La produttività si stimola anche con la contrattazione

Per ben trent'anni il valore aggiunto per unità di lavoro è aumentato costantemente, poi, dal 2000, si è fermato. Tra le condizioni per farlo tornare a crescere, distribuire gli aumenti di produttività anche alle aziende dove non si fa contrattazioe, sul modello adottato dai metalmeccanici

In un precedente articolo su Eguaglianza & libertà ho mostrato che il grave rallentamento della crescita dell’economia italiana è dovuto ad una vera e propria crisi della produttività del lavoro. In particolare, a causa dell’insufficiente dinamica della produttività oraria, l’Italia ha già subito, tra il 1995 e il 2006, un gravissimo quanto unico impoverimento rispetto ai paesi dell’Unione Europea: il valore del suo reddito per abitante, che nel 1995 era di 6 punti percentuali superiore alla media dell’UE-15, è caduto nel 2006 ad un valore di 8 punti inferiore alla media. In altri termini, l’impoverimento italiano dovuto alla crisi della produttività si può quantificare in circa 14 punti del reddito medio dell’UE-15.

 

Se analizziamo in maggiore dettaglio l’andamento di lungo periodo della produttività del lavoro in Italia notiamo che tra il 1970 e il 2000, al netto degli effetti di composizione settoriale, questo è stato all’incirca costante (tav. 1): per ben trent’anni il valore aggiunto per unità di lavoro a tempo pieno è cresciuto, in media, del 2 per cento l’anno. Se sovrapponiamo a questa dinamica di fondo le trasformazioni strutturali del sistema economico (esodo agricolo, deindustrializzazione, terziarizzazione), notiamo che queste hanno agevolato la crescita della produttività solo negli anni ’70 (di circa mezzo punto l’anno). In quel decennio, infatti, l’occupazione agricola (che aveva una produttività del lavoro pari a un quarto circa della media dell’economia) si è ridotta dal 19 al 14 per cento del totale, l’occupazione industriale (con una produttività intorno alla media) è rimasta pressoché stabile intorno al 38 per cento del totale e l’occupazione nei servizi (con una produttività in rapido ridimensionamento, ma comunque sempre notevolmente superiore alla media) è cresciuta dal 42 al 49 per cento del totale.


Nei decenni successivi il contributo della trasformazione strutturale alla crescita della produttività è stato negativo: a) l’esodo agricolo è stato più contenuto, ma il suo apporto si è ridotto perché nel frattempo la produttività del lavoro agricolo è rapidamente cresciuta; b) la deindustrializzazione ha iniziato a far sentire in modo più pesante i suoi effetti (tra il 1980 e il 2000 l’occupazione industriale è caduta dal 38 al 32 per cento dell’occupazione totale); c) e la terziarizzazione ha portato al 61 per cento la quota dell’occupazione nei servizi sul totale, mentre la produttività media di questo segmento dell’occupazione cadeva rapidamente dal 118 al 100 per cento della media dell’economia.


Il sistema economico italiano, dunque, si trova a dover fronteggiare dal 1980 al 2000 una trasformazione strutturale che ne sfavorisce la crescita. Se questo fenomeno ha indubbiamente costituito un elemento di freno dello sviluppo, non è però ad esso che si può in alcun modo imputare l’attuale crisi della produttività. I dati successivi al 2000, infatti, mostrano chiaramente che gli effetti di composizione diventano nulli, ma la produttività netta subisce un vero e proprio tracollo in tutti i settori dell’economia (3,6 punti l’anno di crescita in meno in agricoltura, 3 punti in meno nell’industria, 1,2 punti in meno nei servizi orientati al mercato – in media, 1,9 punti meno nell’intera economia).

I dati segnalano con assoluta evidenza la necessità di procedere con urgenza alla riqualificazione dell’intero apparato produttivo, dei luoghi e dei rapporti di lavoro. L’adozione di nuove tecnologie non è sufficiente, se esse non vengono collocate in ambienti di lavoro e gestite attraverso rapporti di lavoro capaci di utilizzarle al meglio: ambienti di lavoro flessibili, snelli e con limitati rapporti gerarchici, intercomunicanti e polifuzionali; rapporti di lavoro basati sul principio della responsabilizzazione, sul lavoro di squadra, sul controllo dei processi e non più sulla mera esplicazione di funzioni, sull’intelligenza applicata al lavoro, sull’apprendimento e la condivisione delle conoscenze, sul miglioramento continuo.



Con Nicola Acocella e Riccardo Leoni ho segnalato da tempo l’urgenza di un nuovo patto sociale (si veda questo articolo di E&L), che mobiliti le energie dei partner sociali per porre in essere quanto prima questo rinnovamento e avviare un nuovo ciclo di crescita della produttività e delle retribuzioni. Una delle cause della crisi, infatti, è dovuta al venir meno, nel quadro di regolazione del mercato del lavoro predisposto dal protocollo ’93 e dalla liberalizzazione delle forme contrattuali, degli incentivi a migliorare la produttività: sia per le imprese, che hanno potuto ottenere ritorni interessanti anche da attività poco produttive, sia per i lavoratori che, dato il limitato sviluppo della contrattazione decentrata, hanno visto la dinamica salariale schiacciarsi sul mero recupero del potere d’acquisto minacciato dall’inflazione (assicurato dal contratto nazionale).

Il dibattito dei partner sociali sulla riforma del sistema contrattuale deve quindi confrontarsi con forza su due obiettivi: rianimare la dinamica salariale e riorganizzare le imprese per renderle più produttive. Sono questi gli elementi fondamentali dell’“operazione verità” che Montezemolo reclama e affida come compito ineludibile al suo successore.


I due obiettivi, nello spirito nuovo della riorganizzazione dei luoghi e dei rapporti di lavoro, puntano indubbiamente a una ripresa della contrattazione decentrata. Ma su questo punto non è lecito nutrire illusioni: anche nei paesi anglosassoni, nei quali la contrattazione decentrata è la forma contrattuale prevalente o esclusiva, la quota di lavoratori coperta da contrattazione collettiva non eccede il 40-45 per cento del totale. Resta, dunque, il problema fondamentale di modificare l’impianto della contrattazione nazionale in modo da assicurare che anch’essa concorra alla riorganizzazione delle imprese e alla ripresa salariale. Quest’ultima, infatti, non può essere affidata soltanto a una manovra di alleggerimento fiscale, che avrebbe soltanto l’effetto di un miglioramento one-shot del potere d’acquisto dei salari, concesso dalla politica e privo di qualunque legame con la riorganizzazione e il miglioramento continuo delle imprese.

Il contratto nazionale deve farsi carico di una funzione di supplenza e di stimolo nei confronti della contrattazione di secondo livello. A questo fine deve poter estendere il suo ruolo, oltre la difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni, sino alla distribuzione ai salari dei guadagni di produttività del lavoro delle imprese nelle quali non esiste contrattazione decentrata. E deve perciò poter agire nei confronti delle imprese marginali, tenute sinora in vita dalla bassa dinamica salariale, come un pungolo concreto alla riorganizzazione. In questa direzione vanno valorizzate, più chiaramente indirizzate al miglioramento continuo degli ambienti di lavoro ed estese a tutti i contratti nazionali le recenti esperienze varate dai metalmeccanici.

 

(Leonello Tronti è dirigente di ricerca all’Istat. L’articolo è presentato a titolo personale e non coinvolge l’Istituto di appartenenza)

 

Venerdì, 7. Marzo 2008
 

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