Bush, la vittoria di un non-centrista

Il presidente più votato ha ottenuto il successo non smorzando i toni e inseguendo gli 'incerti di centro', ma non cedendo un millimetro dalle sue posizioni e riproponendo in modo radicale i suoi valori

La schiacciante vittoria di Bush ha gettato nello sconforto metà dell'America e una grande parte dell'Europa. Jean-Marie Colombani, direttore del Monde apriva il suo commento, riservato ad occasioni particolarmente importanti, affermando: "C'è poco da dire sulla rielezione di George Bush. Si tratta di una cattiva notizia: per l'Europa come, senza dubbio, per il resto del mondo".

Col passare dei giorni i commentatori hanno cominciato a interrogarsi sul futuro della politica americana, della guerra in Iraq e sui rapporti fra Europa e Stati Uniti. Da una parte si sostiene che proprio la dimensione della vittoria potrebbe spingere la nuova amministrazione verso una linea pragmatica, meno ideologica, favorendo nuove relazioni internazionali e una via d'uscita dal pantano iracheno insieme con una ripresa del dialogo israelo-palestinese. Secondo altri, questa ipotesi è illusoria e ingannevole. Bush ha allargato il suo potere, ha chiesto un mandato, come scrive l'Economist,  per continuare sulla sua linea e l'ha ottenuto. Ora "il lavoro deve essere portato a termine". Chi è d'accordo è invitato a collaborare. Questo vale per i democratici americani, come per gli europei. In ogni caso, non passerà molto tempo per sciogliere il dilemma. Oggi è il tempo dell'attacco a Falluja. Poi si vedrà se sarà possibile trasformare Allawi che collabora alla distruzione delle città sunnite, in un capo riconosciuto dell'Iraq.

Intanto, conviene tornare a riflettere sul risultato elettorale e sull'origine dello smacco democratico. Qual è l'origine del successo di un presidente uscente che ha portato il paese in una guerra motivata da riconosciute menzogne e dalla quale non s'intravede una via d'uscita? La prima responsabilità è stata attribuita alle caratteristiche di Kerry: al suo grigiore, alla mancanza di fascino personale e di carisma politico. Alla sua campagna incerta, oscillante fra la denuncia dei fallimenti economici e la critica alla guerra "sbagliata", più che a un progetto costruttivo e mobilitante. In definitiva - è stato detto - una campagna ispirata più al sarcasmo di Michael Moore che non a a conquistare gli indecisi, togliendo voti al fronte repubblicano.
 
Ma questa tesi non è convincente. Kerry aveva vinto i tre confronti televisivi, ha riportato più voti popolari di Clinton e di Gore, e ha conquistato il 54 per cento dei nuovi elettori. La vittoria di Bush non può essere addebitata alla presunta debolezza di Kerry, ma alla diversa capacità di mobilitazione dei due schieramenti. I repubblicani, guidati da Karl Rove, il principale consigliere per la politica interna del presidente, soprannominato il "cervello" (i maligni aggiungono: di Bush), ha scelto una linea di scontro radicale, con una campagna impostata su formule nette, semplificate, prive di sfumature. Su questo concorda la grande stampa americana, come quella europea. "Karl Rove - ha scritto Le Figaro - ha convinto il presidente a scegliere una strategia estrema: ignorare gli indecisi, disinteressarsi del centro per mobilitare la destra. Piuttosto contare sulle proprie forze che non indebolirle, credendo di allargarle". Una strategia che le teorie del consenso elettorale considerano generalmente sbagliata, criticata anche all'interno dei repubblicani, perché suscettibile di allontanare i voti moderati, ma che si è dimostrata vincente.

La tesi di Rove - l'architetto di tutte le campagne elettorali di Bush - è che i voti fluttuanti si conquistano con posizioni forti, non mediane e, come si dice, centriste. Gli obiettivi debbono espressi con semplicità ma essere al tempo stesso stimolanti e mobilitanti. Non c'è spazio per essere titubanti e per fare concessioni. Sulla guerra all'Iraq, nessuna posizione difensiva: "l'America è più sicura senza Saddam". Sui tempi dell'impegno militare e l'inizio del ritiro delle truppe, nessuna promessa, che sarebbe apparsa una concessione agli avversari, ma: "quando avremo finito il lavoro". Su sanità e pensioni: "bisogna dare a tutti la possibilità di fare scelte libere dall'interferenza statale". E così continuando su posizioni che non cercano mediazioni. Ciò che conta, in questa prospettiva, è la mobilitazione delle forze potenziali che sono nel serbatoio dei voti conservatori e che, per uscire dall'apatia, dal disinteresse per la politica considerata tutta uguale e inaffidabile, hanno bisogno di discorsi lineari, chiari e forti.

Si è detto che ha vinto la proposta che si basava sui valori morali: "Dio, patria e famiglia". Ma anche questa è una spiegazione che spiega troppo e troppo poco, al tempo stesso. David Brooks, commentatore del New York Times, fa osservare che, quando negli exit poll si chiede se le scelte morali abbiano avuto un peso nella determinazione del voto, è del tutto improbabile che un elettore risponda negativamente. In fondo, si è contro l'aborto o contro i matrimoni gay, come a favore della guerra, anche sulla base di quelli che ciascuno ritiene i propri valori morali o religiosi. Non c'è dubbio che la campagna radicale imposta dalla strategia repubblicana abbia contribuito a mobilitare le chiese anglicane e la parte cattolico-conservatrice (alcuni vescovi hanno proposto di scomunicare Kerry per aver detto che la questione dell'aborto riguarda innanzitutto "il rapporto fra ciascuna donna, dio e il proprio medico"). Le chiese hanno avuto certamente un ruolo nella mobilitazione repubblicana, ma il voto non può essere letto come la pura contrapposizione fra l'America "bigotta" del profondo sud e delle grandi pianure e l'America laica delle coste del nord est e dell'ovest. Brooks osserva che Bush ha aumentato i voti in 45 Stati su 51 e, sorprendentemente, anche negli stati di New York e del Massachusetts.

Quando l'elettore sceglie un candidato lo fa anche per i "valori" (non importa se effettivi o discutibili) attribuiti alle sue posizioni. Il successo di uno schieramento sull'altro dipende dalla chiarezza e dalla forza con la quale riesce a dare dignità di "valori" alla propria piattaforma. Da questo sottile intreccio fra candidati, progetti e valori dipende, in ultima analisi, la capacità di mobilitazione non degli elettori già acquisiti, ma di quella parte dell'elettorato restia a impegnarsi, più scettica e abulica e, tuttavia, decisiva, per fare la differenza.

I repubblicani e i democratici si dividono da sempre l'elettorato americano più o meno in proporzioni stabili: John Kennedy vinse nel 1961 col 49 per cento dei voti, Clinton vinse il secondo termine ancora col 49 e Gore prevalse nel voto popolare col 48 per cento, non ostante lo "scippo" decretato con un voto di maggioranza dalla Corte suprema - che, per inciso, Bush potrà modellare a sua immagine nel prossimo quadriennio. Il successo e l'insuccesso dipendono dalla capacità di smuovere il proprio serbatoio di voti potenziali. I repubblicani ci sono riusciti, al di là di ogni previsione, ponendo alternative nette, per quanto semplificate e "populiste". I democratici hanno fallito. Ma non perché il partito non abbia valori a cui appellarsi: l'idea della solidarietà, della tolleranza, della giustizia sociale, dell'eguaglianza, della cooperazione internazionale, come presupposto di una lotta efficace contro il terrorismo.

Il problema non è la mancanza di valori nel campo progressista. Ma piuttosto l'incapacità di declinarli e farli vivere come programmi concreti, credibili e mobilitanti. Ciò che non si realizza in qualche mese di campagna elettorale, ma facendone la piattaforma naturale e operante dello schieramento (partito, sindacati, associazionismo, intellighenzia) che quei valori ha nel proprio patrimonio storico. In questo il partito democratico (e non Kerry, o non solo lui) ha fallito, non ostante i risultati fallimentari dell'amministrazione Bush-Cheney.

Scrive Thomas Frank sul New York Times: "I democratici "triangolano, mediano, si dichiarano fedeli alla religione repubblicana del mercato, firmano il Nafta e la riforma del welfare, si dichiarano più falchi dei militaristi repubblicani. E perdono…Si sono innamorati della tesi che, essendo giunta al tramontato l'era industriale, il partito deve dimenticare la classe operaia (i "blue collar workers") e i suoi problemi, per abbracciare i nuovi ceti professionali". E non a caso, come osserva Le Monde, i democratici "hanno perduto punti decisivi tra gli operai, gli ispanici (che spesso occupano i posti di lavoro più precari) e i neri". In sostanza, la contrapposizione non è tra un'America dei "valori" e una che ne è priva, quanto nel modo di farli vivere, di tradurli in proposte chiare e semplici, di conferirgli concretezza e credibilità. Se i democratici si limiteranno a cercare alibi nell'ignoranza e nel fondamentalismo religioso - che pure esistono - di una metà degli elettori, o se cercheranno di inseguirli sullo stesso terreno, rischieranno un lungo ciclo di sconfitte, pericoloso per l'America e per il resto del mondo.

Se viene una lezione dall'America, è che deve essere messa in discussione la "saggezza convenzionale", in Italia largamente dominante a sinistra, secondo la quale si vince adottando posizioni sfumate, che dicono e non dicono, che negano la contrapposizione. La ricerca del "centro" come un astratto luogo della topografia politica non mobilita gli indecisi, difficilmente incide sullo schieramento avverso, mentre disarma il fronte interno in mancanza di un progetto politico espresso in modo chiaro, netto, radicale. Dove radicalità non significa estremismo, ma appunto chiarezza, nettezza, trasparenza delle posizioni e dei valori che ne sono alla base.

Martedì, 9. Novembre 2004
 

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