Nel voto irlandese, che blocca la strada del Trattato di Lisbona, cè qualcosa di paradossale e perfino di irritante. Meno di un milione di No ferma il cammino verso la riforma delle istituzioni europee che riguarda quasi mezzo miliardo di cittadini. Si è detto, dopo i primi momenti di costernazione, che si va avanti lo stesso. Ma non è così semplice: un trattato internazionale deve essere approvato da tutti i paesi che sono allorigine del patto. Mettiamo che gli altri 26 ratifichino il Trattato, cosa succede dellIrlanda? Tecnicamente il Trattato è morto. Politicamente si può chiedere di rifare il referendum come nel 2001, quando lIrlanda bocciò il trattato di Nizza per ratificarlo un anno dopo con un secondo referendum, sulla base del fatto che era stato aggiunto un protocollo che prevedeva alcune deroghe. Un via difficile. Allora aveva votato una frazione esigua dellelettorato, ora è stato superato il 50 per cento, lalibi della scarsa partecipazione non funziona, né si saprebbe quali deroghe aggiungere. Bisognerebbe decidere, ma sarebbe un rivoluzionamento politico, senza base giuridica, che i paesi che sono contrari escano dallUnione.
Ma, a questo punto, la domanda che si pone è unaltra, e va ben oltre un rompicapo di carattere tecnico. Si può considerare il voto irlandese un fastidioso incidente di percorso? La risposta non è né semplice, né rassicurante. LIrlanda è solo la spia di un malessere più grande. Mettiamo che la Gran Bretagna fosse stata chiamata al referendum, il risultato sarebbe stato un No scontato e molto più pesante. Il pericolo è stato scongiurato dallimpegno di Gordon Brown che, dopo un dibattito durato due mesi alla Camera dei Comuni, è riuscito a tramutare limpegno al referendum assunto da Blair al tempo del trattato costituzionale in un voto parlamentare che dovrebbe tenersi nei prossimi giorni, in questo caso con un esito positivo.
E che dire della Francia? Sarkozy ha sostenuto che essendo passati a un minitrattato fatto di emendamenti ai vecchi trattati, non era più necessario promuovere un altro referendum dopo quello che nel 2005 vide la vittoria dei No. Ma largomento non ha un effettivo fondamento, perché il Trattato di Lisbona ripete nella sostanza quello costituzionale, semplicemente confondendo le carte e rendendo illeggibile il documento. Se i francesi fossero chiamati a esprimersi in un referendum il risultato sarebbe ancora dubbio, e questo vale per molti altri paesi, a cominciare dalla Repubblica Ceca, che dopo il risultato di Dublino ha sospeso la ratifica parlamentare.
Il No irlandese è la spia di un problema tutt'altro che banale. Una vasta parte della popolazione europea non è necessariamente contro lUnione ma, se chiamata a esprimersi, si schiera contro la politica dellUnione. La differenza è decisiva. La maggioranza degli europei è, secondo sondaggi di opinione, contro la politica di Bush, ma non è antiamericana. In Europa è successo in questi anni del nuovo secolo qualcosa di analogo. La maggior parte dei francesi che votarono No non erano contro lUnione, che è anche una loro creatura, ma contro la sua politica, considerata poco sociale. Il distacco è cresciuto, senza che Bruxelles si preoccupasse di porvi riparo. Lunica soluzione trovata dai capi Stato e di governo è stata di non sottoporre le scelte dell'Unione al voto popolare (lIrlanda vi era purtroppo obbligata per ragioni costituzionali). Un modo di nascondere la testa sotto la sabbia.
Si afferma che cè un deficit di democrazia, di trasparenza, di comunicazione, in definitiva di identità. A forza di ripeterlo si presenta come una verità inoppugnabile. Ma è proprio così? Unidentità lUnione se lè progressivamente data, ed è molto forte. E sempre di più un grande mercato in continua espansione. Da 15 a 25, a 27, prossimamente a 30 o 35, quando avremo inserito i frammenti balcanici ex jugoslavi. Una federazione o qualcosa di simile deve essere caratterizzata da unidentità di visione politica. Un grande mercato non ne ha bisogno. Ma non può fare a meno di regole e di una potente tecnocrazia in grado di amministrarle. LUnione europea ha regole per la gestione del mercato e autorità indipendenti preposte al loro funzionamento. La Banca centrale europea è la più potente del mondo nellamministrazione della politica monetaria, ed è sciolta da ogni riferimento politico. La sua posizione è dogmaticamente indiscutibile. Se un governo solleva qualche questione è accusato di lesa maestà. Lobiettivo unico è la stabilità monetaria, come garanzia del funzionamento del mercato. Poco importa se la zona euro, la seconda potenza mondiale, cresce a ritmi incredibilmente bassi.
La Commissione europea è custode del trattato di Maastricht che impone il pareggio del bilancio a prescindere dalle condizioni economiche generali: una politica che potrebbe essere obbligata per lItalia indebitata fino al collo, ma non per gli altri normali paesi europei. Oggi, mentre si riducono le prospettive di crescita, la politica dell'asse Francoforte-Bruxelles è del tipo che gli economisti definiscono pro-ciclica: in altri termini, che asseconda la congiuntura negativa invece di intervenire per correggerla. Non è mancanza di politica, ma la scelta di una politica che affida solo al mercato il funzionamento generale delleconomia.
Il mercato torna quando a Lisbona, insieme con la firma del trattato, la Commissione europea fa passare la nuova categoria della "flessicurezza, orrendo neologismo, per chiedere più flessibilità nel mercato del lavoro. Piccoli o grandi inganni semantici che il popolo non dovrebbe essere in grado di capire. E solo la settimana scorsa, il Consiglio dei ministri (del lavoro) toglie il vincolo delle 48 ore medie settimanali, se limpresa ottiene laccordo individuale del lavoratore a lavorare fino a 60-65 ore settimanali. A Bruxelles la riduzione del ruolo della contrattazione collettiva rientra nella modernizzazione del diritto del lavoro. Si afferma che lUnione non ha unidentità politica. Gli esempi portati attestano il contrario. Si sostiene che lUnione non sa comunicare. In effetti, lo scontento e la frustrazione che si rivela ogni volta che è possibile, attestano che la politica di Francoforte e di Bruxelles non è affatto misteriosa. Risponde a unideologia che nel resto del mondo, perfino negli Stati Uniti, è considerata in crisi.
Si risolverà la questione irlandese? Forse sì, in un modo o nellaltro. Ma come sintende affrontare la più generale questione europea? Si torna a parlare della necessità di unavanguardia che porti avanti il disegno europeo. Unavanguardia di Stati che si ritagli uno spazio proprio allinterno delle istituzioni europee. In termini formali, la previsione esiste sotto forma di un regime di cooperazioni rafforzate adottato da un gruppo di paesi che prendano il largo, uscendo dalla grande bonaccia che minaccia la paralisi e poi forse la disintegrazione dellUnione. E laraba fenice che compare allorizzonte nei momenti di sbandamento. E unipotesi possibile. Ma è anche aborrita dai tecnocrati di Bruxelles che vi leggono una diminuzione del proprio potere autoreferenziale. Ma, soprattutto, pone unaltra domanda. Unavanguardia politica dell'Unione per fare quale politica?
La sinistra italiana nel suo torpore intessuto di retorica europeista non ha mai voluto discutere di contenuti politici. Ha un atteggiamento fideistico. Ora il PD non sa più nemmeno come schierarsi nel Parlamento europeo. Apparentemente è un paradosso per una forza politica di sinistra o progressista. Ma lo schieramento diventa unoptional quando non ci sono discriminati politiche. Cè da augurarsi che la crisi aperta dalla piccola Irlanda stimoli una nuova riflessione sullEuropa, non contro lUnione europea, ma al contrario per salvarla dalla sua vocazione autodistruttiva.