Altro che rave, la sfida è il Pnrr

Il governo Meloni ha già smorzato i toni sulla “ricontrattazione” con Bruxelles, ma dovrà dimostrare alla Commissione di saper rispettare i tempi. Soprattutto, dovrà trovare un accordo sulle riforme, su temi delicati come concorrenza (vedi la questione dei balneari), giustizia e fisco

Tutta Europa guarda con attenzione al governo di centro-destra presieduto da Giorgia Meloni e – come affermato dal nuovo premier - alla “postura che il governo terrà verso le istituzioni europee”. Nei suoi discorsi programmatici di fronte alla Camera e al Senato Giorgia Meloni ha ricordato importanti temi europei come l’approvvigionamento energetico, la riforma del patto di stabilità, la politica della Bce, l’emissione di debito comune europeo.    

E’ poi planata sul Pnrr, che rappresenta non solo un’occasione imperdibile di crescita e di ammodernamento dell’Italia ma anche un banco di prova importante e quasi quotidiano dei rapporti con Bruxelles, considerata la sua fitta scadenza di traguardi e obiettivi. Il premier è consapevole dell’annoso problema di riuscire a spendere le risorse europee, rilevando nel suo intervento alla Camera come la Nadef di settembre abbia ridotto la spesa pubblica attivata dal Pnrr per il periodo 2020-2022 a 15 miliardi rispetto ai 29,4 previsti nel Def di aprile. Ciò a causa sia della lentezza della macchina amministrativa rispetto ai ritmi richiesti dal Piano sia dei rincari dei materiali da costruzione. Per portare a termine, da qui al 2026, il Pnrr occorrerà – ha aggiunto – concordare “con la Commissione europea gli aggiustamenti necessari per ottimizzare la spesa, alla luce soprattutto del rincaro dei prezzi delle materie prime e della crisi energetica”.

Occorre dire che su questo punto il neo presidente del consiglio ha mostrato maggiore prudenza rispetto a quanto sostenuto prima della costituzione del governo, quando molti esponenti della destra parlavano di “ricontrattare” il Pnrr, provocando l’immediata reazione della Commissione, disposta a concedere solo adeguamenti marginali. Deve essere parso evidente anche a Meloni che un Piano come il Pnrr, così puntuale, articolato e impegnativo, difficilmente può essere rinegoziato, a meno che non si possano cambiare le scadenze, cosa che la Commissione non intende fare. Al massimo si possono concordare con Bruxelles gli aggiustamenti resi necessari dall’inflazione. Non dimentichiamo che già il governo Draghi con i decreti aiuti di maggio ed agosto è intervenuto in materia, stanziando circa 9 miliardi di risorse nazionali per coprire gli extracosti dovuti ai rincari dei materiali e dell’energia. Ciò potrebbe non essere sufficiente per portare a compimento tutti i progetti del Piano e occorrerà allora stanziare nuove risorse interne con inevitabili ripercussioni sui conti pubblici, che, nel caso di sforamenti dei target di bilancio, andranno concordate con Bruxelles. Un compito al quale dovrà verosimilmente provvedere il ministro per le Politiche europee Raffaele Fitto, cui Meloni ha delegato la competenza sul Piano, di concerto con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.

 

Non è però questo l’aspetto più importante. I punti salienti, su cui si misurerà il rapporto tra la Commissione europea e il nuovo governo italiano, sono due.

Il primo è costituito dalla capacità del governo Meloni di realizzare gli investimenti previsti dal Pnrr. Sin qui il governo Draghi ha rispettato puntualmente gli impegni, raggiungendo tutti i traguardi e gli obiettivi del Piano, portando così a casa 67 miliardi di fondi europei. Altri 19 miliardi dovrebbero essere incassati agli inizi del 2023, se saranno raggiunti i 55 obiettivi previsti entro il 31 dicembre 2022, 21 dei quali sono stati già conseguiti da Draghi. Bisogna però dire che nella fase iniziale le scadenze del Pnrr vertevano soprattutto sull’emissione di bandi di gara e sul varo di decreti e provvedimenti amministrativi. E’ soprattutto dal 2023 in poi che bisognerà cominciare a fare gli investimenti, e si sa che la capacità di spesa della macchina amministrativa dello Stato e soprattutto degli enti locali è piuttosto lenta. Il difficile comincia adesso. Lo stesso Draghi nella Relazione sull’attuazione del Pnrr presentata al Parlamento il 5 ottobre affermava: “La prima fase di attuazione del Piano, dedicata soprattutto al disegno e all’approvazione delle riforme, si sta esaurendo. Nei prossimi mesi e anni occorre attuare queste riforme sul campo, monitorando continuamente i progressi verso il raggiungimento degli obiettivi quantitativi indicati nel PNRR. Per gli investimenti, la fase relativa alle procedure pubbliche per l’assegnazione delle risorse ai soggetti attuatori è in gran parte terminata: occorre ora fare in modo che gli investimenti siano portati a termine nei tempi e nei modi previsti, assicurando che le risorse europee siano spese in modo trasparente e onesto”.

Va inoltre considerato che il nuovo governo è intervenuto sulla governance del Piano, un meccanismo molto delicato e fondamentale, che finora ha funzionato bene ruotando sull’asse Presidenza del Consiglio – ministero dell’Economia. Da una parte c’erano Draghi e il suo sottosegretario Garofoli, coordinatore del Pnrr, e dall’altra Daniele Franco, fedelissimo di Draghi, e la Ragioneria dello Stato, presso la quale opera il Servizio centrale per il Pnrr, che ne costituisce il braccio operativo. Ora invece al posto di Garofoli troviamo Fitto e al posto di Franco Giorgetti. E quindi bisognerà porre attenzione al rapporto che si instaurerà tra Meloni e Fitto (FdI), da una parte, e il leghista Giorgetti dall’altra. Non è detto che i ben oliati meccanismi di prima si riproducano perfettamente anche adesso.

 

Il secondo punto, ancora più rilevante del primo nel misurare il rapporto tra il nuovo governo e la Commissione, è quello delle riforme previste dal Pnrr, che riguardano pubblica amministrazione, giustizia, concorrenza, semplificazione della legislazione tra cui codice degli appalti, sistema fiscale nonché specifiche misure settoriali. Finora il precedente governo, che scontava il disaccordo tra le forze politiche su quasi tutti questi temi, se l’è cavata emanando leggi delega. A cui però dovranno seguire i decreti attuativi. Sarà su quest’ultimi che il governo Meloni dovrà venire allo scoperto. E non è detto che quello che vuol fare il nuovo governo stia bene anche alla Commissione. Ad esempio, in tema di concorrenza, il nodo della messa a gara delle concessioni balneari, su cui Draghi ha rimandato la decisione al 2023, verrà fatalmente al pettine l’anno prossimo. Si sa che la destra vuole evitare dei veri bandi di gara aperti agli stranieri, perché intende salvaguardare l’orticello dei piccoli concessionari locali. Ma ciò contrasta con i principi cardine della concorrenza europea affermati dalla direttiva Bolkestein. Anche le riforme della giustizia e del sistema fiscale rappresentano un potenziale terreno di scontro. Saranno queste le vere questioni su cui Giorgia Meloni dovrà confrontarsi con Bruxelles. Il mancato accordo metterebbe a rischio i fondi del Pnrr (compresi, in caso di grave inadempienza, quelli già erogati) ed emarginerebbe l’Italia rispetto all’Europa che conta (Francia e Germania), spingendola tra le braccia di Orban. La sfida non è solo economica, ma soprattutto politica. 

Martedì, 8. Novembre 2022
 

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