Angela, la dea Nemesi e l’uscita dalla crisi

La speculazione è stata solo momentaneamente fermata e i provvedimenti per combatterla bloccheranno la ripresa. Senza più svalutazioni ci sarebbe una sola strada per tornare a crescere, ma i tedeschi non sembrano intenzionati a percorrerla

Nέμεσις era una dea, figlia della Notte e di Oceano, o forse di Zeus; di sicuro era una dea greca. Il nome viene dal verbo greco νέμο (distribuire); Nemesi era quindi la dea della giustizia, o della vendetta. Non è difficile cogliere l’entrata in azione di Nemesi il 9 maggio, con la sconfitta della Merkel e della sua coalizione nelle elezioni renane, proprio mentre i governi europei decidevano di fermare i guadagni senza rischio che stavano facendo gli operatori finanziari di là, ma anche di qua dell’atlantico.

 

Non è da credere che senza le elezioni nel Lander Nord-Reno Westfalia tutto sarebbe filato liscio, con i paesi europei pronti ad offrire prima di tutto liquidità alla Grecia, a discutere un piano realistico di rientro del deficit, preparando (in via riservata) anche un consolidamento del debito. Il consolidamento avrebbe prodotto un parziale default, con un costo per le banche detentrici di titoli greci, che avrebbero quindi sopportato una parte del costo dell’aggiustamento. In Germania l’euro è stato vissuto come l’estensione del deucht mark agli altri paesi, con l’obbligo di quest’ultimi di adottare le virtù germaniche dei bilanci pubblici in ordine. La scoperta della contabilità creativa greca ha scatenato un’ondata di indignazione, che  non si era verificata nei confronti delle banche (tedesche). La fase di incertezza che è durata fino a maggio ha scatenato gli operatori finanziari, ben provvisti di liquidità dalle politiche monetarie delle banche centrali, ed in affannosa ricerca di utili da conseguire.

 

Non si deve pensare che i provvedimenti presi domenica 9 maggio riescano ad addormentare il drago della speculazione finanziaria, anche se lo hanno momentaneamente fermato. Nulla tornerà come prima. Nei primi dieci anni di vita dell’euro i governi dei paesi mediterranei hanno potuto finanziarsi a tassi molto più bassi di quelli praticati in precedenza, essendo scomparso il rischio di cambio. Ad esempio lo spread rispetto al Bund tedesco dei Btp italiani si era ridotto a circa venti punti base, rispetto ai seicento dei tempi della lira. Ma è utopistico pensare che nei prossimi anni si possa tornare a spread di venti punti; il rischio di default peserà sui “Piigs”, che verranno seguiti con una lente d’ingrandimento dagli operatori finanziari, prima ancora che da Eurostat.  

 

I paesi mediterranei, una volta entrati nell’euro, rinunziavano alla svalutazione della moneta nazionale, che era stato il mezzo col quale, per venticinque anni, avevano risolto i problemi di competitività e di crescita delle loro economie, a costo di un più alto tasso d’inflazione e di un più alto tasso di interesse reale (e non solo monetario). Adesso, alle prese con misure più o meno draconiane di stretta fiscale, la strada della svalutazione “esterna” è preclusa, per cui non rimane che quella della svalutazione “interna”, cioè una fase di deflazione dei salari e dei prezzi tale da rilanciare la competitività. Gli effetti di provvedimenti di questo genere hanno ovvi feedback sulle entrate fiscali, con forti rischi di un avvitamento dell’economia. E‘ ormai una valutazione condivisa che una ristrutturazione del debito (con relativo parziale default) avverrà sicuramente per la Grecia.

 

Un rilancio della crescita europea (e mondiale) certamente sarebbe una mano santa per uscire da questa deprimente situazione. Se guardiamo gli anni novanta, è facile notare che l’uscita dalla crisi 1991-1993 avvenne grazie ad un buon andamento della seconda metà del periodo; ma fu facilitata dalle svalutazioni. Chi rilancia la crescita in Europa? E come? La nascita di un fondo europeo per la difesa dell’euro può portare ad un fondo europeo per gli investimenti, secondo le linee che erano state tracciate quasi venti anni fa da Jacques Delors? Non a caso il suo Libro Bianco era uscito nel pieno di una recessione che aveva investito l’Europa intera, e che si era tradotta, nei paesi scandinavi (i più colpiti dal crollo dell’URSS) in una caduta di svariati punti di Pil.

 

Per una risposta a questa domanda dobbiamo guardare alla Germania, cioè al paese con il più alto surplus commerciale in rapporto al Pil, con circa metà delle esportazioni dirette nell’area dell’euro. I tedeschi hanno “costituzionalizzato” l’obbligo del pareggio del bilancio pubblico; inoltre considerano una provocazione l’idea di un aumento dei salari: “ma come, con una disoccupazione così alta, volete che li aumentiamo?”. Va bene, si può rispondere, allora non resta che spostare sul piano europeo il finanziamento dei grandi investimenti di interesse comune, spostando le risorse a livello comunitario. Strada molto ardua; non a caso i 500 miliardi stanziati dai governi, sono costituiti da 60 miliardi del fondo comunitario, e di 440 miliardi di prestiti bilaterali (cioè controllati dai singoli Stati); ed è stata la Germania a resistere prima alla nascita del fondo stesso e poi a limitarne la dotazione.
Domenica, 16. Maggio 2010
 

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