Avere fame nella società della dieta

La povertà non fa notizia, nessuno ne parla, è assente dal dibattito politico. Non si rilevano nemmeno più i dati. Sappiamo solo, da vari segnali, che è in aumento. Quattro proposte per cominciare ad affrontare il problema
Se diamo retta all'interesse dei media per le diete dobbiamo dedurne che quella in cui viviamo è la società della dieta, più che della fame. Per non farsi fuorviare, dovrebbero però essere tenute presenti un paio di avvertenze. La prima: anche nelle società dove molti fanno la dieta sono troppi quelli che hanno ancora fame.  La seconda: la povertà non fa notizia. Anche perché la povertà è una sordina che agisce su tutte le forme dell'attività umana, inclusa la capacità di parola.
 
"Quaggiù la povertà è vergogna che nessun merito lava" scriveva Foscolo. Siamo ancora lì. Anzi, per molti versi le cose sono peggiorate. Perché in una società che esalta la ricchezza, il successo, la notorietà, la fama, la povertà non assume il rilievo di problema politico, ma è ridotta a questione essenzialmente caritatevole. Con  l'aggravante che persino l'antica regola religiosa quod superest date pauperibus oggi è meno popolare e conta un numero sempre più ristretto di devoti. Perché nella civiltà dello spreco il progresso viene misurato dal prevalere del superfluo sul necessario.
 
Non è perciò un caso che, negli ultimi decenni, la causa della pace sociale sia sempre stata alimentata dalle grida di angoscia dei privilegiati. Nessun paese sviluppato fa eccezione. I ricchi sentono più profondamente dei poveri le ingiustizie di cui si credono vittime e la loro capacità di indignazione non conosce limiti. Al punto che, di fronte ai loro sdegnati lamenti, i poveri sono indotti a pensare che la classe privilegiata soffra davvero. Finiscono così per accettare la loro sorte con più filosofia. E' un calmante politico ad effetto immediato. E poiché non si possono confortare i tormentati senza tormentare i confortati, la politica ha progressivamente preso atto che fosse più conveniente (perlomeno dal punto di vista elettorale) confortare i confortati. Questo spiega la "povertà delle politiche contro la povertà".

A complicare ulteriormente le cose contribuisce anche il fatto che sappiamo poco delle molteplici caratteristiche della povertà. Così siamo in difficoltà e finiamo per balbettare quando dobbiamo rispondere a domande come: la povertà è una condizione temporanea nella quale si può cadere, ma si può anche uscire? Oppure è invece una sorta di destino al quale molti non sono in grado di sfuggire? I poveri sono sempre, più o meno, le stesse persone? O invece cambiano? Una migliore conoscenza consentirebbe anche di capire meglio come ed in che modo è possibile correggere il corso delle cose. Tuttavia, è evidente che quando manca l'intenzione di intervenire, non c'è neanche un particolare interesse a capire.

Ecco perché, ad esempio, il ceto politico sembra non soffrire particolarmente per il fatto di non disporre di dati attendibili a valutare la dimensione effettiva dalla "povertà estrema". In sostanza, quella in cui versano le persone senza reddito, senza diritti, senza voto, senza voce, senza tetto, senza tutto. Diversi elementi fanno presumere che il loro numero sia in aumento. La conferma viene anche: da alcune indagini locali; dall'aumento dei pasti distribuiti dalle mense gratuite; dalla proliferazione di lavavetri e questuanti ai semafori; dalla crescita di baraccopoli (per immigrati clandestini, ma non solo) ai margini delle città.
 
Insomma, basta guardarsi un po' attorno per rendersi conto che, negli ultimi anni, l'esercito della povertà estrema ha arruolato un numero rilevante di nuove reclute. Il numero degli effettivi è così salito sensibilmente. Di quanto? Nessuno sembra in grado di dirlo. Comunque, a questa allarmante espansione del fenomeno ci si è finora limitati ad opporre: i volonterosi (ma insufficienti) interventi del volontariato; la reazione infastidita (sempre in bilico tra compassione ed intolleranza) dei benpensanti; una politica speranzosa di esorcizzare il problema barcamenandosi tra estemporanee misure assistenziali e conati repressivi. In sostanza, vengono utilizzate più energie per deprecare l'esistenza del problema di quante non ne vengano effettivamente impiegate per cercare concretamente di ridurlo.

Non sappiamo molto nemmeno dell'andamento della "povertà assoluta". Quella cioè che riguarda persone, o gruppi parentali, che non hanno i mezzi per procurarsi beni e servizi  indispensabili a scongiurare emarginazione ed esclusione sociale. Da tre anni non vengono più rilevati i dati. Gli ultimi che sono stati pubblicati sono infatti relativi al 2001. Da allora sul punto è calata la nebbia. La giustificazione fornita, a suo tempo, per motivare l'interruzione della rilevazione è che fosse necessario aggiornare il paniere di beni e servizi utilizzato. Ma, anche con tutta la più buona volontà, la spiegazione appare un po' grottesca. Non perché non sia necessario aggiornare periodicamente il paniere. Ma perché, in fin dei conti, si tratta di una operazione piuttosto semplice, che i tecnici dell'Istat (se richiesti) sarebbero in grado di  portare a termine nel giro di poche settimane. Poiché (dal 2002) di settimane ne sono passate una infinità, è lecito supporre che la ragione vera sia, probabilmente, un'altra. In sostanza, che sia stato deciso di lasciare perdere. Perché, come si dice, se "occhio non vede, cuore non duole". Purtroppo però i problemi sociali non sono come il vino, che invecchiando migliora. Le drammatiche vicende che stanno incendiando la periferia di Parigi e di altre città francesi dovrebbero pur insegnare qualcosa a tutti. O no?

Conosciamo invece meglio i termini della "povertà relativa". Quella cioè di chi è costretto a vivere con meno della metà del reddito medio pro-capite. Ebbene, i dati Istat ci dicono che (nel 2004) il numero delle persone in condizione di "povertà relativa" avevano superato la ragguardevole cifra di 7 milioni e mezzo. Così, mentre nel 2003 erano il 10,8 per cento degli italiani; nel 2004 sono invece arrivati al 13,2 per cento.
 
Le difficoltà colpiscono maggiormente le famiglie con cinque o più componenti. In pratica, in questo segmento, una famiglia su quattro si trova in condizioni di povertà. Se la passano sempre peggio anche  le giovani coppie. Tra quelle che hanno uno o due figli l'incidenza della povertà relativa in un solo anno è aumentata del 35 per cento. Peggiora anche la condizione di molti lavoratori. In effetti, se in passato il lavoro poteva essere considerato un fattore di relativa sicurezza economica e sociale (pochi soldi, ma percepiti con continuità) con l'aumento della precarietà anche il salario è diventato discontinuo. E' quindi cresciuto il numero delle famiglie di lavoratori dipendenti che non ce la fa più a tirare la fine del mese. Sono infine le persone sole, di oltre 65 anni, a far registrare un drastico peggioramento della loro condizione. Tra di esse il numero degli indigenti è più che raddoppiato in un solo anno.

Si tratta di sviluppi che dovrebbero allarmare. Non solo per la gravità del fenomeno che le cifre mettono in evidenza. Ma soprattutto perché il peggioramento si è verificato in un anno di sostanziale stagnazione economica. E, come ben sanno coloro che si occupano di queste cose, il dato sulla povertà relativa tende a decrescere quando l'economia ristagna. Da noi è invece successo il contrario. Un motivo in più per essere preoccupati? Sembrerebbe di no. Almeno a giudicare dai temi che tengono banco sui giornali ed in televisione, dove imperversa: il caso Bonolis; il tormentone sulla fine del rapporto tra Al Bano e la Lecciso; o la discussione da sfinimento sul carattere dello show di Celentano. Sarà intrattenimento, o sarà invece una "furbata" politica?  Così assorbiti da questi temi decisivi, si capisce bene che la lotta alla povertà non abbia nessun rilievo nel dibattito pubblico e sia quindi del tutto fuori anche dalla "moda" politica.

E' possibile un cambiamento? Naturalmente sì. A due condizioni però. Innanzi tutto serve una quantità più significativa di risorse (all'incirca corrispondente a quanto vi destinano i principali paesi europei). E poi occorre anche la volontà di fare della lotta contro la povertà e per l'inclusione una priorità politica. Bisogna però tristemente riconoscere che, purtroppo, difettano entrambe.

Tuttavia, nell'attesa che si facciano strada appropriati segnali di cambiamento della cultura politica, si potrebbe almeno cercare di affrontare alcune questioni. Incominciando magari da quelle meno impegnative. Provo a fare qualche esempio.
 
Primo. Per uscire dalla povertà servono diverse cose. Tra queste è indispensabile anche un aiuto. Un aiuto che non dovrebbe però essere alternativo alle politiche di inclusione. A cominciare dal lavoro. Anche per evitare il rischio che si trasformi in una "trappola". Pericolo largamente richiamato da diversi studi e ricerche. Proprio in relazione a ciò, credo debba essere considerato piuttosto grave che le iniziative (avviate a suo tempo in via sperimentale) per l'introduzione del "reddito minimo di inserimento" siano state puramente e semplicemente soppresse. L'affermazione dal ministro per le politiche sociali che quelle iniziative sarebbero state rimpiazzate da uno strumento più efficace ed anche di carattere generale, si è rivelata una sostanziale presa in giro. Tant'è vero che questo progetto non ha mai visto la luce. Forse, non è mai stato nemmeno effettivamente concepito.
 
Con questo non voglio dire che sia vietato fare congetture su soluzioni più ardite, o financo palingenetiche. Occorrerebbe però sempre il buon senso di non scambiare "il meglio" con "il nulla". Ci sono quindi buone ragioni per chiedere che venga ripresa la sperimentazione. Magari allargandola a tutti i principali centri urbani.
 
Secondo. La lotta alla povertà è ora esposta al rischio di una nuova imprevista difficoltà. Si potrebbero infatti mettere di traverso anche le cosiddette riforme costituzionali. Parecchi italiani (ed io tra questi) non hanno ancora ben capito la differenza tra Federalismo e Devoluzione. E' una distinzione semantica, o di marketing politico? Non è chiaro. Piuttosto chiare potrebbero essere invece le probabili ricadute negative. A cominciare dal fatto che le competenze degli enti locali verrebbero aumentate mentre, al contrario, le risorse finanziarie loro destinate vengono diminuite. Tant'è vero che la Finanziaria (in discussione) propone di tagliarle.
 
Se questa operazione andrà in porto, come tutto lascia prevedere, è facile immaginare le conseguenze sulle politiche locali di inclusione sociale. Non sarebbe il caso di promuovere una indagine per valutare i possibili effetti derivanti da un rinsecchimento delle attività sociali degli enti locali?
 
Terzo. Come in tanti altri campi, anche nella lotta alla povertà pesa la cronica inefficienza della pubblica amministrazione. Da tempo ingegneri, agronomi, tecnici europei lavorano nell'industria e nell'agricoltura. Ora si sta discutendo (e litigando) sulla applicazione della direttiva Bolkestein, per la liberalizzazione dei servizi privati. La motivazione è che, nell'interesse dello sviluppo, il processo di "apertura al mercato" deve essere esteso anche ai servizi.
 
Perché allora (in un ottica di integrazione europea) non immettiamo nelle strutture pubbliche per le politiche sociali anche alcuni ispettori francesi o tedeschi? O dobbiamo assolutamente difendere l'italianità delle inefficienze e delle disfunzioni del nostro settore pubblico? Per di più facendole pagare a chi sta peggio? Alcuni la considereranno una provocazione. Ed in effetti lo vuole anche essere. La speranza è che provochi almeno una reazione. Magari di orgoglio.
 
Quarto. Nell'attesa (e nella speranza) di una politica redistributiva più equa rispetto a quella in atto, si potrebbe decidere di impegnare per obiettivi specifici (scelti e resi noti anno per anno) l'8 per mille che i contribuenti destinano allo Stato al momento della denuncia dei redditi. Attualmente la parte dell'8 per mille che va allo Stato finisce nel calderone generale della spesa pubblica. Facile capire che moltissimi contribuenti non siano particolarmente ansiosi di concorrervi. La loro propensione potrebbe però migliorare se avessero la ragionevole sicurezza che il loro 8 per mille verrà utilizzato per specifici e ben definiti progetti, capaci di aiutare ad uscire dai guai un certo numero di persone.
 
Ovviamente servirebbe pure che ogni anno, assieme alle spiegazioni sul progetto da finanziare, venisse anche fornito un resoconto dei risultati ottenuti con gli interventi attuati nell'anno precedente. A occhio non sembrerebbe una decisione che richiede una particolare audacia politica. Allora, perché non provarci? Certo, non verrà eliminata la povertà. Ma, quanto meno, alcune situazioni potrebbero conoscere un "provvidenziale" miglioramento.

Potrei continuare. Penso, tuttavia, che questo piccolo elenco sia più che sufficiente. Esso infatti non ha altro scopo che quello di segnalare la necessità di reagire ad uno stato di cose francamente inaccettabile. In definitiva, a prendere coscienza che la povertà non è soltanto un problema dei poveri. Diversamente, bisognerà rassegnarsi a mettere in conto che le tensioni diventino più acute, le soluzioni più difficili, il futuro più incerto. Per tutti.
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