Berlusconi taglia le pensioni per ridurre le tasse

Crea una pioggia di disparità di trattamento, grava sui conti Inps, snatura la riforma Dini. Tutto per evitare la 'gobba' nella spesa del 2020-30. Che sarebbe del tutto sostenibile, ma impedirebbe di abbasare le imposte

E’ probabile che molti ascoltatori dell’allocuzione televisiva di Berlusconi si siano posti domande del tipo: perché non ce lo ha detto quando ha firmato il suo contratto elettorale, sempre in televisione? E perché, se le prospettive pensionistiche sono così brutte, ha lasciato passare due anni e comunque rinvia il bastone di altri quattro anni, durante i quali la carota offerta ai pensionandi (per indurli a rimanere al lavoro) si tradurrà in una perdita per l’INPS?
Bisogna dire che fino a qualche giorno fa le difficoltà di comunicazione tra Maroni e Tremonti erano tali per cui l’osservatore esterno non capiva se i 40 anni di contributi e i 60 (donne) o 65 (uomini), necessari per andare in pensione (dal 2008 comunque), si applicavano ai soli lavoratori che si sarebbero pensionati con retributivo puro - cioè quelli che avevano 18 anni di anzianità a fine 1995 – oppure anche a quelli con sistema misto (in parte retributivo ed in parte contributivo) o perfino a quelli più giovani (che hanno iniziato a lavorare dopo il 1995).

Nel primo caso (ipotesi caldeggiata da Maroni) si trattava di lavoratori che avevano iniziato a lavorare tra il 1973 ed il 1978 (nell’ipotesi di assenza di interruzioni, ovviamente) e che sarebbero potuti andare in pensione dal 2008 al 2013 col sistema retributivo, più favorevole del contributivo (sempre che avessero i 57 anni di età). Questi lavoratori venivano costretti a lavorare e versare contributi per altri cinque anni, in modo che il loro vantaggio – tra contributi versati e pensione da ricevere – si sarebbe sostanzialmente annullato.

Lasciamo perdere il problema equitativo tra coloro che avevano iniziato a lavorare nel 1973 e quelli dell’anno precedente (che potevano andare in pensione tranquillamente nel 2007); ci si potrebbe comunque domandare del perché, in questo caso, non ricorrere all’introduzione del sistema pro rata anche per questi lavoratori, a cominciare naturalmente dal 2004.

Per i lavoratori invece che hanno iniziato nel 1979 (e fino al 1995) un problema di intervento si poneva in modo molto limitato, dato che oltre la metà della loro pensione è calcolata col pro rata, e cioè con 17 anni (al massimo) di retributivo e 18 anni (o più) di contributivo. Volendo correggere il loro vantaggio, comunque ridotto di oltre la metà, si poteva allungare la loro attività lavorativa, ad esempio, di un mese ogni anno di retributivo (al massimo quindi 17 mesi), o trovare altri simili sistemi correttivi.

Per i più giovani (dopo il 1996) poi non c’era bisogno di nessun intervento, perché il sistema contributivo è tale per cui la scelta di pensionamento non ha sostanzialmente nessun effetto sulle casse dell’INPS; il lavoratore è “libero di scegliere”, cosa questa che un governo (sedicente) liberista dovrebbe apprezzare particolarmente.

Tra Maroni e Tremonti ha vinto invece quest’ultimo, e le misure annunziate mostrano chiaramente la volontà di scardinare la logica della riforma del 1995. Applicare le misure a tutti i lavoratori (22 coorti tra il 1973 e il 1995) indistintamente significa perseguire una logica del tutto diversa da quella di un sistema contributivo.

Qui sembra prevalere una volontà di cancellare tutto quello che i governi di centro sinistra avevano fatto: prima il fisco ed ora le pensioni. Si potrebbe controbattere che l’alternativa aggiunta all’ultimo momento, cioè la possibilità di andare in pensione anche con 35 anni ma in questo caso con un calcolo puramente contributivo, si ispira proprio alla riforma della 335. In realtà appare una evidente presa in giro: in nessuna riforma pensionistica si cambiano retroattivamente le carte in tavola (si veda ad esempio la riforma svedese).

Bisogna dire che nel caso dei provvedimenti sulle pensioni il governo non può essere accusato di antifemminismo: grazie soprattutto alla possibilità di andare in pensione a 60 anni la maggioranza delle donne non incapperà nelle penalizzazioni, a differenza invece del 70% degli uomini, che, per uno o più anni vi incapperanno (in media il 62% con tre anni di aumento medio dell’età di pensionamento). I futuri pensionati si divideranno in vari gruppi: quelli con retributivo pieno, quelli con retributivo pieno ma che hanno usufruito della carota del 32%, quelli con retributivo ma che hanno il bastone di maggiori anni di lavoro (da uno a cinque), quelli pro rata retributivo/contributivo anche loro con bastone, quelli col solo contributivo ai quali, a quanto sembra, verrà ristretta la libertà di scelta di tre anni (da 57 l’età minima sale a 60, o forse a 65,con un effetto del tutto trascurabile sui conti previdenziali).

In realtà vi è una ulteriore distinzione da fare, in quanto l’alternativa del pensionamento con 35 anni con pensione puramente contributiva taglia in modo pesante la pensione per coloro che hanno la possibilità di ritirarsi col sistema retributivo, ma incide solo leggermente per quelli che hanno iniziato a lavorare negli anni novanta, prima del 1996. Costoro possono decidere di andare in pensione, accettando una ridotta decurtazione, ma potendo cumulare con la continuazione del lavoro, perché la legge delega elimina il divieto di cumulo.

Ma l’intervento era proprio necessario? Il sistema previdenziale era insostenibile? Forse la persona più adatta a rispondere a questa domanda è Milos Kundera, ma possiamo provare a fare qualche considerazione.

La famosa gobba della spesa pensionistica, col sistema attuale, ci sarà: che sia di due punti di PIL o un po’ più o un po’ meno è impossibile dire, perché dipende essenzialmente dall’andamento del PIL medesimo. Comunque la salita si manifesterà concretamente dai primi anni venti e continuerà fino ai primi anni trenta, quando incomincerà la discesa, dovuta alla progressiva dipartita delle generazioni del baby boom.Ma negli anni venti, ed ancora di più negli anni trenta la discesa del nostro debito pubblico, in percentuale sul PIL, dovrebbe essersi conclusa, e questo processo avrà liberato più di due punti di PIL, diciamo due e mezzo.

Il problema allora è come utilizzare questo bonus di risanamento del debito pubblico: potremmo finanziarci la maggiore spesa pensionistica, potremmo aumentare altre voci della spesa pubblica, dalla sanità alla scuola alla ricerca; o potremmo anche ridurre il prelievo fiscale. Per fare un esempio l’IRAP vale all’incirca due punti di PIL.

Ora proprio questo è l’obiettivo che hanno in mente non solo Confindustria (come è ovvio) e Banca d’Italia, ma anche la Commissione europea, il FMI e l’OECD. La riduzione del prelievo fiscale (e parallelamente del sistema di welfare) e la “flessibilizzazione” del mercato del lavoro sono i due obiettivi di lungo periodo dai quali si attende la ripresa della crescita economica e la riduzione della disoccupazione. La ridistribuzione del reddito seguirà (eventualmente) una volta ottenuti gli obiettivi.

Più che insostenibilità quindi si deve parlare di incompatibilità: la curva pensionistica è incompatibile con la prospettiva di una riduzione di alcuni punti di pressione fiscale. Non è qui la sede per una discussione su questa strategia, salvo puntualizzare alcune cose. L’aumento di circa tre anni dell’età media di pensionamento non sarebbe senza conseguenze su altre voci della spesa di sicurezza sociale.

L’idea che “in Italia si va in pensione troppo presto rispetto agli altri paesi europei” è molto diffusa, ma poi si scopre che la nostra età media è solo leggermente inferiore a quella europea, e vicina ai sessanta anni. Un aumento così secco provoca inevitabilmente fenomeni di licenziamenti di cinquantenni, con conseguenti prepensionamenti o uso degli ammortizzatori sociali (che da noi sono del tutto asfittici, ma che inevitabilmente dovranno essere potenziati). Risulta infatti che circa la metà dei pensionamenti coi requisiti minimi (35 di anzianità e 57 di età) dipendono da una pressione del datore di lavoro, sono cioè “spintanei”, non spontanei.

Mentre quindi la Confindustria si batte per l’obiettivo di riduzione della spesa pensionistica, le imprese affiliate utilizzano le pensioni di anzianità per liberarsi dei lavoratori “vecchi” e costosi, per prendere giovani flessibili e che costano molto meno. Anche perché quando le imprese hanno dei lavoratori che vogliono tenersi, trovano il modo di farlo anche da pensionati.

Con la “controriforma” annunziata il governo evita il declassamento da parte delle agenzie di rating, innervosite dall’orgia di una tantum, condoni e finanza creativa; accontenta in parte la Confindustria anche se questa avrebbe voluto di più e soprattutto subito. Ma oltre a doversela vedere coi sindacati, le misure nascondono alcune bombe ad orologeria che dovranno essere disinnescate dai futuri governi, e non sarà impresa facile.

Mercoledì, 8. Ottobre 2003
 

SOCIAL

 

CONTATTI