Allargamento un anno dopo, il 'selvaggio Est'

A un anno dall'ingresso dei nuovi membri il primo bilancio ispira un po' di delusione. Non solo per la loro crescita troppo lenta, ma anche perché quasi tutti sembrano aver sposato il modello ultra-liberista che piace tanto al Fondo monetario

All'inizio della primavera di un anno fa eravamo alla vigilia dell'allargamento dell'Unione europea a nuovi dieci paesi, otto dei quali dell'Europa centro orientale. L'evento che consacrava la riunificazione dell'Europa suscitò un giustificato entusiasmo. Ma, a un anno di distanza, l'interesse verso i nuovi paesi dell'Unione sembra scemato. L'attenzione è tutta rivolta alla prossima (e controversa) apertura dei negoziati per l'ingresso nell'Unione della Turchia.  La cosa non stupisce. La Turchia da sola ha più abitanti dell'insieme dei dieci paesi entrati nel 2004, apre l'Unione a uno dei più grandi paesi islamici e dilata i confini dell'Europa fino all'Iraq e all'Iran.
 
Eppure, queste sorprendenti prospettive dell'allargamento (che in futuro potrebbe coinvolgere anche l'Ucraina) non dovrebbero offuscare i cambiamenti in corso nei paesi già entrati a far parte dell'Unione e i loro riflessi sulla vecchia, "old" Europa - come la definì spregiativamente il segretario alla difesa americano Donald Rumsfeld.

Proviamo a fare un primo bilancio di quanto c'è di nuovo nell'Unione a 25.
Una prima confortevole constatazione è che i "nuovi" paesi stanno realizzando una crescita economica migliore di quella dei Quindici. Dopo un duro decennio di ristrutturazioni e di declino del reddito nazionale, i paesi del vecchio blocco comunista fanno registrare una crescita media intorno al quattro per cento del PIL. Crescita che fa buona figura rispetto al grigiore dell'Unione nel suo complesso, ma che rimane, tuttavia, insufficiente per paesi che hanno un grande ritardo di sviluppo, soprattutto se confrontata alle performance dei paesi emergenti dell'Asia.
 
La crescita varia, peraltro, significativamente. Nei piccoli paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) raggiunge il 6-7 per cento annuo, ma la media si abbassa intorno al tre-quattro per cento, con oscillazioni sotto e sopra nel corso degli ultimi anni, in Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia e Slovenia. Considerando che il loro reddito pro-capite oscilla fra cinque e sette mila euro l'anno, contro la media di 24.000 nei Quindici, si calcola che, per colmare il divario, sono necessari da trenta a cinquanta anni. Le differenze non riguardano solo il ritmo di crescita e i livelli di reddito. La disoccupazione che in Ungheria è al 6 per cento (vale a dire, al di sotto della media dell'Unione) raggiunge il 20 per cento in Polonia e il 17 per cento in Slovacchia, colpendo in particolare i giovani, le donne e le aree rurali.

Al di là delle differenze, vi è una caratteristica comune: su tutti si esercita una forte pressione per l'adozione di un modello di transizione ispirato all'ortodossia neoliberista. I tutori dell'ortodossia sono il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l'Ocse, la stessa Commissione europea. Il modello prevede un accelerato processo di privatizzazioni, la deregolazione del mercato del lavoro, la contrazione della presenza pubblica con la riduzione del prelievo fiscale e la drastica riduzione della spesa sociale.

Nell'adeguarsi a questo modello, alcuni paesi sono più ligi ai canoni dell'ortodossia neoliberista, altri più recalcitranti. Tra i piccoli paesi, l'Estonia, nell'estremo lembo dell'Unione, si è dimostrata la più fedele ai precetti neoliberisti. Ma l'Estonia è troppo piccola per fare da modello. Il caso che il Fondo monetario indica come esempio da seguire è quello della Slovacchia: un modello che prevede una serie di tappe successive.

La prima tappa è costituita dalla privatizzazione delle vecchie imprese pubbliche. Alle multinazionali spetta il compito di ristrutturarle, tagliando l'occupazione e godendo di un costo del lavoro che oscilla da un decimo a un quinto di quello della vecchia Unione. Ma le privatizzazioni che destano il maggiore appetito nelle multinazionali europee e americane sono quelle dei servizi finanziari e di pubblica utilità: le banche, le assicurazioni, l'energia, i telefoni. I governi le favoriscono perché portano capitali, anche se non allargano la base produttiva, e consentono di alleviare il disavanzo commerciale.

Intanto, ai vertici delle imprese multinazionali cresce uno strato ristretto ma influente di lavoratori a più alta professionalità e con redditi relativamente elevati. Questo nuovo strato sociale appoggia senza riserva il progetto neoliberista, mentre guarda con sufficienza al modello sociale europeo. Per chi viaggi nelle capitali dei nuovi paesi dell'Unione, il cambiamento appare sorprendente. L'arrivo delle imprese multinazionali, delle banche, dei centri commerciali di stile occidentale, degli hotel appartenenti alle grandi catene internazionali danno alle capitali, o quanto meno ai loro centri storici e direzionali, un'aria di splendore e di benessere, come avviene in tutte le città-pilota delle economie emergenti nel sudest asiatico. Ma il divario col resto del paese è stridente..

La novità più rilevante degli ultimi anni non sta, tuttavia, nelle privatizzazioni che attraggono i capitali stranieri - fenomeno che, con maggiore o minore velocità, tende a esaurirsi - quanto nelle riforme fiscali. Per continuare ad attrarre capitali è in pieno svolgimento una corsa al ribasso delle imposte. Anche in questo caso, l'esempio più pubblicizzato viene dalla Slovacchia. Il suo governo, espressione dal 1999 da una coalizione di centro destra, di chiara ispirazione neoliberista, ha compiuto il passo più radicale. Ha liquidato ogni nozione di progressività, adottando un unico livello d'imposta (flat rate) del 19 per cento per i profitti d'impresa, i redditi personali e i consumi. Il ministro delle Finanze non ha nascosto che l'obiettivo è dirottare in Slovacchia i nuovi investimenti, come quelli per la produzione automobilistica, che vanno a caccia delle condizioni più favorevoli.

Il dumping fiscale costringe i paesi circostanti (in primo luogo, Ungheria e Repubblica ceca) a correre ai ripari con un progressivo abbattimento del prelievo. La riduzione delle imposte non è tuttavia un pasto gratuito. Per farvi fronte senza sfondare il disavanzo pubblico, che deve essere mirato al raggiungimento dei parametri di Maastricht, è necessario comprimere drasticamente la spesa pubblica in investimenti infrastrutturali e, in primo luogo, la spesa sociale. A farne le spese sono l'istruzione, la sanità, le indennità di disoccupazione e l'assistenza alle famiglie sotto la soglia della povertà.

I sistemi pensionistici costituiscono un capitolo a parte e, per molti versi, esemplare. Qui l'obiettivo è la privatizzazione di almeno una parte del sistema contributivo a ripartizione. In Polonia, dove il cambiamento è stato ispirato ai principi della riforma italiana (pensione a contribuzione definita che si calcola all'età del pensionamento sulla base dei contributi versati durante tutta la vita lavorativa), una parte della contribuzione è dirottata obbligatoriamente sui Fondi a capitalizzazione. Questo passaggio aggrava il disavanzo pubblico, poiché le pensioni in atto debbono essere corrisposte a fronte di una riduzione del prelievo contributivo. Ma sia il Fondo monetario internazionale, che è il cane da guardia degli equilibri di bilancio, che la stessa Commissione europea considerano l'aggravio del disavanzo accettabile come contropartita della riforma. La Banca mondiale ha perfino elargito un milione di dollari alla Slovacchia per pubblicizzare la riforma che trasferisce la metà dei contributi pubblici al sistema privato.

Considerato l'alto livello di disoccupazione, di discontinuità del lavoro e di occupazione informale, molti analisti prevedono che una parte rilevante di lavoratori non raggiungerà i requisiti minimi per l'accesso alla pensione (25 anni di contribuzione minima, per esempio, in Polonia), e dovrà vivere di una pensione sociale di carattere puramente assistenziale. E' interessante notare che la recente proposta del presidente Bush basata sul trasferimento di un terzo dei contributi pagati alla Social security ai "conti personali"diretti ai Fondi pensionistici a capitalizzazione, sta incontrando negli Stati Uniti non solo il rifiuto dei democratici, ma anche l'ostilità di una parte del partito repubblicano. E' la dimostrazione che si può essere più realisti del re. E'quello che succede a molti giovani tecnocrati che, provenienti dagli studi nelle Università americane, non esitano a fare, in prima persona, il lavoro che nell'America latina degli anni 80 fu affidato ai "Chicago boys" del Fondo monetario internazionale. E, non a caso, alcuni slogan pubblicitari invitano a investire nel nuovo "selvaggio Est", come nei primi anni 90 si faceva in Argentina.

In questo quadro, non può stupire una crescente insoddisfazione, e il clima di malessere sociale e di sfiducia che si riflette sullo scenario politico. Alle elezioni per il Parlamento europeo dell'estate del 2004, la partecipazione media nei nuovi paesi dell'Europa centro-orientale è stata del 27 per cento con punte più basse,
come il 20 per cento in Polonia e il 17 per cento in Slovacchia. Ancora meno confortante il fatto che il voto espresso ha premiato spesso i partiti euroscettici, quando non apertamente contrari all'Unione. Un comportamento che rovescia l'iniziale entusiasmo manifestatosi al momento dei referendum convocati per ratificare l'adesione all'Unione europea.

Lo stato di frustrazione si riflette sulla instabilità delle coalizioni di governo, indipendentemente dal loro colore politico e dal fatto che siano coalizioni di centrodestra o di centro-sinistra. Si fanno largo i partiti etnocentrici e populisti, mentre riemergono i partiti comunisti che si erano eclissati dopo l'89, come nella Repubblica ceca, dove nelle ultime elezioni politiche il partito comunista ha raggiunto il 20 per cento dei voti, mentre crollavano i partiti che sostengono il governo di centro-sinistra. Così accade che i governi in carica abbiano nei sondaggi un consenso popolare inconsistente che può scendere al 10 percento com'è tristemente successo nel 2004 al governo polacco di centrosinistra diretto da Leszek Miller, dimessosi il giorno stesso dell'entrata della Polonia nell'Unione europea.
 
Lo scenario rimane, tuttavia, tutt'altro che uniforme. I governi reagiscono diversamente alle pressioni provenienti dagli organismi finanziari internazionali. Cresce  la resistenza a sacrificare lo sviluppo e un livello decente di equità sociale ai precetti della stabilizzazione, accompagnata da segnali crescenti di protesta sociale che frenano le riforme a senso unico. L'International Herald Tribune segnalava di recente il possibile avvento in Polonia di un nuovo Lec Walesa, questa volta in vesti femminili, per l'organizzazione della protesta contro una catena di supermercati che sistematicamente non remunera il lavoro straordinario. L'anno scorso il sindacato slovacco raccolse, con l'appoggio dei partiti di opposizione, 600.000 firme (in proporzione, come se in Italia se ne raccogliessero sei milioni) per un referendum contro il governo.

L'insegnamento che si può trarre da uno sguardo d'insieme è che l'ingresso nell'Unione non ha concluso i processo di transizione dai vecchi regimi comunisti alle diverse possibili forme di economia di mercato e di uno stato sociale più vicino alla tradizione dei regimi democratici europei. Ma è certo che i cambiamenti in atto nella "nuova" Europa si riflettono sul futuro dell'Unione europea. Non è mancato chi ha intravisto in un processo di allargamento in continua espansione il rischio di una disgregazione dell'Unione e la sua riduzione sostanziale a una grande zona di libero scambio.

Ma non è detto che le cose debbano andare in questa direzione. I popoli dei nuovi paesi si attendevano e continuano ad attendersi regimi non solo più aperti e democratici ma rapporti sociali più consoni con quel modello sociale al quale nell'epoca dei regimi comunisti guardavano con invidia e speranza. Il tema dell'allargamento merita indubbiamente una riflessione che oggi appare insufficiente quando non del tutto latitante.

 

Venerdì, 11. Marzo 2005
 

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