Previdenza, solo pubblica frena la crescita

Il solo sistema a ripartizione non regge di fronte all'invecchiamento della popolazione, sostengono gli economisti del Cerm replicando alle critiche di Clericetti e Pizzuti. Il sistema multi-pilastro consente inoltre di bilanciare meglio la spesa per il sistema di welfare complessivo
Abbiamo letto i commenti di Carlo Clericetti e Roberto Felice Pizzuti e ci sentiamo coinvolti in una replica. Tentiamo di farlo sinteticamente, rifuggendo il più possibile da classificazioni del pensiero (di cui si fa sovente troppo leggero uso). Possiamo rassicurare che non abbiamo velleità di riscrivere in negativo l'economia del benessere. Né ci appartiene la abominevole tesi che la spesa sociale sia uno spreco (dove mai Pizzuti ha letto posizioni di questo genere nei nostri lavori?); al contrario, siamo sicuri essa sia, oltre che strumento di riconoscimento dei diritti, anche motore di crescita economica.
 
Con non poca amarezza osserviamo che la posizione a favore delle pensioni multipilastro è interpretata tout court come contraria al welfare system e alla coesione sociale. Non è così. In tutti i contributi sul tema (la maggior parte dei quali visionabili su www.cermlab.it), la riforma è stata sempre posta al centro di una riorganizzazione del welfare system che ne potenziasse efficienza ed efficacia. Il solo livello di spesa non è garanzia di diffusione del benessere. Conta la qualità della spesa, e in questa rientra sicuramente la sua diversificazione. Il multipilastro fornisce la via per compiere la riforma delle pensioni assieme al rafforzamento della spesa pubblica assicurativa e assistenziale che, nonostante integri più delle pensioni finalità redistributive e perequative, è in Italia storicamente debole e inferiore ai livelli dei Partner UE. In questi comparti di spesa la presenza del pubblico è essenziale, perché il mercato fallisce nel fornire quelle prestazioni (1).
 
Il sostegno della spesa sociale allo sviluppo è tanto maggiore quanto più la stessa non è, come in Italia, concentrata su una sola voce, le pensioni, a tutela del benessere nell'ultima fase della vita degli insider al sistema pensionistico, ma è articolata a presidio del benessere e dell'integrità psico-fisica di tutti i cittadini in tutte le fasi della vita.
In un recente libro, "Growing Public" (Cambridge University Press, 2004) , P. H. Lindert fornisce una varietà di argomenti che pongono il sistema di sicurezza sociale al centro dello sviluppo organico e solido dell'economia. Ma Lindert non manca di porre enfasi sul disegno dei vari istituti e sulla loro combinazione proporzionata e consapevolmente contestualizzata.
 
Parte della riorganizzazione del welfare system in cui proiettiamo la trasformazione multipilastro dovrà essere la riforma della fiscalità dei pilastri previdenziali privati. Roberto Pizzuti non può affermare che abbiamo colpevolmente tralasciato l'argomento, quando sin da subito (dopo la comparsa della bozza di quello che è poi divenuto il "Testo Unico Previdenziale") abbiamo sollecitato una repentina "contro" riforma, non solo mettendo in guardia dagli effetti negativi della attuale forte regressività, ma descrivendo i vantaggi di schemi progressivi nell'attribuzione delle agevolazioni (2).
 
Ad oggi, sia le pensioni pubbliche sia il TFR funzionano a capitalizzazione nozionale con finanziamento a ripartizione (3). Questo sistema possedeva proprietà positive negli anni '60, 70 e primi '80, quando la numerosità degli attivi rispetto agli anziani permetteva che con un limitato concorso di tutti si potessero corrispondere pensioni di importo medio elevato (ossia la ripartizione, cioè la suddivisione tra tutti gli attivi della promessa intergenerazionale, si svolgeva in maniera ottimale). Con l'inversione della piramide demografica, però, i parametri sono cambiati: una quota crescente dei redditi prodotti anno per anno è destinata ad essere assorbita dal pagamento delle pensioni, e questa pressione genera effetti depressivi su domanda/offerta di lavoro e su investimento/produzione.
 
Carlo Clericetti correttamente osserva che la pressione fiscale e contributiva italiana non è superiore a quella dei partner UE, ma dimentica di aggiungere che il cuneo contributivo lato impresa (la differenza tra il costo del lavoro e la retribuzione lorda corrisposta al lavoratore) è il terzo più elevato dell'area OCSE, e che la maggior parte di questo cuneo è da ricondursi agli oneri previdenziali.
 
Clericetti compie, a nostro avviso, un errore di generalizzazione simile a quello di Pizzuti. Lì dove Pizzuti ci segnala come "avversari" del welfare system perché sostenitori del multipilastro senza null'altro chiedersi sulla riorganizzazione dei comparti di spesa diversi dalle pensioni, Clericetti ci ricorda che la pressione fiscale e contributiva italiana è allineata a quella Europea, senza soffermarsi sul punto cruciale, e cioè quale porzione della stessa rimane assorbita dal pagamento delle pensioni lasciando poco spazio alle altre funzioni. È questo il punto di partenza dell'approccio riformista favorevole al multipilastro.
 
Quello che vorremmo chiedere è di contenere l'immediata "levata di scudi" al solo sentir proferire l'aggettivo "sociale", per valutare nella sua interezza la logica della trasformazione multipilastro, e in particolare i vantaggi micro e macro (non c'è dicotomia tra i due (4)) di affiancare un sistema a capitalizzazione nozionale finanziato a ripartizione (le pensioni pubbliche) con uno a capitalizzazione reale finanziato con la liquidazione di investimenti programmati ad hoc (i pilastri privati).
 
La capitalizzazione nozionale ha una proprietà insostituibile: estende a tutti l'accesso ad uno stesso tasso di rendimento (dei contributi previdenziali) a basso/nullo rischio; può far questo, perché è seguita dal finanziamento a ripartizione, che garantisce (fino a quando è sostenibile) l'esistenza di risorse con cui effettuare i pagamenti. La ripartizione è anche garanzia di poter sempre finanziare la perfetta indicizzazione delle pensioni pubbliche all'inflazione. Accanto a questi pregi, tuttavia, si devono considerare anche dei limiti: sia la capitalizzazione nozionale sia la ripartizione fanno affidamento sul sottostante processo produttivo (5), ma non si "misurano" direttamente con la creazione di ricchezza reale. Di fronte all'invecchiamento della popolazione, quest'ultima caratteristica tenderà a trasformare la ripartizione in qualcosa che non era configurabile nelle decadi passate, è cioè in un gravame sproporzionato che diffonde effetti distorsivi e rallenta la crescita economica, restringendo anche gli spazi operativi del welfare system!
 
Caratteristiche opposte e simmetriche ha la capitalizzazione reale con finanziamento tramite liquidazione degli investimenti. Sui mercati finanziari sono alti/proibitivi sia i costi di riprodurre un tasso di rendimento garantito (un "tasso tecnico" (6)) sia quelli di fornire perfetta indicizzazione di una rendita all'inflazione (e tanto maggiori quanto più lungo l'orizzonte temporale). Per converso, i capitali previdenziali sono indirizzati verso le opportunità migliori di rendimento/rischio ed entrano direttamente nel processo produttivo creando ricchezza reale. È sulla base di queste osservazioni che riteniamo ottimale il multipialstro. Il mix capitalizzazione "nozionale / reale" e finanziamento "a ripartizione / con liquidazione investimenti" cambia la dinamica strutturale dell'economia.
 
Di fronte all'invecchiamento della popolazione, l'utilizzo sproporzionato della capitalizzazione nozionale rischia di far diventare questa stessa, per utilizzare una espressione cara a Federico Caffè, capitalizzazione di "carta", sostenuta, finché ce la si fa, con la ripartizione, ma senza "fondazione" nelle capacità del sistema di generare redditi (7).
 
E ad indebolire questa tesi (comune a Clericetti e  Pizzuti) non vale l'osservazione che i pilastri privati investono anche all'estero o investono in obbligazioni e non in azioni.
Non c'è nessun disegno "autarchico" nascosto dietro la trasformazione multipilastro. I pilastri privati devono investire lì dove trovano le migliori opportunità per accrescere l'accumulazione dei benefici pensionistici (indipendentemente se tramite obbligazioni o azioni), perché non sono né devono diventare uno strumento di politica industriale ma devono, al contrario,  rimanere completamente indipendenti dal policy maker. Non devono fare nulla di meno e nulla di più, perché è la massimizzazione dei benefici pensionistici, sorretta dalle agevolazioni fiscali, che permette, a parità di obiettivo per il tasso di rimpiazzo netto (prima pensione netta / ultima retribuzione netta), di riequilibrare la composizione delle pensioni - tra quota pubblica e quota privata - e quindi anche la modalità di loro finanziamento - tra ripartizione e liquidazione di investimenti. È in questo modo che si possono contrastare gli effetti negativi che l'invecchiamento della popolazione genera nei sistemi che si affidano esclusivamente alla capitalizzazione nozionale finanziata a ripartizione.
 
E anche se i capitali previdenziali entrano in processi produttivi internazionali e non interni, questo non toglie che essi generino redditi reali per i lavoratori-risparmiatori.
A questo effetto strutturale di base se ne aggiungono altri due:
- in primo luogo, la massimizzazione dell'accumulazione tramite investimenti su scala internazionale conquista base imponibile per il fisco interno; e tanto più forte è questo effetto, tanto maggiore è la capacità di "autofinanziare" le agevolazioni fiscali alla stessa previdenza privata;
- in secondo luogo, una parte degli investimenti sarà captabile da quella domanda di capitali interna che saprà farsi selezionare per redditività e per affidabilità (è il compito della gestione di portafoglio) (8).
 
Ma questo secondo punto (pur di rilievo e tutt'altro che escludibile, soprattutto in prospettiva) è aggiuntivo rispetto ai benefici del riequilibrio delle modalità di finanziamento, indispensabile a ricreare adeguate proporzioni nel funzionamento dell'economia pubblica e privata. Si tratta di due argomenti distinti, che il dibattito contrario al multipialstro sovrappone integralmente, ricollegando i benefici della diversificazione soltanto all'effetto diretto, di tipo "autarchico", sul capitale interno.
 
V'è poi da dire che l'effetto positivo sul PIL, che è possibile attendersi sia dalle migliori proporzioni tra le parti del sistema economico sia dalla diversificazione della spesa pubblica per welfare (concordiamo sulla sua importanza!), renderà possibile di per sé tassi di crescita superiori, creando nuova ricchezza reale pubblica e privata, che potrà essere dedicata al rafforzamento degli stessi istituti del welfare system o a programmi di investimento. Il successo del multipialstro non dipende da quanto gli investimenti dei Fondi pensione privilegeranno gli impieghi nazionali al di fuori di pure valutazioni di convenienza per il lavoratore-investitore.
 
E non dipende neppure dalla composizione "azioni - obbligazioni - titoli di Stato" nel portafoglio dei Fondi pensione. L'importante è che questa combinazione venga scelta liberamente con l'obiettivo di massimizzare i rendimenti di lungo periodo per il lavoratore-investitore, e non forzata per altri motivi. È errato collegare la capitalizzazione reale alle sole azioni e vedere obbligazioni e titoli di Stato come soluzioni di investimento che ripresentano, sotto altre forme, la capitalizzazione nozionale.
 
A noi sembra che la caratteristica "nozionale" / "reale" della capitalizzazione non possa che stare (alla radice di tutto) nella responsabilità, e quindi negli incentivi individuali:
- della parte di chi offre capitali di valutare nella maniera più approfondita possibile l'affidabilità del richiedente, e quindi di valutare la capacità di quest'ultimo di far corrispondere al tasso di interesse a cui si indebita un ritorno reale dei suoi impieghi almeno dello stesso livello;
- della parte che domanda i capitali di impiegare gli stessi in maniera tale da massimizzarne il ritorno reale.

Per fare un esempio estremo ma efficace, andrebbe considerata "nozionale" qualunque capitalizzazione a tassi promessi da richiedenti "irresponsabili", che non esitassero ad emettere titoli a rendimento alto ed irrealistico ben sapendo di non avere equivalenti possibilità di impiego (il punto rimane valido sia per il privato sia per il pubblico) (9).
Benvengano, quindi, anche le obbligazioni e i titoli di Stato (dell'Italia e di altri Stati), purché il loro acquisto sia liberamente scelto nell'ambito della gestione di portafoglio e non rappresenti una domanda obbligata dalla normativa. Si crea una dispendiosa "partita di giro" (come la definisce Pizzuti) soltanto quando i Fondi pensione sono obbligati all'acquisto di titoli di Stato, senza o addirittura contro ogni valutazione di convenienza e di gestione rendimento/rischio.
 
Il punto debole della proposta con cui Clericetti conclude il suo intervento è proprio qui. Ipotizzare che il TFR possa essere investito in titoli di Stato indicizzati al PIL (emessi per l'occasione) per finanziare opere pubbliche e R&S (del resto, una variante del "fondo infrastrutture" già previsto in Finanziaria-2007) significa, né più né meno, riproporre la via allo sviluppo tramite indebitamento pubblico e ruolo operativo pervasivo dello Stato, riportando la Finanza Pubblica a prima del "divorzio" tra Tesoro e Banca d'Italia. Non solo non è una soluzione percorribile perché l'Italia ha l'obbligo di adottare politiche di rientro dal debito (la "convivenza" europea ce lo chiede), ma è anche una soluzione "antichissima" e di cui la storia di questo paese può raccontare molti "vizi".
 
Pizzuti, nel suo intervento a continuazione di quello di Clericetti, addirittura arriva a vedere combinabili la proposta di investire il TFR in titoli di Stato con quella di "investire" il TFR nell'IPNS. Sarebbe una scelta dalle conseguenze pericolose e difficilmente reversibili: proprio adesso che è necessario un sforzo di "fondazione" delle promesse intergenerazionali nelle capacità reali di produrre redditi, si chiederebbe all'offerta di risparmio di assorbire supinamente debito pubblico da un lato e, dall'altro, di sostenere e ampliare il sistema pensionistico a capitalizzazione nozionale finanziato a ripartizione del quale, di fronte all'invecchiamento della popolazione, stiamo già facendo uso sproporzionato.

Ci sono, inoltre, alcuni punti sui quali non ci si dilunga, ma ai quali deve essere assegnata adeguata importanza quando si affrontino argomenti previdenziali:
- gli orizzonti su cui valutare/confrontare i rendimenti dei pilastri privati sono pluridecennali, il più possibile equivalenti alla lunghezza di una carriera lavorativa (30-35-40 anni);
- i portafogli dei Fondi pensione non replicano in maniera adattiva la composizione degli indici di Borsa, ma selezionano gli investimenti su più mercati (non solo quelli finanziari ma anche quelli immobiliari) in modo tale da massimizzare l'accumulazione dei benefici per il lavoratore-investitore sotto il vincolo di esposizione al rischio;
- i Fondi sono investitori soggetti ad una regolamentazione ad hoc e rispondenti ad un organismo di sorveglianza specifico (la COVIP, www.covip.it), a presidio della professionalità dei gestori, del rispetto delle modalità di conduzione e dei limiti alla composizione del portafoglio e all'esposizione al rischio, della trasparenza nei rapporti con i lavoratori-investitori;
- il risparmio che affluisce ai pilastri privati non è in alcun modo risparmio che si "avventura" in Borsa o che tenta "facili guadagni a spese di alti rischi" in Borsa;
- riviste, secondo le nostre proposte o altre che potranno arrivare nel 2007 (il governo ha già annunciato la riforma), le agevolazioni fiscali complessive (lungo tutte le fasi dell'investimento) alla previdenza complementare, oltre ad incentivare l'adesione, possono rappresentare un veicolo di redistribuzione con diverse proprietà positive (10).
 
V'è, da ultimo, un'altra osservazione che, per non essere tacciati di "non falsificabilità" (soprattutto da un filosofo come l'amico Clericetti), riportiamo in sordina (11), ma alla quale comunque crediamo: anche le performance di Borsa (come il tasso di crescita del PIL) sono endogene agli aspetti strutturali dell'economia, perché derivano dall'attività e dallo sviluppo delle imprese quotate. Il ricorso esclusivo alla capitalizzazione nozionale finanziata a ripartizione è da vedersi, di fronte al processo di invecchiamento della popolazione, come  fattore negativo per entrambi i fattori, capitale e lavoro, legati nella funzione di produzione.
 
Anche di fronte alle critiche (sempre lecite e da accettare con rispetto, ovviamente) che Clericetti e Pizzuti hanno ritenuto di muovere al nostro precedente intervento, sentiamo necessità/dovere di ribadire la nostra contrarietà a qualunque soluzione che allontani il TFR dai pilastri previdenziali privati e, quindi, allontani nel tempo (o addirittura comprometta) la trasformazione multipilastro del nostro sistema pensionistico.
 
Dissentiamo, per tutto ciò, dalla conclusione di Clericetti: non ci stiamo occupando di problemi immaginari, da proporre (a chi?) "come alibi per obiettivi che con la previdenza e lo sviluppo hanno poco a che vedere". Sentiamo di non occuparci (pur parlando di previdenza) solo di previdenza, e soprattutto solo della previdenza delle generazioni di oggi e di chi, nelle generazioni di oggi, ha una occupazione stabile (12). Tentiamo di occuparci della riforma del welfare state, affinché, di fronte ai cambiamenti dell'economia e della società, possano essere ribadite e anzi rafforzate le finalità di coesione sociale, inclusione e partecipazione, produzione e diffusione di benessere che i suoi creatori gli hanno assegnato nello scorso secolo.

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Note
(1)
 Dal sostegno alle famiglie alla maternità, all'assicurazione contro la disoccupazione, al reddito minimo di cittadinanza (tra cui rientrerebbe anche l'elevazione al minimo dei redditi da pensione), al fondo per la non autosufficienza. Cfr. recente articolo su www.lavoce.info a firma di Marco Di marco, "Se ai poveri manca il minimo vitale". Tra la spesa assicurativa e assistenziale rientra anche quella sanitaria, dove il mantenimento del più ampio perimetro dei LEA (livelli essenziali di assistenza), di fronte all'invecchiamento della popolazione e all'impatto del progresso tecnologico sui costi, è subordinato alla creazione delle idonee possibilità di Finanza Pubblica.
(3) Cfr. nota in calce n. 30 della Nota CERM n. 1-07.
(4) Il mix tra pilastri non è a "somma zero", perché non consisterebbe soltanto in un rimescolamento di voci contabili tra ciò che annualmente è prelevato come contribuzione sociale e ciò che è investito nei pilastri privati. Esso inciderebbe sulla dinamica strutturale dell'economia (cfr. infra).
(5) La capitalizzazione nozionale contando che i tassi di crescita siano ex-post sufficienti alla formazione dei redditi pensionistici; la ripartizione appoggiandosi "staticamente" sui redditi già prodotti come finte di finanziamento.
(6) Che dovrebbe essere anche uniforme per tutti per imitare in toto il sistema pubblico.
(7) Inoltre, al crescere dell'età media la propensione al risparmio tende a calare e le scelte di portafoglio a rivolgersi verso le soluzioni più liquide. È quindi necessario compensare per tempo la caduta degli aggregati del risparmio e dell'investimento, organizzandoli e incentivandoli a partire dalle prime fasi della vita.
(8) In tal caso, c'è un effetto positivo diretto sull'accumulazione di capitale. Cfr. su www.lavoce.info, Jappelli-Pagano, "Meno risorse per l'accumulazione". Si ricorda che l'ultimo DPEF riporta evidenze chiare di una sottocapitalizzazione del sistema produttivo italiano.
(9) Cfr. Nota CERM n. 1-07, note in calce nn. 29, 30, 31.
(10) Cfr. Nota CERM n. 1-07, paragrafi 5 e 7.
(11) L'argomento è più complesso della semplice enunciazione che qui si propone. Tenteremo di dedicarci un po' più di riflessioni e di tempo più in uno dei prossimi lavori.
(12) Cfr. "Pensioni e mercato del lavoro: 'uniti' da una riforma liberale" e "Fiscalità della previdenza privata e adeguatezza delle pensioni", due Editoriali su www.cemrlab.it.
Venerdì, 19. Gennaio 2007
 

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