Più povertà per tutti

Il governo ha affermato addirittura che la situazione è migliorata, ma nel 2004 altre 270.000 famiglie sono scese sotto la soglia dell'indigenza: ora i cittadini in questa situazione sono 7 milioni e mezzo
Sono sette milioni e mezzo le persone che si aggirano per i discount e per i mercati rionali cercando di risparmiare sul cibo e sul vestiario. Questa peregrinazione però non basta. Comunque, non risolve. Malgrado tutti gli accorgimenti, esse fanno infatti sempre più fatica ad arrivare alla fine del mese. E, a differenza dei ricchi a cui quasi sempre piace mostrarsi in pubblico e dire la loro su tutti gli argomenti, compresi quelli di cui non sanno nulla, questi sette milioni e mezzo di persone costituiscono un esercito discreto, silenzioso. Perché? Per pudore? Per vergogna? Quello che si può dire con sicurezze è che si tratta di un esercito che si considera abbandonato a sé stesso. E, dunque, senza armi efficaci per combattere.
 
Accade così, che nella quasi generale indifferenza, nel giro dell'ultimo anno altre 270 mila famiglie sono scese al di sotto della soglia di povertà relativa. Aggiungendosi alla foltissima schiera di chi non riesce a realizzare una condizione di vita dignitosa. Anche quando dispone di un lavoro.

Gli ultimi dati Istat avrebbero dovuto allarmare e produrre una appropriata reazione politica. Però, fin'ora, di questa auspicabile reazione non c'è traccia. Eppure sono ormai 2 milioni 674 mila le famiglie italiane che vivono in condizioni di indigenza. Complessivamente si tratta di 7 milioni 588 mila persone. Nel 2004 sono saliti al 13,2 per cento degli italiani, rispetto al 10,8 del 2003. Secondo i dati del 2003 il 21,6 per cento delle famiglie del mezzogiorno viveva nell'indigenza. Nel 2004 siamo arrivati alla cifra tonda del 25 per cento. Il che significa che una famiglia su quattro del meridione non ce la fa a fare fronte ad esigenze essenziali. Nel Sud il numero delle famiglie povere è più del doppio della media nazionale, che è dell'11,7 per cento. Considerando i dati nazionali bisogna però aggiungere che il 7,9 per cento delle famiglie italiane è considerata a rischio di povertà. Sarà sufficiente un piccolo peggioramento (tutt'altro che improbabile, se non si correggerà rapidamente il corso delle cose) e si aggiungeranno a tutti gli effetti a quelle che sono già precipitate in una situazione di povertà relativa.

Per una famiglia di due persone la soglia convenzionale di povertà relativa è determinata da una capacità di spesa mensile di 919 Euro. Chi non ci arriva sta al di sotto della soglia di povertà, chi riesce a superarla sta al di sopra. Naturalmente, come tutte le medie, non offre un quadro preciso ed analitico della effettiva condizione delle famiglie e delle persone che le compongono. Si capisce bene che è diversa la condizione di chi abita in campagna rispetto a chi abita in città; di chi dispone di una abitazione e chi invece (con la stessa somma di reddito mensile) deve pagare l'affitto; e così via.

Malgrado alcuni limiti i dati Istat consentono però di capire diverse cose. Ad esempio: nel confronto tra il 2003 ed il 2004, la diffusione della povertà colpisce le famiglie con cinque o più componenti, che salgono dal 21,1 al 23,9 per cento; le giovani coppie, che salgono dal 3,8 al 5,4 per cento; se poi hanno uno o due figli l'incidenza passa dall'9,1 al 13,9 per cento. Ancora, se una volta il lavoro poteva essere considerato un fattore di relativa sicurezza (pochi soldi, ma percepiti con continuità) con l'aumento della precarietà anche il salario è diventato discontinuo. E' quindi cresciuto il numero delle famiglie di lavoratori dipendenti (passate dell'8,2 al 9,3 per cento; in buona sostanza una su dieci) che fanno sempre più fatica a tirare la fine del mese. Sono infine le persone sole, di oltre 65 anni, a vedere peggiorata la loro condizione. Tra di loro il numero degli indigenti è più che raddoppiato, passando (rispetto all'anno prima) dal 4,2 al 10 per cento.

Di fronte a questi dati lascia senza parole il commento fatto a nome del governo dal sottosegretario al Welfare, Maurizio Sacconi. Secondo Sacconi infatti la "povertà relativa" è rimasta sostanzialmente stabile, mentre quella "assoluta" è diminuita grazie agli interventi statali, agli sgravi fiscali, agli aiuti alle famiglie. Evidentemente il sottosegretario o non sa leggere i dati, oppure non sa fare di conto.

Sostenere che la povertà relativa nel 2004 è stabile rispetto al 2003, malgrado tutte le percentuali risultino in chiaro e sensibile aumento, se si esclude la malafede, è solo una ulteriore conferma dell'incompetenza dell'attuale governo. Ancora più stupefacente è l'affermazione che la povertà assoluta sia in diminuzione. Stupefacente perché gli ultimi dati Istat sulla "povertà assoluta" risalgono al 2002. Da allora non è più stata misurata. Si era detto che sarebbe stato utile aggiornare il paniere di beni e servizi su cui veniva commisurata. Ma, a quanto pare, non si è ancora trovato il tempo, il modo e soprattutto la volontà per farlo. La cosa non sorprende. Sembra infatti una costante dell'attuale governo. Quando non si tratta delle esigenze di Berlusconi e dei "suoi cari" il governo preferisce ispirarsi al vecchio adagio: "occhio non vede, cuore non duole".

Mettiamo dunque da parte le eccentriche dichiarazioni di Sacconi per proporre un paio di osservazioni conclusive sui dati Istat. La prima. L'aumento della povertà (sia relativa, che assoluta) è l'ulteriore conferma della inadeguatezza ed in alcuni casi dell'inconsistenza delle politiche sociali in atto. Specialmente quelle a sostegno della famiglia. Non a caso, per risorse impiegate, siamo gli ultimi in Europa.
La seconda. I dati relativi all'aumento della povertà relativa suggeriscono quali dovrebbero essere le coordinate dell'intervento pubblico sul piano sociale. Al tempo stesso essi costituiscono un indicatore allarmante della tendenza in atto all'aggravamento delle diseguaglianze. Allarmante perché segnala non soltanto un grave problema sociale, ma perché è la spia che avverte circa l'esistenza di una causa importante del rallentamento della nostra economica.

Stando così le cose se ne deve tirare soprattutto una conseguenza. L'asse su cui debbono ruotare le proposte di politica economica per la prossima legislatura non può che essere quello dell'equità. Equità come decisivo fattore competitivo. Sotto tre importanti aspetti: una migliore attivazione delle risorse umane; un più diffuso impegno all'innovazione; una efficace ricostituzione della coesione sociale e quindi della fiducia.
E' appena il caso di ricordare che porre la lotta alla povertà ed all'esclusione in cima all'agenda politica comporta anche un prezioso corollario. Poiché infatti essa costituisce un imprescindibile collante del paese, non può che essere considerato del tutto naturale che lo sia anche della nuova maggioranza che sarà chiamata a governarlo
Venerdì, 14. Ottobre 2005
 

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