Blair e le disavventure della guerra

Lo scontro con la BBC è servito a deviare l’attenzione dalle vere ragioni della guerra. Ora il destino di Blair, dopo l’infausta sorte di David Kelly, rimane più che mai in bilico.
Negli ultimi mesi si erano fatte insistenti in Inghilterra le voci di un complotto contro Blair. All’origine vi sarebbero state diverse componenti dello stesso partito laburista e una parte crescente della stampa. I giornali di Murdoch, che avevano appoggiato Blair dopo la sua ascesa, cambiavano indirizzo. Lo scontro con la BBC sulla manipolazione dei dossier dell’intelligence da parte degli uomini di Blair sembrava aver aggiunto un tassello micidiale alla trama. Il successore di Blair sarebbe dovuto essere Gordon Brown, autorevole ministro del Tesoro.

Ma non sarebbe stato facile mettere nel sacco Blair, e proprio David Kelly avrebbe potuto salvarlo, se non avesse ceduto alla tragica tentazione del suicidio. Era stato proprio Kelly, esperto di microbiologia, ispettore dell’ONU e consulente del governo, a dichiarare di aver incontrato Andrew Gilligan della BBC e di aver parlato con lui delle armi proibite di Saddam Hussein. Dunque, la talpa era stata individuata. Ma aveva negato di aver parlato di una specifica adulterazione del dossier da parte di Campbell, lo stratega della comunicazione del premier. E questo addossava definitivamente alla BBC la responsabilità di una faziosa interpretazione delle rivelazioni di cui era venuta in possesso. Blair poteva a questo punto uscire dalla vicenda nel migliore dei modi.
 
Ma il suicidio di David Kelly, da tutti considerato scienziato e persone rispettabile, ha drammaticamente riaperto il caso. Probabilmente non sapremo mai se l’affermazione sulla possibilità di Saddam di attivare le armi proibite in 45 minuti, costituendo così una minaccia imminente per l’occidente, fu opera dei servizi o dell’entourage del premier. Gli analisti inglesi suggeriscono che l’informazione esisteva, ma che era poco affidabile o poco significativa, mentre nella stesura finale del dossier presentato da Blair al Parlamento risultò reiterata ed enfatizzata allo scopo di accrescere l’allarme e dimostrare l’improcrastinabilità dell’intervento militare.
 
Ma, paradossalmente, la disputa fra governo e BBC su questa specifica accusa ha contribuito negli ultimi due mesi a dirottare l’attenzione dal tema reale che è quello delle effettive ragioni della guerra. Ragioni che, anche alla luce degli eventi successivi alla presa di Bagdad, sono apparse sempre più infondate e avventuristiche.
Insomma, il feroce conflitto con la BBC intorno a una specifica affermazione di uno dei dossier è servito agli uomini del premier per coprire la più seria questione di sostanza sulle origini e le giustificazioni della guerra. Questione che portò alle dimissioni di Robin Cook e altri ministri e che, secondo i più recenti sondaggi, ha indotto il 70 per cento degli inglesi a considerare non più credibile Blair.
 
La sostanza è che Blair non fu affatto al servizio di Bush nella campagna che portò alla guerra. Blair era convinto che l’Iraq costituiva un pericolo, e che l’eliminazione di Saddam Hussein era un passo essenziale nella lotta al terrorismo e per una ridefinizione degli assetti geopolitici del Medio Oriente. Si era fatta questa convinzione anche prima dell’11 settembre, per cui, quando incontrò Bush nell’estate de 2002, non ebbe difficoltà a concordare pienamente sull’obiettivo di liquidare il regime di Bagdad. Ma, al tempo stesso, spiegò al presidente degli Stati Uniti un punto nevralgico della strategia politica nella quale inquadrare l’iniziativa militare: si sarebbe dovuto passare attraverso le Nazioni Unite. Era questa, secondo Blair, la condizione per ottenere il consenso dei paesi europei, oltre che della Russia e dei paesi arabi moderati. Bush accettò il suggerimento di Blair, nettamente distanziandosi su questo punto da Cheney e Rumsfeld, ostili per ragioni politiche e di principio a ingabbiare l’azione degli Stati Uniti nella ragnatela di istituzioni sovranazionali considerate inette e storicamente sorpassate.
Fu allora che Blair apparve come l’unico leader europeo in grado di influire sulle scelte del potente alleato americano. Anzi Blair entrava nel vivo della dialettica interna all’Amministrazione, contrastando le posizioni più rudemente unilateraliste, mentre rafforzava, con il passaggio attraverso le Nazioni Unite, la posizione diplomatica di Colin Powell. Ma, in questa difficile partita a scacchi, che non riguardava il se della guerra, ma il come, Blair aveva bisogno del coinvolgimento dell’Unione europea. Il rifiuto della Francia, della Germania e del Belgio di cedere a una strategia precostituita, e priva di valide giustificazioni, segna la prima vera sconfitta di Blair.
 
La partita sfugge di mano a Colin Powell e torna a essere gestita dai falchi di Washington. L’ambizione di Blair di porsi alla guida in condizioni di parità, anzi di ispiratore, di una strategia transatlantica, la cui origine effettiva affondava le radici nell’ideologia della destra neoconservatrice americana, sfuma insieme con la rottura all’interno dell’Unione europea. Blair porta in dote alla Casa Bianca il consenso già scontato di Aznar, di Berlusconi e di qualche paese dell’est, in primo luogo la Polonia.
A questo punto non ci si può stupire dell’uso spregiudicato dei servizi segreti. La guerra non era una decisione conseguente alle informazioni dei servizi di intelligence. Era vero il contrario. Le informazioni, la loro selezione e enfatizzazione, dovevano servire a giustificare una scelta politica già compiuta e dalla quale Blair non poteva tornare indietro.
 
Lo scontro con la BBC è servito a deviare l’attenzione dal dilemma centrale: le vere ragioni della guerra, gli errori di previsione, la vittoria di Pirro che ne è seguita, l’insabbiamento degli eserciti alleati in una guerriglia strisciante sulla cui durata e sul cui esito non vi sono previsioni attendibili. Il destino di Blair, dopo l’infausta sorte di David Kelly, rimane a questo punto più che mai in bilico.
 
Ma questa sequenza di eventi sarebbe una drammatica vicenda politica inglese, se non fosse, come ha osservato Eugenio Scalfari su "La Repubblica" (20 luglio), che tutta la vicenda ha a che fare con i rapporti fra Unione europea e Stati Uniti e col destino stesso dell’Unione europea e, per molti versi, della sinistra europea. Blair, nei suoi sei anni di governo, non è stato solo un brillante leader in grado di guidare il più lungo governo laburista nella storia britannica, ma un leader riconosciuto e carismatico all’interno della sinistra europea. I partiti della sinistra si sono divisi a favore e contro la linea neo-laburista. Il blairismo è diventato il paradigma della “sinistra riformista”contro la “sinistra conservatrice”.
 
La Terza via di Blair è apparsa, a cavallo dei due secoli, come la soluzione finalmente innovatrice e vincente dopo la lunga crisi della socialdemocrazia. Blair è riuscito con una personalità forte, spregiudicatamente determinata, e col fascino della sua retorica, a far dimenticare che le sue proposte di programma spesso non erano altro che una suggestiva e umanizzata versione delle dominanti ideologie neoliberiste: un neoliberismo dal volto umano.
 
La sua coerenza non fu sempre all’altezza dell’ambizione di palingenesi della sinistra. Le intese spregiudicate, in tema di politica sociale (prima ancora che sulla guerra) con Aznar, e le sorprendenti aperture di credito a Berlusconi, non potevano non sollevare qualche meraviglia. Ma, in fin dei conti, la sinistra europea, o una buona parte di essa, ha continuato a vedere nel riformismo blairiano e in una Terza via, adattabile e multiuso, l’uscita da un lungo blocco ideologico.
 
Il fenomeno Blair, quali che possano essere le conclusioni della vicenda aperta dalla BBC, è entrato in una fase di declino. Ma sarebbe ingeneroso e sbagliato ridurre la statura e le ambizioni rinnovatrici di Blair a quelle di un leader improvvido che banalmente inciampa sulla buccia di banana del suicidio di un eccellente scienziato, ingenuamente diventato una talpa per giornalisti più o meno spregiudicati. Quale che sia il destino politico di Blair, la sua concezione dei rapporti con gli Stati Uniti merita una riflessione di fondo nella sinistra europea.
 
Blair ha utilizzato con spregiudicatezza la sua leadership per rappresentare le ragioni degli Stati Uniti verso, e contro, una parte importante dell’Europa, piuttosto che le ragioni dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti. Relegare questa vicenda al ruolo di un incidente di percorso, o tra le cronache per un giallo di questa torrida estate, sarebbe sbagliato.
 
Così come una riflessione non meno approfondita merita la concezione blairiana di una nuova sinistra modernizzatrice e riformatrice che egli seppe sintetizzare nell’idea di una Terza via. La via che, come proclamava, a metà degli anni ’90, il titolo del saggio di Anthony Giddens, principale ispiratore di Blair, doveva condurre il New Labour “Oltre la destra e la sinistra”. Ma questo è un altro discorso sul quale può essere interessante ritornare.
Mercoledì, 23. Luglio 2003
 

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