A che serve il contratto nazionale?

La lettera di un lettore pone la questione del potere d’acquisto e del ruolo del contratto nazionale. E’ il tema della revisione dell’accordo del 1993 sul quale dibattono esperti e parti sociali. Un tema che, per molti versi, coinvolge il futuro del sindacato

Sono un affezionato lettore del vostro sito, vorrei farvi alcune domande. Fino al 1993 c'era la scala mobile con il punto di contingenza, per il recupero dell'inflazione. I salari aumentavano per tutti allo stesso modo, dal 1° all' 8° livello. Poi c'era il contratto nazionale che serviva per aumentare i salari, in base ai livello professionale raggiunto dal lavoratore: aumenti riparametrati.  

Dal '93 in poi la scala mobile è stata abolita. Il contratto nazionale diventa l'unico strumento atto a recuperare l'inflazione, ma gli aumenti sono riparametrati  per livelli  salariali. Mi chiedo e vi chiedo, l'aumento del costo della vita non è uguale per tutti? Come mai allora il contratto nazionale, che serve a recuperare l'inflazione, non dà aumenti uguali per tutti? Penalizzando così le buste paga della maggioranza dei lavoratori, inquadrati nei livelli più bassi della scala parametrale. Vi sembra equo  questo sistema? Prima avevamo a disposizione tre strumenti per aumentare il salario: scala mobile, contratto nazionale, contratto aziendale. Ora ne rimangono due, ma nella maggior parte dei casi c'è nè solo uno: il contratto nazionale, non equo per i motivi citati in precedenza e depotenziato rispetto al passato. Vi chiedo di darmi il vostro parere in merito, grazie.

Giulio Cometto                                             

 

 

Il nostro lettore richiama l’esperienza della scala mobile per fare un confronto con il funzionamento della contrattazione nazionale. La prima – scrive – garantiva un aumento del salario uguale per tutti; mentre il contratto nazionale è basato su aumenti differenziati in relazione ai diversi livelli di qualifica.

 

In effetti, i due istituti non sono comparabili. Il contratto nazionale si basa su una scala retributiva che è riferita alle diverse qualifiche professionali e, in linea di principio, opera una differenziazione degli aumenti salariali che assume quella scala parametrale. Può anche decidere di favorire in una determinata situazione i salari più bassi. O, al contrario, allungare la scala parametrale per cogliere nuove e più elevate professionalità che, diversamente, si collocherebbero al di fuori della contrattazione collettiva.

 

Detto questo, rimane il problema sostanziale che ci sembra sotteso alla domanda del nostro lettore sul ruolo della contrattazione nazionale. Una domanda niente affatto peregrina, considerato che siamo in presenza di una generale “questione salariale”, universalmente riconosciuta. Partendo da questo riconoscimento sembra esservi un accordo generale fra i sindacati sulla necessità di rivedere il sistema contrattuale fissato dal Protocollo del 1993.  Sul contenuto delle modifiche la riflessione è aperta nelle confederazioni sindacali, nella Confindustria e, con un particolare impegno immaginativo, fra gli esperti. In attesa di conoscere i punti di approdo dell’elaborazione in corso all’interno delle parti sociali e le rispettive motivazioni, si possono far alcune osservazioni generali, tenendo conto del dibattito in corso.

 

La prima considerazione riguarda per l’appunto il ruolo della contrattazione nazionale. Si prospettano a questo proposito diverse proposte. La più radicale – avanzata da alcuni economisti e giuristi del lavoro di ispirazione neoliberale, da Boeri a Ichino – punta a una sostanziale eliminazione del contratto nazionale con l’obiettivo di centrare l’attività rivendicativa sulla contrattazione aziendale. In una forma più elaborata, la proposta viene accompagnata dall’adozione di un salario minimo garantito fissato per legge. Infine, se ne auspica un ruolo ridotto, sempre al fine di ampliare lo spazio della contrattazione aziendale ed, eventualmente, territoriale.

 

Che si tratti di abolizione pura e semplice o di depotenziamento, è evidente il carattere di svolta rispetto al tradizionale modello italiano consolidatosi negli ultimi 40 anni. Una svolta che in nessun caso potrebbe essere sottovalutata, poiché cambierebbe in profondità il rapporto fra sindacato e lavoratori. Il contratto nazionale è stato (ed è) lo strumento tipico di solidarietà fra i lavoratori, indipendentemente dalla loro maggiore o minore forza contrattuale. La sua principale funzione è la garanzia di condizioni salariali e di lavoro al di sotto dei quali non si deve andare. Ed è in questo senso che la magistratura del lavoro si è espressa, interpretando il principio di non discriminazione del dettato costituzionale. C’ è anche da aggiungere che il contratto nazionale stabilisce condizioni di parità fra le imprese, impedendo che una parte possa avvalersi della debolezza contrattuale dei propri dipendenti per esercitare una concorrenza sleale nei confronti delle altre imprese appartenenti alo stesso settore.

 

Quanto all’idea che la contrattazione nei luoghi di lavoro possa sostituire il contratto nazionale è chiaramente priva di fondamento. Essa è, infatti, praticata nelle aziende di una certa dimensione, laddove il sindacato è presente e in grado di imporre la contrattazione. Non a caso, la contrattazione aziendale copre una minoranza di lavoratori dell’ordine del 20-30 per cento. Il che significa che, anche immaginando un incremento di questa dimensione, una grande massa di lavoratori rimarrebbe priva della tutela garantita dal contratto nazionale, sia in termini salariali che di condizioni di lavoro.

 

In prospettiva, poi, la rinuncia a questo strumento di solidarietà generale e, potremmo dire, di cittadinanza nel mondo del lavoro, ha come conseguenza lo scardinamento del sindacato fino alla sua irrilevanza. Il caso americano ne costituisce un esempio eclatante: la contrattazione aziendale ha ridotto la presenza del sindacato nel settore privato all’otto per cento della forza lavoro in una tendenza storica che, in assenza di profondi cambiamenti, prospetta la  progressiva sparizione del sindacato. In assenza di tutele contrattuali, la sperequazione dei redditi da lavoro ha creato livelli di diseguaglianza simili a quelli esistenti nei primi decenni del secolo scorso. La contrattazione nazionale, che è tra l’altro un elemento costituivo della pratica dei “patti sociali”, è una parte non secondaria del complessivo modello sociale europeo a livello continentale – sia pure con la notevole eccezione della Francia dove, non caso, i sindacati hanno nel settore privato una rappresentanza sostanzialmente irrilevante.

 

Se si assume l’insostituibilità del contratto nazionale, sia ai fini della solidarietà tra i lavoratori che per la rappresentatività del sindacato, rimane il problema del suo ruolo nella definizione degli assetti salariali – oltre che, più in generale, delle norme che fissano i parametri fondamentali delle condizioni di lavoro. Da questo punto di vista, l’esperienza successiva all’accordo del ‘93 pone certamente alcune questioni che sollecitano una revisione. Ne citiamo due che appaiono particolarmente evidenti. La prima riguarda la dinamica salariale. L’accordo del '93 faceva riferimento, nello stabilire i criteri della contrattazione salariale a livello nazionale, da un lato all’inflazione programmata e, dall’altro, alle condizioni generali dell’economia. In effetti, la contrattazione è stata condotta con un esclusivo riferimento all’inflazione. Almeno per una certa fase questa linea di aperta moderazione salariale trovò la sua giustificazione nell’obiettivo dell’ingresso nell’euro.

 

La moderazione salariale può rientrare nelle scelte di politica rivendicativa, se il sindacato ritiene che il contesto generale lo richieda e se le motivazioni siano portate ai lavoratori per ottenerne il consenso. Ma, affermato questo, rimane il fatto che il contratto nazionale non può basarsi in via sistematica sul puro e semplice recupero del potere d’acquisto. La ragione è molto semplice. Il risultato di una tale impostazione – considerato che la maggioranza dei lavoratori non accede a ulteriori livelli di contrattazione integrativa – sarebbe fatalmente una riduzione della quota dei salari sul reddito nazionale con un conseguente aggravamento delle diseguaglianze sociali fra i lavoratori dipendenti e i percettori di profitti e rendite. Aggravamento della diseguaglianza paradossalmente avallata proprio dal sistema contrattuale praticato dal sindacato.

 

Se non si vuole eliminare o depotenziare (e, in pratica, rendere inefficace) la contrattazione collettiva nazionale, bisognerà ristabilire le condizioni di flessibilità della contrattazione. Nel senso di restituirgli il compito irrinunciabile di una negoziazione che tiene conto dell’insieme delle variabili che si pongono sul tavolo della contrattazione. Il tasso d’inflazione costituisce una variabile importante ma, per le ragioni dette, non può essere l’unica. Tra le altre da tenere in considerazione vi sono: la perdita già verificata di potere d’acquisto, le previsioni di crescita dell’economia nazionale, gli eventuali costi derivanti dalla modifica di istituti normativi (orari, qualifiche, e così via), l’effettività della contrattazione integrativa nel settore di riferimento. Infine, la durata del contratto nazionale dovrebbe avere una cadenza più ravvicinata rispetto agli attuali quattro anni (due o tre al massimo), in modo da rendere meno problematiche (e azzardate) le previsioni di costo per le aziende e di benefici per i lavoratori.

 

In questo quadro, la contrattazione integrativa di secondo livello, esercitata nell’arco di tempo che intercorre fra un contratto nazionale e l’altro, sarebbe fondamentalmente centrata sulla specificità delle aziende (o dei settori) di riferimento, in modo da cogliere una pluralità di elementi negoziali. Vi rientrerebbero tutti gli elementi connessi sia alle condizioni di lavoro, sia ai fattori di produttività: organizzazione del lavoro rispetto ai mutamenti tecnologici, flessibilità degli orari, mansioni, formazione, organici e tipologie dei rapporti di lavoro, salario di fatto. Questo secondo livello di contrattazione potrebbe essere esercitato sia a livello aziendale, sia alternativamente a livello settoriale/territoriale, di filiera, etc.

 

In conclusione, sembra si possa affermare che la riforma del modello contrattuale dovrebbe non incrinare, ma rafforzare l’assetto bidimensionale della contrattazione, tipica della tradizione italiana, e sempre più praticata dal sindacalismo europeo. I suoi contenuti dovrebbero, in sostanza, contemperare due obiettivi. Da un lato, il rafforzamento degli elementi di solidarietà per contrastare i rischi di una crescente e dirompente diseguaglianza sociale. Dall’altro, una strumentazione sufficientemente flessibile, in grado di tener conto delle spinte profonde che l’evoluzione tecnologica e la pressione della competitività internazionale esercitano sull’organizzazione del lavoro e sui sistemi produttivi delle imprese. Dovrebbe trattarsi, in definitiva, di una riforma i cui obiettivi e le cui motivazioni siano chiari e trasparenti. E proprio su questa base in grado di guadagnare tanto un consapevole consenso dei lavoratori quanto una lungimirante adesione degli imprenditori.
Venerdì, 7. Dicembre 2007
 

SOCIAL

 

CONTATTI