“Legge schiavitù”, un Jobs act all’ungherese

L’aumento da 250 a 400 ore annue praticamente a discrezione delle imprese e pagabili con una dilazione fino a tre anni ha scatenato nel paese magiaro una fortissima protesta. Ma il despota Orban non fa altro che seguire la stessa strada di tanti altri paesi, una strada tracciata dalle oligarchie internazionali degli affari

Come capita da diversi anni, è cambiato molto il mio modo di intendere il piacere di “andare in giro”. Premesso di aver avuto la fortuna, a partire dall’età di 16 anni, di poter viaggiare molto, in Italia prima e all’estero poi, rilevo che, ormai, all’entusiasmo che mi coglieva all’idea di raggiungere una nuova meta, ho, da tempo, sostituito il rassicurante piacere di rivedere cose e luoghi a me già noti e familiari. In effetti, se è giusto affermare che “L’assassino torna sempre sul luogo del delitto”, nel mio caso, si dovrebbe parlare di un vero e proprio “serial killer”!

Era questa la scherzosa conversazione che, qualche giorno fa, intrattenevo con mia moglie - fedele compagna di viaggio nel corso degli ultimi 40 anni - immersi nello straordinario scenario e nella magica atmosfera “d’altri tempi” del “New York Bar”, una tra le più belle e, forse, la più elegante location esistente al mondo; nel quartiere ebraico di Budapest.

Considero, quindi, una gran fortuna essermi ritrovato qui proprio nei giorni in cui si è sviluppata la grande protesta - culminata in una manifestazione cui, si dice in giro, avrebbero partecipato oltre 15 mila persone - contro la cosiddetta “legge schiavitù”.

Legge così definita perché le norme approvate dall’esecutivo “comandato” da Orban, il novello despota ungherese (che tanto piace al nostro rozzo Salvini (1)), offrono la possibilità alle imprese di pretendere prestazioni di lavoro straordinario che, dall’attuale limite di 250 ore annue, passano a 400.    

In realtà, la possibilità, per le imprese, di pretendere un così corposo aumento delle ore di straordinario (pari al 60 per cento) - attraverso accordi con i lavoratori che, in sostanza, escludono  qualsiasi ruolo da parte delle rappresentanze sindacali - costituisce solo l’ultimo passo di un processo teso ad aumentare al massimo i livelli di flessibilità, precarizzare i rapporti i lavoro (con massiccio ricorso al tempo determinato) e sottrarre tutele e diritti ai lavoratori; sia riducendo il potere contrattuale dei sindacati, sia riconoscendo particolari poteri  alla contrattazione locale e aziendale, in deroga a quella, classica, di livello nazionale.

Tra l’altro, è addirittura incredibile e, direi, sfiora la farsa, quanto indicato dalla legge, relativamente al pagamento delle prestazioni di lavoro straordinario. Si prevede, infatti, che le aziende abbiano tre anni di tempo, a loro disposizione, entro i quali retribuire i lavoratori!

Possibilità che, evidentemente, fa piena luce sulla macroscopica menzogna di coloro che, con il Presidente-despota, sostenevano l’esigenza di approvare la suddetta legge al solo fine di “favorire quei lavoratori che avessero più voglia di lavorare per guadagnare di più”. Gran bella soddisfazione, di certo, chiedere di lavorare 8 ore in più a settimana e scoprire che il pagamento potrà avvenire nell’arco dei prossimi tre anni!

È per questo, evidentemente, che i lavoratori magiari innalzavano cartelli sui quali appariva scritto: “Non chiamatela legge sul lavoro; è una legge sulla schiavitù” e le loro rappresentanze sindacali, attraverso il presidente della Federazione sindacale unitaria ungherese, Laszlo Kordas, annunciavano lo sciopero generale e la richiesta di aumento dei salari; unitamente a un sistema pensionistico più flessibile.

Alle proteste dei lavoratori si aggiungono le denunce per gli attacchi agli organismi giudiziari ungheresi; in estrema sintesi, coloro che si oppongono alla riforma ritengono che Orban intenda “normalizzare” il sistema, superando l’indipendenza dei giudici e sottoponendo l’operato della Corte Suprema alla supervisione governativa. 

Naturalmente, gli oppositori contano molto anche sull’appoggio “esterno” - di carattere, evidentemente ed esclusivamente, diplomatico - perché sperano sull’avvio nel 2018, da parte dell’Europarlamento, del cosiddetto “articolo 7”; una procedura di infrazione, a carico di Orban, per violazione dello Stato di diritto e principi fondativi dell’Ue.

Chi, però, riesce, in un certo senso, a non lasciarsi distrarre dalle apparenze, sa bene che le cose non sono così semplici e lineari, come appaiono ad una prima, sommaria, analisi.

Se è vero, infatti, che l’esecutivo condotto da Orban si è reso responsabile di atti ed azioni riprovevoli, condannate in patria come nel resto del mondo - alludo alla costruzione del muro contro l’ingresso di extracomunitari e alle disposizioni contro i circa 50 mila senzatetto, minacciati di arresti “di massa” se scoperti 3 volte in 90 giorni a dormire all’aperto - è altrettanto drammaticamente vero che le agevolazioni fiscali, la commistione pubblico/privato delle scuole superiori e delle Università (per “creare” manodopera rispondente alle esigenze delle multinazionali) e, non ultima, la politica dei bassi salari (2), rappresentano il prodotto di ingombranti “ingerenze” esterne.

Le retribuzioni sono indicate in fiorini ungheresi (HUF) (3)

LAVORATORI

SALARIO LORDO

IRPEF (15%)

CONTRIBUTI (18,5%)

SALARIO
NETTO

Non Qualificati

138.000

20.700

25.530

91.700

Qualificati

180.500

27.075

33.393

120.032

In euro, i salari minimi netti corrispondono a circa 296 euro per i lavoratori non qualificati e a 388,5 euro per i lavoratori qualificati (cambio 309HUF/EUR MNB,       22 gennaio 2018).

 

Ciò significa, come d’altra parte già verificato in Italia - senza bisogno di dilungarsi in esempi che sono sotto gli occhi di tutti - che, di là dalle decisioni dei singoli Stati, anche quelle competenze che, apparentemente, sembrerebbero riservate ai governi nazionali, sono di norma condizionate da una oligarchia lobbistica/finanziaria internazionale che lascia ben poco al caso e all’autonomia.

Non a caso le riforme che, negli ultimi anni, in tema di lavoro, sono state realizzate in Italia e nei maggiori paesi europei, Germania e Francia in testa - attraverso la crescente flessibilità, l’indiscriminato aumento della precarietà, il ridimensionamento dei poteri sindacali, l’attenuazione del ruolo e della discrezionalità dei giudici del lavoro e lo svilimento del ruolo della contrattazione nazionale (a vantaggio di quella territoriale, settoriale, di azienda e, addirittura, personale), nonché i feroci attacchi ai diritti e alle tutele legali e contrattuali - fanno parte, ormai, di un disegno in gran parte realizzato.

Tornando al caso ungherese, preso atto che i dati più recenti indicano nella produzione di autovetture il pilastro sul quale poggia il sistema industriale del paese e rilevato che sono le maggiori case automobilistiche europee(e non solo quelle) ad avere effettuato ingentissimi investimenti in terra magiara - Mercedes, Opel, Tata, Suzuki, Bmw - si comincia, forse, a rendersi conto che, di là della natura fascistoide di Orban e del suo esecutivo, in Ungheria, come in tanta parte dell’intera Ue sono presenti “condizionamenti esteri” particolarmente gravosi.

Tanto da indurre - credo, a giusta causa - i manifestanti ad esporre cartelli molto eloquenti, del tipo: “Il servo delle multinazionali rende schiavi i lavoratori ungheresi!” nei quali, come suol dirsi, “ogni riferimento non era puramente casuale”.

D’altra parte, quando si parla di condizionamenti provenienti dall’estero - da parte di istituzioni, organismi e/o soggetti che, teoricamente, non avrebbero nulla a che vedere con le materie del contendere - le esperienze sono ormai tali e tante da non destare più alcuna meraviglia.

In questo senso, qualcuno, credo, ancora ricorderà quello che si verificò alcuni anni or sono in una delle province più industrializzate della Cina. Dopo anni di richieste inascoltate, il governo provinciale del Guangdong finalmente concesse ai lavoratori dell’industria locale un aumento del salario orario corrispondente, se ricordo bene, a circa 20/25 centesimi di euro. Le conseguenze furono imprevedibili. Contro il provvedimento (pari, ripeto, a 0,20/25 € l’ora) si levarono alte le proteste dei rappresentanti delle Camere di Commercio e delle associazioni sindacali degli industriali di quasi tutti i paesi dell’Ue!

In definitiva, probabilmente, se successivamente alle enormi pressioni delle lobby occidentali non fosse intervenuto, a sostegno delle autorità locali, il governo centrale di Pechino, anche quel miserevole aumento, sarebbe stato revocato.

In questo contesto appare molto più chiara una situazione internazionale - che si estende ben oltre i confini dell’Ue - assolutamente condizionata perché succuba di scelte economiche, prima ancora che politiche, di carattere transnazionale.

Scelte che incidono sulle sorti di uomini e donne che distano, fisicamente, anche decine di migliaia di chilometri da centri di potere sempre più evanescenti.

Giovedì, 7. Febbraio 2019
 

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