Abbiamo una banca (pubblica)

Smantellato da tempo il sistema pubblico del credito, la Cassa depositi e prestiti è il solo strumento che i governi possono usare per gli investimenti strategici: come le consorelle di altri paesi la Ue la pone fuori dal perimetro statale. Potrebbe entrare nei progetti “interventisti” preannunciati dai 5S

Nella campagna elettorale del 4 marzo è riaffiorato il tema, sempre latente nel dibattito sul sistema economico-finanziario italiano, della banca pubblica per gli investimenti. Una banca cioè in grado di investire in settori strategici anche quando i privati non lo fanno e capace all’occorrenza di acquisire partecipazioni strategiche in grandi imprese di interesse nazionale. In passato per fare la prima cosa vi era il sistema degli istituti di credito speciale, che erogavano finanziamenti a medio-lungo termine – l’Imi, il Crediop, il Mediocredito centrale, i Mediocrediti regionali – mentre la seconda era affidata alle partecipazioni statali. Gli istituti di credito speciale sono stati spazzati via dalla riforma bancaria, che ha abolito la separazione fra banche di credito a breve e banche di credito a medio-lungo termine, così come le partecipazioni statali sono state ormai da tempo smantellate. Sono rimaste però le quote di controllo che lo Stato possiede in alcune grandi imprese di interesse strategico, come Eni, Enel, Ferrovie.

A riportare il tema alla ribalta è stato il Movimento 5 Stelle, inserendo nel proprio programma la costituzione di una banca pubblica con un capitale iniziale di 10 miliardi, che avrebbe il compito di finanziare gli investimenti nelle infrastrutture, le start-up innovative e i mutui per la prima casa e la messa in sicurezza delle abitazioni. Inoltre la banca dovrebbe fornire prestiti a tassi molto bassi alle piccole e medie imprese e alle imprese innovative in "settori strategici per il futuro" (mobilità, salute, servizi sociali e formazione, tempo libero, cultura, energia e ambiente, nuove filiere produttive urbane). 

La proposta del M5S si intreccia con il ruolo sempre più “interventista” che da qualche anno sta acquisendo la Cassa depositi e prestiti (Cdp). Nata per finanziare gli enti territoriali attraverso il risparmio postale, Cdp è diventata ormai una sorta di braccio finanziario del governo, fungendo da banca di riferimento per gli investimenti del Piano Juncker, supportando l’internazionalizzazione delle imprese italiane attraverso Sace e Simest (di cui possiede il 100%), acquisendo partecipazioni strategiche in gruppi nazionali di primaria importanza, come Eni, Saipem, Terna, Fincantieri, Ansaldo, Poste italiane e molti altri. Cdp è entrata a pieno titolo nella partita sulla banda larga, sottoscrivendo il 50% del capitale di Open Fiber (l’altro 50% è in mano all’Enel), ed è entrata con quasi il 5% nel capitale di Tim, giocando un ruolo fondamentale assieme al fondo Elliott per mettere in minoranza i francesi di Vivendi. Inoltre ha partecipato ai fondi Atlante 1 e Atlante 2 destinati al salvataggio delle banche in crisi ed ha formulato con Jindal e Del Vecchio un‘offerta per l’Ilva, finita però in mano al gruppo Arcelor Mittal. Da ultimo il presidente Costamagna, scelto da Matteo Renzi ed ora giunto a fine mandato, ha manifestato segnali d’interesse per Alitalia.

Cdp è posseduta per l’82,7% dal Tesoro e per il 15,9% dalle fondazioni bancarie. Proprio quest’ultime hanno un ruolo molto importante, perché sono state finora uno dei due motivi per cui la Cdp non viene considerata far parte del perimetro dello Stato. L’altro motivo è il vincolo, in realtà un po’ allentatosi con il tempo, che Cdp acquisisca partecipazioni in aziende sane e non in imprese decotte. Grazie a queste due buone ragioni la Commissione europea non ha finora considerato gli interventi della Cassa come aiuti di Stato e ha di conseguenza escluso il suo debito dal perimetro del debito pubblico. Forti di questa salvaguardia, gli ultimi governi hanno sovraccaricato Cdp di partecipazioni, assegnandole un ruolo molto importante nello scacchiere finanziario italiano.

Ma i nodi ormai stanno venendo al pettine. Non solo la Commissione europea guarda con lenti d’ingrandimento sempre più spesse alle operazioni di Cdp, ma anche le banche italiane temono un suo eccessivo “sforamento” rispetto ai compiti originari, soprattutto se proprio la Cassa dovesse diventare la banca pubblica tratteggiata a grandi linee da Di Maio e su cui anche Salvini sarebbe probabilmente d’accordo. Oltre che nel programma del Movimento, del ruolo strategico che la Cassa potrebbe rivestire come banca d’investimento hanno parlato sia Giacinto Della Cananea nel contratto che M5S avrebbe dovuto stipulare o con la Lega o con il Pd, sia Andrea Roventini, il ministro dell’Economia in pectore dei pentastellati, che ha richiamato Cdp sulla necessità di perseguire con più chiarezza obiettivi di sviluppo industriale e tecnologico.

I problemi per la formazione del governo hanno per ora messo in secondo piano i propositi dei grillini, ma è chiaro che qualunque governo verrà si servirà della Cassa per incidere sul sistema economico- finanziario, come hanno fatto gli ultimi esecutivi. L’essenziale è che Cdp mantenga una gestione trasparente, considerato che gestisce una grossa fetta del risparmio degli italiani. D’altra parte, come la crisi dell’ultimo decennio ha dimostrato, è innegabile che si avverta in Italia la mancanza di una banca pubblica che investa in settori strategici. I tedeschi, i francesi e gli spagnoli ne hanno una ciascuno - denominate rispettivamente Kfw, Cdc e Ico – che funzionano molto bene. Noi invece abbiamo smantellato il sistema degli istituti di credito speciale, senza sostituirlo adeguatamente. Allo stesso modo lo Stato non può rinunciare ad avere partecipazioni strategiche nell’energia, nelle telecomunicazioni, nelle grandi reti di trasporto, se vuole compiere scelte forti di politica industriale. Il problema è definire le regole e stabilire bene i campi di competenza tra il sistema finanziario privato e un istituto, come la Cdp, a cavallo tra lo Stato e il mercato.

Lunedì, 14. Maggio 2018
 

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