Il Tfr giocato al casinò

I giornali hanno celebrato il nuovo record del Dow Jones, ma ciò significa solo che Wall Street è tornata al livello di sei anni fa e che al netto dell'inflazione è ancora sotto del 20%. Dovrebbero rifletterci quegli economisti che spingono per il trasferimento del Tfr ai Fondi pensione
Avendo messo da parte un gruzzolo di risparmi, in un certo numero di anni di lavoro, allo scopo di accrescere con una rendita integrativa la vostra pensione di vecchiaia, preferireste investire quel gruzzolo a un tasso di rendimento annuo più o meno del tre per cento, che è quello garantito dal TFR, o preferireste impiegarlo a un tasso di rendimento del 7-8  per cento come quello realizzato dai Fondi pensione a capitalizzazione? La domanda che implicitamente pone Agar Brugiavini su www.lavoce.info  potrebbe essere considerata retorica, e la risposta del tutto ovvia.
 
Quale lavoratore è così ottuso da non preferire un tasso di rendimento più o meno triplo, semplicemente trasferendo il suo TFR a un Fondo pensione? Perché i lavoratori si ostinano testardamente a non compiere questo passo che a giudizio degli scrittori della "voce.info" è così ovvio? Eppure qualche ragione ci deve essere, se non ci precipitiamo tutti a investire fino all'ultimo euro disponibile nei Fondi a capitalizzazione, in modo da garantirci una vecchiaia rallegrata da un imprevisto benessere economico. Vediamo di chiarire le ragioni dell'ignoranza o dell'ignavia che impedisce alla grande maggioranza dei lavoratori di fare la scelta giusta, o quella che giusta appare a una così vasta schiera di economisti "indipendenti" e tendenzialmente di centrosinistra, secondo la definizione di Eugenio Scalfari.
 
Il 2005  è stato un anno molto favorevole per chi ha investito i propri risparmi in Borsa. A riprova abbiamo avuto la notizia che il 4 ottobre il Dow Jones, l'indice dei trenta maggiori titoli azionari americani, ha trionfalmente varcato la soglia di 11.727 punti che era il picco massimo stabilito a gennaio del 2000, stabilendo un nuovo record nella storia della Borsa americana. Una buona notizia per quelli che giocano in Borsa, ma con un risvolto. Per tornare ai valori dell'inizio del 2000, il Dow Jones ha impiegato un periodo di oltre sei anni.  L'intermezzo è stato per molti investitori tutt'altro che brillante, e per una parte di essi è stato un vero e proprio disastro con perdite cumulative che il Wall Street Journal calcola in migliaia di miliardi di dollari!
 
Ma non basta, il picco toccato in questi giorni di ottobre è a valori nominali: in termini reali, vale a dire al netto dell'inflazione, è ancora al di sotto del valore del 2000 per circa il 20 per cento. In ogni caso, l'indice generale di Wall Street, lo Standard&Poor rappresentativo delle 500 maggiori aziende americane, non ha ancora recuperato nemmeno i valori nominali antecedenti allo scoppio della bolla del 2000. Chi poi si era affidato agli investimenti della "New economy", vale a dire ai titoli "tecnologici" quotati al Nasdaq, deve ancora registrare una perdita del 55 per cento del valore.
 
Che uno speculatore perda o guadagni collocando i propri risparmi sui mercati finanziari fa parte della fisiologia di quel "casino" (con l'accento sulla o) che John M. Keynes considerava la Borsa. Il grande economista inglese, peraltro, si arricchì e non poco con la speculazione, vuoi per la sua incomparabile competenza, vuoi, forse, per una certa dose di fortuna. Ma non per tutti è così, come sanno quelli che nel 2003 avevano perduto tra il 50 e il 70 per cento del valore delle azioni rispetto ai picchi della fine degli anni 90, per non parlare di quanti - non necessariamente stupidi - hanno perduto tutto o quasi, avendo investito in bond argentini o in azioni Enron o WorldCom.
 
Ma torniamo ai Fondi pensione. In passato le imprese americane, trattenendo una quota di salario stabilita contrattualmente, s'impegnavano a versare un certo ammontare di pensione integrativa ai propri  lavoratori. Per un lungo periodo sembrò ci guadagnassero tutti: le imprese che reinvestivano i danari dei lavoratori, e questi che avevano la garanzia di una  pensione integrativa di quella pubblica (la Social Security) contrattualmente predefinita.  Ma negli ultimi anni il sistema è cambiato: il crollo delle azioni ha messo in crisi i piani pensionistici delle grandi imprese che hanno dovuto ricorrere al Fondo di garanzia nazionale, fino ad esaurirne le risorse. I lavoratori sono spesso rimasti con un pugno di mosche in mano e alcune grandi imprese, comprese la General Motors e la Ford, costrette a riparare al collasso dei Fondi pensione a carico del bilancio, sono in bilico sull'orlo della bancarotta.
 
Quale è stata la reazione di fronte a questa débacle? Un semplice rovesciamento dell'attribuzione del rischio. Il rischio finanziario che prima era assunto dall'impresa che s'impegnava a pagare una pensione integrativa predefinita (defined benefit), ora è trasferito sui  lavoratori che versano una contribuzione definita (defined contibution) per una pensione che dipenderà dagli andamenti del mercato finanziario e dai costi d'intermediazione.
 
Il caso è analogo a quello del TFR. Secondo le norme che lo regolano, il suo rendimento è composto da una quota fissa dell'1,5 per cento a cui si aggiunge una quota pari a tre quarti dell'inflazione corrente. Se l'inflazione si mantiene entro i limiti previsti nell'area dell'euro (intorno al 2 per cento), il rendimento è sempre positivo, oltre a essere garantito il capitale. Una volta conferito ai Fondi a capitalizzazione, il rendimento può essere alto come nella seconda parte degli anni 90 così come può sprofondare a seguito dello scoppio di una bolla speculativa, come di fatto è periodicamente accaduto nella storia dei mercati finanziari.
 
E' consigliabile l'assunzione di questo rischio a un lavoratore, il cui risparmio deve servire a costituire una quota di pensione integrativa diretta ad accrescere quella di base? La risposta pressoché generale è che è consigliabile. E' questa del resto la logica del silenzio-assenso: se il lavoratore non dice nulla, il TFR è automaticamente trasferito a un Fondo a capitalizzazione. Finora i lavoratori che hanno optato per questa soluzione sono un'estrema minoranza nell'ordine del 15 per cento.
 
La legge finanziaria ha introdotto una novità. Se il lavoratore non opta per un Fondo, il 50 per cento del TFR rimane in azienda e l'altra metà è trasferita all'INPS che garantisce lo stesso rendimento della parte collocata in azienda. Il modello non è del tutto chiaro, ma apre un percorso nuovo che può ampliare la facoltà di scelta del lavoratore. In sostanza si potrebbero delineare tre possibili opzioni per quanti intendano utilizzare il TFR per la costituzione di una pensione integrativa, una volta che si rinunci a mantenerlo in azienda.
 
Prima opzione: il lavoratore sceglie espressamente (non basta il silenzio-assenso) la destinazione del TFR a un Fondo a capitalizzazione, assumendosi la responsabilità del rischio proprio dei mercati finanziari.
 
Seconda: il TFR, integralmente o in parte (poniamo l'attuale 50 per cento previsto dalla finanziaria), è trasferito all'INPS e investito in Fondi obbligazionari emessi da enti pubblici (enti locali, Cassa depositi e prestiti), destinati a investimenti in opere pubbliche - così come avviene negli stati Uniti per i bond delle Municipalities - con una garanzia di rendimento almeno pari a quella prevista dal TFR. La raccolta potrebbe essere affidata all'INPS con costi vicini a zero, e il lavoratore potrebbe optare (come avviene in Svezia) per la destinazione del risparmio verso un numero predeterminato di Fondi, a seconda del rendimento offerto.
 
Terza opzione: il TFR, secondo la proposta illustrata su E&L da Roberto Pizzuti, potrebbe essere trasferito in tutto o in parte all'INPS, su scelta esplicita del lavoratore, come aggiunta alla contribuzione ordinaria. Il risultato, in questo caso certo, sarebbe un consistente aumento della pensione, considerato che il tasso di remunerazione dell'accantonamento eguaglia la crescita del PIL.
 
Per ciascuna di queste opzioni risulterebbero chiari a ciascun lavoratore i percorsi possibili, i rischi che eventualmente intende assumersi e, alternativamente, le garanzie che intende conseguire per garantirsi una vecchiaia decorosa. In ogni caso, non lo si forzerebbe a trasformarsi in un involontario (e avventuroso) agente della speculazione con assoluta incertezza per il suo futuro. In via collaterale, se una parte dei flussi del TFR fosse impiegata in fondi per le opere pubbliche, sarebbe il paese ad avvantaggiarsene, evitando che il risparmio dei lavoratori finisca nei mercati finanziari internazionali.
Domenica, 8. Ottobre 2006
 

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