Articolo 18, ossessione e alibi

Che il nostro mercato del lavoro funzioni male è purtroppo vero: abbiamo il tasso di occupazione più basso tra i paesi industrializzati, vantiamo il medesimo record quanto a occupazione delle donne, dei giovani, degli over 45. Ma in tutto ciò l'art. 18 non c'entra nulla ed è forse la scusa per non occuparsi dei problemi veri

Lo spettro dell’articolo 18 continua a incombere sulla politica italiana. Il tempo sembra essersi fermato,  i nodi irrisolti della nostra società continuano ad essere lì, davanti a noi, come macigni.
Il nodo irrisolto, in questo caso, è il mercato del lavoro che non funziona.

Non è da ieri che non funziona. Da almeno venti anni i suoi vizi, che la crescita economica dei primi decenni del dopoguerra aveva nascosto sotto il tappeto, sono apparsi evidenti. Non è inclusivo: abbiamo il tasso di occupazione più basso tra i paesi industrializzati. E’ discriminatorio e produce segregazione: vantiamo il medesimo record quanto a occupazione delle donne, dei giovani, degli over 45 (ancor più se over 55), dei cittadini delle regioni meridionali.

Per qualche anno, sul finire dei Novanta, il trend si era invertito grazie a un ciclo economico meno negativo e a qualche novità introdotta dal governo Prodi-Treu ma dal 2001, anche per responsabilità dei governi Berlusconi-Sacconi, stiamo fermi e da ultimo stiamo andando indietro. La foglia di fico è il tasso di disoccupazione allineato alla media europea, ma è un’illusione ottica che riflette lo scoraggiamento (non a caso, è un dato che la UE ritiene di non dover prendere in considerazione nei suoi benchmark).

E però non si può parlare dei mali che affliggono il nostro mercato del lavoro senza che immediatamente faccia capolino lo scheletro, la dannata ossessione, vessillo di tutte le guerre verbali (che hanno prodotto però tragedie vere oltre a lutti da non dimenticare): l’articolo 18.
Come per un riflesso condizionato, c’è chi non può sentir parlare di riforma del mercato del lavoro senza lanciare l’anatema; quella norma va cancellata. I paladini di questa guerra, a ben vedere, non sono affatto numerosi. Per la loro collocazione trasversale agli schieramenti politici è perfino difficile attribuire il loro attivismo a un disegno politico definito. E’ una scuola di pensiero, forse resisterebbe in una ristretta cerchia accademica se le loro tesi non fossero l’alibi per tenere vivo un conflitto che ha come unico effetto concreto quello di inibire qualunque passo in avanti nella soluzione dei problemi reali che affliggono - drammaticamente – il nostro mercato del lavoro.
 
C’è una distanza troppo grande tra le tutele (economiche, normative, di sicurezza, perfino di dignità umana) previste per i lavoratori “standard” e quelle, minime ad un livello che si può tranquillamente definire di inciviltà, riservate ai lavoratori precari, discontinui, indifesi e disorganizzati. Al tempo stesso, dobbiamo preoccuparci del fatto che le tutele dei primi si stiano abbassando, senza che si riesca a far progredire quelle per i secondi. C’è poi la condizione di chi è fuori del mercato del lavoro, di tutti quelli discriminati dal suo funzionamento segregante, donne, giovani, anziani, meridionali, come ho accennato all’inizio.

A ciò si aggiunge l’anomalia tutta italiana delle politiche per il lavoro. La perdita del lavoro è sussidiata (poco) senza che il disoccupato possa godere di un aiuto efficace per tornare a lavorare: né dalla impresa che lo ha licenziato né dalle strutture pubbliche che esistono a questo scopo, assai malamente assolto. All’opposto, i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro non ricevono praticamente nessun sostegno nella ricerca di un’occupazione e, quando riescono ad inserirsi in qualche percorso di formazione o di orientamento per rafforzare la loro posizione, non viene dato loro alcun sussidio economico, diversamente da quanto accade nella totalità dei paesi avanzati.
Non funzionano neanche gli strumenti che dovrebbero garantire a chi viene assunto per la prima volta una formazione adeguata e un potenziamento delle sue capacità e delle competenze acquisite nel suo precedente itinerario scolastico: non sono diffusi come dovrebbero e per di più non raggiungono un livello qualitativo adeguato. Infine, per non andare troppo oltre con questo elenco, c’è il grande problema della legalità. Le leggi che tutelano il lavoro sono ampiamente violate senza che lo Stato riesca a sanzionare in modo adeguato tali violazioni, lasciando quindi un enorme divario tra il dettato delle norme e la realtà.
 
Sono alla portata soluzioni, o ipotesi di soluzione, quanto meno, per ciascuno di questi problemi e per il loro insieme? Credo di poter rispondere affermativamente e credo anche che - almeno tra chi, in tutto l’arco politico di centro-sinistra, opera in questo campo - siano ormai ampiamente conosciute e condivise.

Torniamo ancora per un attimo alla magnifica ossessione: che c’entra con tutto questo, con questi problemi e con le soluzioni su cui si va consolidando un ampio consenso, l’articolo 18? L’opinione prevalente, largamente a mio avviso, è che non c’entri assolutamente nulla. O, meglio, che la sua abolizione possa solo aggravare le cose.

Secondo alcuni è una norma eccentrica nel panorama internazionale. Non è vero, si veda, da ultimo, il resoconto del 4° seminario annuale dell’European Labour Law Network (ELLN) “La protezione contro il licenziamento in Europa”. Quella norma impedisce alle imprese di crescere oltre i 15 addetti? Non è vero, tutti gli studi che hanno indagato sull’esistenza di qualche effetto soglia nella curva dimensionale delle imprese hanno dimostrato il contrario (ad es. questo dell'Isae) e i dati sull’utilizzo dei contratti atipici dimostrano che sono proporzionalmente assai più diffusi nelle imprese sotto i 15 addetti che non nelle maggiori.

Vogliamo legittimare anche il licenziamento discriminatorio per evitare l’alea di un giudizio? E se non si tratta di questo, si può alimentare una campagna solo per sostenere un’ipotesi teorica (il licenziamento individuale per motivi economici) a cui nessuno con i piedi per terra può attribuire il minimo rilievo pratico? La domanda non ha altra risposta che quella iniziale. E’ una caccia ai fantasmi utile solo a chi non vuole cambiare lo stato di cose.
Facciamo dunque uno sforzo per cambiare l’agenda. Se ne è resa conto il ministro Fornero, sarebbe bello se il buon senso contagiasse anche altri. Lavoriamo per far sì che vengano uniformate in modo sostanziale le tutele per le diverse tipologie di lavoro, eliminando del tutto quelle che alimentano elusione e evasione. Diamo un sostegno effettivo, responsabilizzando a questo fine anche le imprese, nei casi di licenziamento per motivi economici, di messa in mobilità ma anche di sospensione, purtroppo numerosi in questo frangente. Introduciamo strumenti più efficaci di accompagnamento nella ricerca del lavoro, anche con un sostegno al reddito, e investiamo seriamente nella formazione al momento dell’ingresso e del reinserimento. Semplifichiamo il quadro normativo, anziché affastellare leggi e leggine, e rafforziamo gli strumenti di controllo e le sanzioni.

Servono grandi risorse? Certamente, ma sono senz’altro meno di quanto si paventa, se si mette in conto un’opera di perequazione e di disboscamento di privilegi, rendite e illegalità. Tanto più se pensiamo all’importanza che dovrebbe avere una riforma che non costa, a cui - questa è la mia radicata convinzione - dovremmo dare la priorità: una campagna per sradicare la cultura della precarietà, che ha preso il sopravvento, riaffermando la dignità del lavoro. Non significa tornare all’idea che la personalità umana, nella sua interezza, possa essere ridotta al lavoro, ma riaffermare il principio posto a capo della nostra Costituzione: quando se ne mortifica la dignità, è la personalità umana ad essere ridotta e mortificata.
Lunedì, 26. Dicembre 2011
 

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