Blair e l'Europa 'americanizzata'

Il leader inglese ha riproposto la scelta tra il "modello renano" e quello anglosassone, il solo, a suo parere, capace di sostenere le sfide della globalizzazione. I fatti dicono che non è quella l'unica soluzione, ma la tesi è forte anche perché a contrastarla finora c'è il vuoto

Mostrando intelligenza e coraggio politici, Tony Blair nel suo discorso al Parlamento  europeo ha posto per la prima volta nella più alta delle sedi istituzionali  la questione del futuro dell'Europa in termini di alternative chiare e nette. L'Europa con le sue attuali politiche - è stato il succo del suo discorso  - è destinata a perdere la sfida della globalizzazione e a smarrirsi in un passato senza prospettive.

La questione della politica agricola, che assorbe il 40 per cento delle risorse dell'Unione, è stata abilmente elevata a simbolo di una vecchia Europa, rappresentata dalla Francia (e dalla Germania che ne è da sempre il naturale alleato).  Ma sulla politica agricola Blair sa che bisognerà trovare un compromesso in parallelo alla riduzione del "rimborso" alla Gran Bretagna, vent'anni fa imposto da Margaret Thatcher, e oggi privo di giustificazioni.

La vera sfida - ha detto Blair, senza ipocriti pudori - riguarda  il modello economico e sociale europeo. La globalizzazione non consente di continuare con un modello sociale che, basato su un sistema di protezione del lavoro, di elevata spesa sociale e di alte tasse, mina la competitività dell'Europa rispetto al resto del mondo. Germania e Francia sono portati a esempio di questa politica destinata al fallimento. Il dilemma - dice Blair - è fra "il desiderio di essere una forte economia competitiva e il desiderio di conservare una forte dimensione sociale". Insomma, tra globalizzazione e modello sociale europeo.

Tutto il resto è conseguente con questa impostazione. L'allargamento fino alla Turchia e oltre - perché no all'Ucraina e ad altri paesi del vecchio impero sovietico? - non è un ostacolo ma il compimento di una strategia che potrà culminare in una grande area di libero scambio in grado di trovare una naturale partnership transatlantica negli Stati Uniti.

Si può essere d'accordo o no con questa strategia, ma non si può negare che, nel vuoto di idee e di programmi dell'attuale politica europea, si tratti di un'idea forte, di una "visione" che si colloca oltre le scaramucce tattiche e i contingenti interessi di parrocchia. Perché sottovalutare l'importanza di un'Unione europea di dimensione continentale, fondata su paesi dotati d istituzioni democratiche, con un mercato interno senza frontiere e, tendenzialmente, dotata di una moneta unica? In un'Unione con queste caratteristiche, non dovrebbe esserci problema a lasciare che ciascun paese sia poi libero di giocare le proprie carte in concorrenza l'uno con l'altro, sul piano delle politiche fiscali e sociali. Anzi, in un clima di concorrenza interna - segue il discorso - l'Europa realizzerebbe un più alto livello di competitività nei rapporti col resto del mondo. Insomma, un'Europa che si confronta con la globalizzazione, facendone proprie le regole, come stanno facendo alcuni dei paesi dell'Est, nuovi entrati: compressione della spesa sociale, riduzione delle imposte, deregolazione del mercato del lavoro.

Si tratta chiaramente di un altro modo di vedere l'Europa. La forza di Blair sta nel renderne evidente la discontinuità e di indicare, per così dire, il bersaglio nel vecchio "motore" franco-tedesco. Potremmo dire: modello anglosassone contro modello renano. Il dibattito, come la proposta di Blair, viene da lontano e non è affatto banale. In definitiva, si tratta del vecchio dibattito sui diversi modi di essere del capitalismo, senza farsi "intimidire" - per riprendere un'espressione di Blair - dall'idea che la globalizzazione impedisca ormai ogni distinzione di modelli. Blair ha avuto il merito di rilanciare il dibattito. Ma, per essere fruttuoso il confronto, deve essere basato su dati di fatto, non su una pretesa saggezza convenzionale.
 
Prendiamo la Germania. La contraddizione tra il vecchio modello sociale e la capacità di reggere la sfida della globalizzazione dovrebbe essere evidente, trattandosi del paese europeo dove alta è la protezione sociale e la spesa relativa, i salari sono tra i più alti, se non i più alti, di tutto il mondo industriale, i sindacati conservano una forza rilevante e la cogestione fa parte della governance delle grandi imprese. Senonché la contraddizione fra modello sociale e competitività globale non è affatto evidente. Anzi è vero il contrario. La Germania è il maggiore esportatore al mondo di prodotti industriali, dopo gli Stati Uniti e prima del Giappone. La sua bilancia commerciale realizza stabilmente un avanzo che si aggira sui cento miliardi di euro l'anno. Negli ultimi dieci anni, la sua quota di esportazioni è continuamente aumentata nella meccanica, nella chimica, nella farmaceutica, nelle biotecnologie, nell'elettronica, nel settore automobilistico che, esporta il 70 per cento della produzione di otre cinque milioni di auto (sia detto, per inciso, la - una volta - celebre Rover inglese è passata di mano più volte tra giapponesi, tedeschi e, oggi, probabilmente cinesi). Dove sono i segni dell'arretratezza nella ricerca scientifica, tecnologica, industriale, con i quali Blair cerca di motivare la crisi di competitività e l'incompatibilità fra la globalizzazione e il modello sociale europeo?

Conosciamo l'obiezione. La Germania non riesce a liberarsi da un elevato livello di disoccupazione. Ma il problema non ha a che vedere con la globalizzazione e la competitività, quanto con quell'evento storico che è stata l'unificazione tedesca. Non ostante la Germania abbia dissanguato il proprio bilancio pubblico per riequilibrare l'economia dei lander orientali, la disoccupazione vi continua a essere del 20 per cento - vale a dire, doppia e talvolta tripla di quella che si registra nella vecchia Repubblica federale.

Il problema della Germania, e di buona parte dell'Europa continentale, non è lo smantellamento del modello sociale europeo - a suo tempo difeso da Delors - quanto il coordinamento di una politica economica complessiva, in grado di far fruttare un mercato interno che è il più ricco del pianeta. Ma è esattamente questo che Blair non è in grado di proporre, essendo il suo disegno contrario al rafforzamento delle istituzioni e a un  coordinamento delle politiche, per l'appunto, economiche, fiscali, industriali e sociali.

Questo non significa che l'Europa non abbia problemi. Al contrario. Non si può vivere con la stagnazione perenne. Come non si possono risolvere i problemi della disoccupazione in un clima di stagnazione economica. Ma non sono problemi che si risolvono togliendo qualche residua protezione al lavoro. (Quali? Le ultime rimaste sono: la libertà di negoziare collettivamente salari e condizioni di lavoro e una relativa protezione contro i licenziamenti ingiustificati).

Blair, inaugurando la sua presidenza europea, ha avuto il merito di porre la questione del futuro dell'Unione con la nettezza di chi ha idee precise in mente. I suoi interlocutori dovrebbero dire con altrettanta chiarezza e determinazione politica quale via d'uscita indicano per la crisi dell'Unione europea. Ormai è chiaro che il dibattito sul futuro delle istituzioni s'intreccia con quello delle politiche economiche e del modello sociale. La rottura fra le élite politiche e i normali cittadini, resa evidente dagli scacchi referendari, si può sanare solo ricostruendo una visione d'insieme sul futuro dell'Europa, sul suo modo di vincere la sfida della globalizzazione, senza rimanerne vittima.

Sabato, 9. Luglio 2005
 

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