Blair, gli Stati Uniti e il futuro dell’Europa

Il premier inglese deve decidere se essere l’impossibile mediatore della politica unilateralista americana o un leader dell’Europa insieme con Francia e Germania

Ora che la guerra è finita succede quello che è sempre successo. I suoi fautori passano dalla parte della ragione. Una guerra illegittima dal punto di vista del diritto internazionale diventa legittima.
Chi era contro è chiamato a fare ammenda. Tony Blair è glorificato dalla destra italiana come il campione dell’unica possibile Unione europea, fedele partner degli Stati Uniti.

Eppure, in un mondo d’incertezze, il risultato della guerra era l’unica cosa certa. La più potente armata della storia in tre settimane ha portato a termine l’invasione di un paese del terzo mondo stremato da dodici anni di embargo. Le armi di distruzione di massa, chimiche e biologiche, non sono state finora trovate. O non c’erano, o non erano utilizzabili, o non sono state utilizzate, nemmeno nel momento estremo del collasso del regime.

Come la stampa di tutto il mondo ha documentato, la decisione di invadere l’Iraq, cacciare il regime dispotico di Saddam Hussein e impadronirsi di Bagdad, come testa di ponte per il controllo della regione, era stata presa ben prima dell’11 settembre dal gruppo neoconservatore asceso alla Casa Bianca con la vittoria di Bush. L’attacco terroristico alle Due Torri ha fatto da catalizzatore. La guerra diventava facilmente “vendibile” all’opinione pubblica americana, il 40 per cento della quale fu convinta che il commando terroristico che aveva seminato la morte a Manhattan era iracheno, e il sessanta per cento che Saddam Hussein ne era l’ideatore o il complice.

E ora a chi tocca: alla Siria, all’Iran, alla Corea del Nord? - si chiedeva il New York Times del 14 aprile: “Bush ha il diritto di compiacersi della vittoria in Iraq, ma non deve confondere un successo militare con la validazione della sua dottrina della guerra preventiva”. La Siria è stata aggiunta all’asse del male, ed è la più indiziata per una nuova tappa della guerra preventiva. E’ anche la preda più facile. L’Iran è un territorio immenso, tre volte più popolato dell’Iraq. In ogni caso è isolato fra Afganistan, Iraq, Turkmenistan, paesi sotto il controllo americano. La Siria è invece, con la sua propaggine libanese, una spina nel fianco di Israele. E’ da tempo nella lista nera dei paesi che ospitano o sostengono organizzazioni terroristiche come Hezbollah in Libano. La liquidazione del regime del giovane Hassad potrebbe essere, secondo l’autorevole settimanale inglese “Observer”, il prezzo da pagare a Sharon per il riconoscimento di un mini-Stato palestinese.

Il dibattito in corso sul ruolo dell’ONU deve essere collocato in questo quadro. Gli Stati Uniti hanno bisogno dell’ONU sia per l’aiuto umanitario sia per funzioni di polizia. Il punto non è se l’ONU avrà o no un ruolo. La questione decisiva è il contenuto politico di questo ruolo. Blair gioca una partita importante nella definizione dei rapporti fra Europa e Stati Uniti. Ma il rischio è che si ripeta la sceneggiatura che ha preceduto la guerra.

Qui conviene fare un passo indietro. Dopo l’11 settembre, fu chiaro a tutta l’Europa, senza distinzioni, che la nuova fase del terrorismo, le cui basi sono nel Medio Oriente, poneva un problema comune nella lotta al terrorismo. Bisognava andare alle sue radici per sdradicarle. Ma come? Per la nuova destra repubblicana americana non c’era alcun dubbio. Si apriva la quarta guerra mondiale, e il primo obiettivo era l’abbattimento dei regimi “canaglia” del Medio Oriente. L’Afganistan col suo mondo tribale era solo un passaggio, relativamente secondario. L’annuncio del nuovo “asse del male” si accompagnava all’affermazione del diritto alla guerra preventiva: un rivoluzionamento nella storia dei rapporti internazionali.

Per l’Europa la questione mediorientale si poneva in termini diversi. Il primo passo per un’evoluzione del Medio Oriente doveva essere la soluzione del conflitto israelo-palestinese. Bisognava sostenere una graduale democratizzazione dell’Iran, paese chiave negli equilibri complessivi del mondo islamico. E spingere i paesi “moderati” ad allargare le maglie dell’autoritarismo per trovare nuove vie di sviluppo e allentare le spinte integraliste e antioccidentali. La differenza di prospettiva fra l’ideologia neo-imperiale dei neo-conservatori americani e l’approccio gradualista europeo era evidente.

Il compito che si assunse Blair nell’estate del 2002 era tra i più difficili. Non era contrario alla liquidazione del regime di Saddam Hussein. Secondo il direttore del New Yorker, ne era anzi il più sofisticato assertore. Ma non voleva che si consumasse una rottura clamorosa tra l’Europa e gli Stati Uniti. L’ambasciatore britannico ha raccontato al Guardian che Blair adoperò tutti gli argomenti a sua disposizione per convincere Bush dell’opportunità di passare attraverso l’ONU per ottenere il consenso dell’Europa.

Ora conosciamo l’infelice esito di una mediazione nata nell’equivoco. Per l’amministrazione americana, l’ONU doveva essere una semplice copertura per disinnescare la resistenza francese e tedesca. Come ha affermato il capo degli ispettori, Hans Blix, in un’intervista al Pais , la decisione di invadere l’Iraq era stata già presa da molto tempo.

Paradossalmente, la (falsa) mediazione di Blair – il sostegno europeo alla strategia di Cheney e Rumsfeld in cambio del passaggio attraverso il Consiglio di sicurezza - metteva Francia e Germania di fronte a una scelta radicale: legittimare una guerra che rinnegava la strategia europea o rompere con l’amministrazione Bush. In sostanza, l’intervento dell’ONU per il quale si era battuto Blair era diventata la foglia di fico per coprire con una parvenza multilaterale una decisione unilaterale di guerra preventiva.

Non facciamo queste notazioni per tornare al passato, ma per guardare al futuro con i suoi rischi e le sue ambiguità. Come l’amministrazione americana ha spiegato senza possibilità di equivoci, gli americani insedieranno in Iraq un protettorato militare, più o meno mascherato da un governo fantoccio. In uno Stato per molti versi artificiale, profondamente diviso sotto il profilo etnico e religioso, il rischio più concreto è la balcanizzazione, una conflittualità endemica, un esito di tipo Afganistan, dove il governo di Karzai controlla a stento Kabul, mentre i signori della guerra scorrazzano nel resto del paese.

Anche in Iraq, non meno che in Afganistan, l’amministrazione americana avrà bisogno del coinvolgimento dell’ONU per assolvere compiti di carattere umanitario e di polizia. E ne avrà bisogno anche per un sostegno finanziario. Ma se questo coinvolgimento non muterà lo scenario politico per l’Iraq e per tutto il Medio Oriente rimarrà una foglia di fico, destinata semplicemente a coprire il protettorato neocoloniale americano.

Eppure, oggi il ruolo dell’Europa è più importante di quanto non fosse nel momento in cui si decideva una guerra che gli Stati Uniti potevano fare anche da soli. Una volta presa Bagdad, il futuro della regione è di fronte a un bivio: o l’approfondimento della linea militare con il rischio crescente, a medio e lungo termine, di una reazione di tipo terroristico; o una politica di profondo cambiamento dello scenario, basata sulla soluzione del conflitto israelo-palestinese, sul sostegno allo sviluppo in senso democratico dell’Iran, sull’appoggio alle spinte riformiste nei paesi moderato-autoritari, come l’Egitto.

Il punto cruciale è oggi più che mai la questione palestinese. Si chiede ancora il New York Times: perché Bush non applica oggi alla soluzione del conflitto israelo-palestinese, la stessa determinazione applicata alla questione irachena? La “road map”, col suo lungo scadenzario di piccoli passi e le sue vaghe definizioni, ha già “una storia infelice nel Medio Oriente”. Le trattative per una soluzione del conflitto dovrebbero aprirsi subito, in “questa primavera” – scrive il giornale americano - riconoscendo che la soluzione sta nella restituzione di “quasi tutti i territori occupati sulla riva occidentale e nella striscia di Gaza nel 1967 in cambio di una pace totale e garantita”.

Si tratta, né più e né meno, del punto centrale della strategia condivisa in seno all’Unione europea. La difficoltà di applicarla sta nel fatto che la destra neo-conservatrice di Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz, che oggi ispira la politica della Casa Bianca, ha una concezione neo-imperiale nei rapporti col Medio Oriente, come dimostrazione pratica della sua egemonia globale.

In questo quadro di drammatica contrapposizione sul futuro dei rapporti internazionali, l’iniziativa di Blair si muove su un filo di rasoio. Se il richiamo al ruolo dell’ONU sarà giocato in termini di cosmesi dell’egemonia americana, si ripeterà l’equivoco che ha portato alla rottura dell’Europa. In sostanza, Blair è di fronte a una scelta di lungo termine. Deve decidere se essere l’impossibile mediatore della politica unilateralista americana nei confronti dell’Europa o un autorevole rappresentante dell’Europa, in una ritrovata unità con Francia e Germania, nei confronti degli Stati Uniti. Questa differenza è troppo importante per l’avvenire dell’Unione europea e del suo rapporto col Medio Oriente e con il resto del mondo, per mascherarla come una banale questione di schieramento a favore o contro Blair.

Lunedì, 14. Aprile 2003
 

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