centro-occidentale che hanno nel cotone la loro principale risorsa.
 
L’aspetto paradossale della vicenda è che, in casi concreti come questo, i fautori della sovranità dei mercati negano gli stessi fondamenti teorici del libero scambio. La classica tesi ricardiana che pone alla base del libero scambio la teoria dei “vantaggi comparati” è basata sul fatto che ciascun paese ha interesse a concentrarsi sulla produzione di quei beni che al suo interno produce con più efficienza.
La teoria si applica oggi con difficoltà a quella parte preponderante del commercio internazionale che si svolge, più che fra paesi, all’interno stesso della grandi imprese multinazionali. Ma il caso del cotone è classicamente quello che dimostra la validità dell’interscambio commerciale, lasciando produrre ad alcuni paesi quei beni che, per la loro vocazione agricola e per le loro condizioni naturali e di sviluppo, sono producibili col vantaggio di minori costi rispetto ad altre possibili produzioni. Ma Bush conta una parte importante del suo elettorato tra i grandi produttori agricoli e i loro favolosi contributi al partito repubblicano sono essenziali per la campagna elettorale del 2004.
Tuttavia, a Cancun quello sul protezionismo agricolo dei paesi ricchi non era l’unico terreno di scontro. I paesi del nord, con l’Unione europea in prima fila, avevano fra le loro rivendicazioni la liberalizzazione degli investimenti nei paesi emergenti.
 
Quello degli investimenti è un tema apparentato alla privatizzazione e alla liberalizzazione dei servizi. In sostanza, alla possibilità delle grandi imprese tansnazionale di occupare gli spazi che interessano i servizi pubblici dei paesi emergenti, dalle telecomunicazioni all’energia, alle poste, all’acqua, ai servizi di carattere sociale come l’istruzione, la sanità, i Fondi pensione. Dopo la liberalizzazione del mercato delle merci e dei capitali, i mercati dei servizi rappresentano, infatti, il passaggio decisivo alla globalizzazione del capitalismo del nord. La conseguenza è l’annullamento pratico di ogni capacità di gestione economica e sociale da parte dei governi nazionali e la definitiva affermazione di una sorta di neocolonialismo economico che entra nei paesi emergenti nel modo più naturale, senza bisogno di cannoniere e di basi militari, come accadeva nella fase della globalizzazione legata all’espansione degli imperi coloniali alle fine dell’Ottocento.
 
Ma come reagiscono gli Stati Uniti di fronte alla messa in discussione della loro incondizionata egemonia sul processo di globalizzazione? La risposta ricorda quella dei bambini che minacciano di non giocare più perché, essendo abituati a vincere, gli capita di sperimentare l’amarezza della sconfitta. Minacciano di ritirarsi dall’Organizzazione e procedere con accordi bilaterali. Ricompare la scelta “rumsfiediana”, sperimentata in occasione della guerra irachena, dell’unilateralismo, come principio di regolazione dei rapporti internazionali. Gli stati Uniti farebbero anche sui terreni del commercio estero accordi “con chi ci sta”. E, naturalmente, con i paesi amici, disponibili ad accettare le regole dell’impero. Accade così che negli ultimi mesi abbiano fatto accordi commerciali con l’Australia, favorevole alla guerra in Iraq, ma non con la nuova Zelanda e il Cile che si sono dichiarati contrari.
 
Dopo Cancun la globalizzazione non è più nelle mani dell’impero del Nord e sotto l’egemonia di Washington. La Cina e l’India che da sole rappresentano il 40 per cento della popolazione mondiale, per la prima volta hanno assunto un ruolo determinante nel confronto tra i paesi emergenti e l’impero del nord. La Malesia, considerata in passato sovversiva per aver respinto le prescrizioni del Fondo monetario internazionale, ha acquistato peso e prestigio nel sud est asiatico.
 
Ma il fatto nuovo e suscettibile di grandi cambiamenti si verifica nel “cortile di casa” degli Stati Uniti. L’America del sud ha scoperto nel presidente Lula una capacità di leadership e una vocazione alla unità strategica del subcontinente che richiama alla memoria i padri dell’indipendenza della regione latino americana. Il Brasile ha guidato con paziente intransigenza il “gruppo dei 21” che ha occupato la scena centrale nella disputa sul protezionismo agricolo.

Ma non basta. Immediatamente dopo l’insediamento, Lula da Silva ha cominciato a lavorare a un doppio obiettivo: il rilancio del Mercosur – che la crisi argentina stava mandando in frantumi – e una nuova coalizione comprendente l’Alleanza andina, un raggruppamento rimasto inattivo. La nuova colazione, comprendente, fra gli altri, Cile, Perù, Colombia e Venezuela è in grado di rovesciare i termini del rapporto con gli Stati Uniti, ansiosi di concludere un trattato di libero scambio a livello continentale, rafforzando il ruolo regionale nei processi negoziali con la potente controparte del nord.
 
In un importante saggio comparso su Harpers nei mesi scorsi (“The economics of empire”), William Finnegan mette al centro della sua analisi questa affermazione: ”La verità è che nessun governo pratica il libero scambio. Si tratta di un credo, una chimera, un concetto utopico... con i quali mettere nel sacco gli avversari politici e i concorrenti economici”. In effetti, questo non significa che l’apertura dei mercati non sia utile. La Cina, ma anche l'India sono un esempio di incrocio fra aperturismo e protezionismo. Dani Rodrick, economista di Harvard, sintetizza limpidamente la questione, quando afferma: il libero scambio è un fine e un risultato non una precondizione.
 
Finora Washington aveva trasformato le istituzioni di Bretton Woods, immaginate da Keynes, come strumenti di cooperazione internazionale per uno sviluppo stabile, equo e diffuso, in potenti strumenti di governo per conto dell’impero del nord sul resto de mondo. Dopo Cancun, una fase della globalizzazione, con le sue mistificazioni e i suoi ingannevoli bagliori, si chiude. I problemi che Cancun non ha risolto rimangono tutti aperti, spesso drammaticamente, ma è diventato chiaro e trasparente che bisogna imboccare altre strade per risolverli. I movimenti hanno avuto politicamente ragione. La critica delle idee di intellettuali, accademici, premi Nobel del nord e del sud del mondo hanno avuto effetto nel demolire il “pensiero unico”.
 
Le centinaia di ONG che, insieme con i movimenti, si sono impegnati su questo terreno sono il nuovo sale di una battaglia democratica e progressista - questa sì a livello globale - che spesso vede le forze tradizionali della sinistra chiuse in una disperante abulia intellettuale e politica.
Giovedì, 25. Settembre 2003
 

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